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Neva Cuisine – Chef Beatriz Gonzales e Yannick Tranchant, Parigi, Orson

Recensione ristorante.

Il vantaggio di Parigi è che, quando non si riesce a trovare posto nel ristorante di cui si parla di più (Septime) o alla già apprezzata Bigarrade, senza troppo penare, si può trovare un’interessante nuova apertura a due passi dal proprio albergo.
In questo caso, il bistrot ristrutturato e avviato, con notevole sprezzo del pericolo, da due giovani entusiasti reduci dalla Grande Cascade, in un angolo di città poco avvezzo alla ristorazione di qualità, quel quartiere Europe che è l’appendice “sfigata” del ricco 8° arrondissment.
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Recensione ristorante.

Si è fin troppo facili profeti a prevedere un avvenire riccamente stellato a David Toutain. Il curriculum faceva già presagire ottime cose (già da Passard, secondo di Veyrat, passaggio da Aduriz e al Corton di New York), il bombardamento dei blog di settore quasi indispettiva, ma dopo una serata all’Agapé Substance non si può non dirlo: uno degli chef più avvincenti incontrati da tempo.
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Continuiamo con le segnalazioni in tempo reale dalla “ville lumière”. Oggi è la volta di un vero locale di culto.

Dove vanno a mangiare gli chef “di tendenza”? Dove è possibile trovare seduti fianco a fianco Alain Ducasse e Inaki Aizpitarte, alla faccia delle contrapposizioni manichee così popolari di questi tempi ? (altro…)

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La scena parigina muta a ritmi impensabili per noi italiani. Certo le aperture, i cambiamenti, e talvolta le chiusure procedono a ritmo serrato per il grande fermento creativo, ma è innegabile che anche la maggiore velocità nell’arrivo dei riconoscimenti e la maggiore reattività della rossa siano un ottimo corroborante per l’espressione dei talenti locali. Per chi non segue da vicino gli accadimenti luteziani il nome di Frédéric Simonin potrà probabilmente suonare nuovo, ma questo 35enne bretone, forte di esperienze presso Le Meurice, Ledoyen e Taillevent, nonchè di recente chef alla Table di Robuchon, in pochi mesi di attività è riuscito a conquistare immediatamente la stella, la terza della sua già lunga carriera. Stella che a nostro parere si sentirà presto sola e avrà bisogno di compagnia. In questo momento infatti l’unico interrogativo che la nostra ottima cena lascia aperto riguarda il legame col cordone ombelicale dell’immenso Joel, tant’è che in carta troveremo non solo il celebre puré, ma anche un dessert già documentato dal nostro oscurocoltello in quel dell’Atelier di hot cotture parigino. Le citazioni sono in carta quindi non si può certo parlare di mancanza di personalità, ma ritengo anche che a questi livelli di talento (e di perfezione tecnica) la sola purea sia già un omaggio sufficiente alla grandezza del Maestro. Volendo esaurire subito gli appunti aggiungo anche che il servizio, simpatico e disponibile, si è reso però protagonista di un numero di errori che a questo livello di cucina, ma anche di prezzi, è davvero difficilmente accettabile. A parte un volo di pani per tutta la sala e l’arrivo dei vini in costante ritardo sui piatti, devo segnalare che l’agognato puré è stato completamente dimenticato ed è giunto in tavola, dopo che lo abbiamo reclamato, quando le nostre fantastiche portate principali erano ormai state terminate. Non è comunque superfluo segnalare che non ci è stato addebitato in sede di addizione.

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Un’altra cosa che salta all’occhio è l’estrema parsimonia nell’arricchire la comanda di quei dettagli che ormai riteniamo quasi diritti inalienabili. Nulla infatti accompagnerà l’aperitivo, l’amuse bouche sarà piuttosto striminzito, e non ci saranno né predessert né piccola pasticceria, se escludiamo le due praline che accompagneranno i nostri caffè.

