Quella di Bruno Verjus è una storia tutta da ascoltare. Basta guardarlo per rendersi conto di avere a che fare con un personaggio sui generis, capace di realizzare in una sola vita ciò che gli altri non realizzerebbero in tre, e forse nemmeno riuscirebbero a sognare. Dopo un percorso scolastico passato studiando libri di medicina, capisce che la sua vera passione riguarda certamente la salute, ma in maniera preventiva piuttosto che curativa. Il cibo, il vino, i prodotti genuini, l’arte della lavorazione delle materie prime diventano il suo obiettivo, affrontato in maniera analitica come d’uopo per un aspirante dottore. Il passo per diventare un giornalista è breve, con una carriera in impennata tra carta stampata, microfoni radiofonici e telecamere. Magnetico, carismatico, con uno sguardo profondamente complesso di chi, da un momento all’altro, potrebbe inventarsi una contorsione celebrale in grado di lasciarti sbalordito, Verjus si fa notare diventando in breve un punto di riferimento per appassionati e addetti ai lavori. Tutto sembra incanalato per il verso giusto, Verjus si potrebbe pensare essere appagato dal suo successo professionale, e invece arriva il colpo di tacco del campione, la giocata che cambia la partita in un istante. Corre l’anno 2013 e dall’alto del suo sapere teorico raccontato nel corso degli anni, Verjus decide di diventare un cuoco e di aprire il suo ristorante, Table.
Ovviamente il risultato non è banale. Il locale si sviluppa lungo uno splendido bancone di acciaio, che serpeggia sinuoso, creando piccole isole che delimitano la privacy degli ospiti, mentre dall’altra parte lo chef Verjus e i suoi collaboratori danno vita allo spettacolo delle cotture.
Irruento, deciso e diretto, Verjus mette in atto una cucina in cui l