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La carta dei vini è null’affatto scontata, né per scelte né ahimè per prezzi, già al livello delle ambizioni della cucina. Noi ci affideremo ad una scelta di calici, trovando nel bicchiere vini dal rapporto qualità prezzo ottimo per l’acquisto in enoteca, prezzati tuttavia al calice in maniera davvero poco conveniente. Le note negative, che non riguardano minimamente la qualità di ciò che abbiamo degustato, finiscono qui, perché dalla cucina di questo ristorante sono usciti piatti che, pure non aprendoci nuove prospettive, ci hanno fornito un notevole esempio di ciò che significhino la cura delle cotture, la scelta delle materie prime, l’attenzione per i dettagli.

Si apre con un’impeccabile crema di fegato d’anatra con gelatina al porto e schiuma al parmigiano a stimolare molte zone del palato,

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per proseguire, sullo stesso tema, con la terrina di fuagràdecanar al vin cotto accompagnata da una marmellata di fichi “Sollies-Lerida”.

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Vigorosi e di carattere gli splendidi gamberi “façon marinière” al vino d’Arbois e pepe di Cayenna, al servizio di una materia prima fantastica (foto di copertina).

Non è da meno il San Pietro al burro di yuzu con vongole al cardamomo e cipollotti, piatto in cui è palese la matrice orientalrobuchoniana, finissimo ed equilibrato in ogni componente.

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Più materica senz’altro ma di soddisfazione impareggiabile la costoletta di vitello, dalla cottura inevitabilmente perfetta, con il suo jus alla salvia, presente anche nelle croccanti rissoles in accompagnamento, e patata confit.

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Impeccabile anche il già citato soufflé allo yuzu con gelato al caramello, il cui gioco di temperature e la cui perfezione esecutiva erano già state a buon titolo lodate nella scheda dedicata all’Atelier.

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Guardando al lato culinario “assoluto” per Frédéric Simonin la valutazione potrebbe perfino risultare stringata, ma attendiamo con fiducia che il processo di “svezzamento” si completi e che il ristorante finisca di prendere la propria direzione definitiva prima di lanciarci verso le vette più alte.

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Consiglio amico. Se vi dovesse capitare di progettare un pranzo al Pré Catelan non sottovalutate le distanze all’interno del Bois de Boulogne. Viceversa potreste come il sottoscritto liquidare con un sorriso l’idea di prendere un taxi, che tanto una passeggiata prima di pranzo mette appetito, e poi la vedi amore la mappa, saranno sì e no 500 metri dalla fermata del metrò. E ovviamente, una volta che all’interno del parco, senza una singola indicazione verso il ristorante, vi renderete conto che sono volatili per diabetici (cit. Lino), sarete già troppo fuori dal mondo civilizzato per trovare un’alternativa. Fra le conseguenze ci saranno in primis un tour nel meraviglioso e variegato mondo dell’amore mercenario locale, in cui il punto più alto è stato la visione di Eritreo Cazzulati con la parrucca di Uma Thurman in Pulp Fiction, e in allegato conseguente rischio divorzio scongiurato unicamente dall’impossibilità di trovare un avvocato nelle vicinanze. Per fortuna che una volta trovato il ristorante, deliziosamente (è il pensiero a freddo) isolato all’interno dei meravigliosi giardini che del Bois de Boulogne costituiscono l’oasi più curata, ogni cattivo pensiero svanisce nel profumo di fiori e nella pace di questo luogo incantevole.
L’accoglienza è quella che amo di più, elegante ma non ingessata, autoironica ed allo stesso tempo impeccabile, con il classico maitre e mez che corre anche a coprire le magagne del giovane commis che tenderà a lasciarci costantemente senz’acqua (in tal proposito non so voi, ma io la bottiglia d’acqua preferisco comunque averla a tavola), ed un divertentissimo chef de rang che probabilmente come secondo lavoro è la controfigura di Jackie Chan nelle scene in cui occorre recitare.
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La cucina di Frédéric Anton, MOF 2000, è come quella del suo maestro Robuchon influenzata in maniera palpabile dalla sensibilità giapponese. Avremo perciò piatti concentrati, saporiti ma sempre, a dispetto della grassezza di molti ingredienti, con una certa etereità di fondo che renderà piacevolissimo anche il post-pranzo. Guardare a oriente è d’altronde un modo sicuro per riuscire a proporre le solite materie prime dell’alta cucina francese senza cadere nella noia, o perlomeno (non in questo caso, ovviamente), spostando un po’ più in là il limite della banalità. Tutti i piatti sono organizzati come declinazioni di ingredienti. Per ciascuna portata ordinata avremo, perciò, due o tre preparazioni.
L’amuse bouche è costituito da un’ottima crema di cipolle con schiuma di funghi, morbida e concentrata.
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A seguire la cappesanta in tre preparazioni. Marinata alla soia e cotta su un sasso basaltico (la scenografia qui mette a rischio i tempi di servizio perché la presentazione dei piatti “supera” i tempi per una cottura perfetta),
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in crosta di noci con succo di mele, sidro e miele, interessantissimo gioco di consistenze ed acidità, e infine immersa in un fantastico brodo di melissa e spezie.
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Più scolastica ma eccellente la declinazione di fegato grasso d’anatra, con la crema abbinata all’immancabile tartufo nero
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e una terrina dai toni piuttosto soffusi di porto in crosta leggera di frutta secca.
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La prima delle portate principali è la variazione di scampi. Non convince fino in fondo la preparazione in raviolo in bouillon di olio d’oliva al profumo di pepe e menta, per la scarsa presenza dei profumi dichiarati e per la consistenza troppo monotona.
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Molto buoni invece gli scampi e lattuga in tempura con accompagnamenti alla lattuga stessa ed alle arachidi.
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Buono, nonostante la cottura alla francese, anche il risotto, con un’importante nota di zenzero.
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Eccellente e hard core q.b. il piatto dedicato all’agnello di Pirenei, con le carni cotte alla plancia comprendenti animella e rognone, accompagnate da una senape aromatizzata alla liquirizia,
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e rinfrescanti i ravioli con formaggio ed erbe a corollario.
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Selezione di formaggi.
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Dal reparto dolci abbiamo estratto quattro preparazioni, tra le quali l’unica che è rimasta al di qua della soglia dell’eccellenza è stata proprio quella che nelle previsioni ci avrebbe dovuto far sobbalzare sulla sedia, ossia la mela,
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peraltro tecnicamente ineccepibile. Parafrasando la struttura del nostro pianeta, la crosta esterna è di zucchero effetto “frizzy-pazzy”, lo spesso mantello sottostante è costituito da mousse di sidro con pezzi di Granny Smith, mentre il nucleo è di caramello e riso soffiato. Lo spessore della crosta e la proporzione a mio modo di vedere eccessiva della mousse rendono però alla lunga stucchevole il gioco di petillanza ed eccessivamente presente la nota alcolica. Tutti indiscriminatamente da ola invece i seguenti, con la pera “come una Belle Hélène”, portata anch’essa al tavolo in forma sferica ma subito fusa con una crema di cioccolato caldo, perfettamente bilanciata, e lo dico io che detesto il cioccolato caldo,
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il lussuoso e lussurioso Paris-Brèst
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e l’eccezionale Café espresso, migliore fra i migliori, con zabaione, ganache, mandorle e gelato “bruciato”. Da mangiarne 3 di fila.
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Dalla cantina, ricaricata in maniera non esagerata in rapporto ad altri tristellati francesi, abbiamo pescato come jolly tuttofare il Puligny La Garenne 2003 del Domaine Larue. Fréderic Anton ha personalità da vendere, tecnica idem, l’attenzione ad una maggiore varietà di consistenze a mio parere andrebbe approfondita. La valutazione è stata ritoccata per difetto anziché per eccesso proprio per questo.
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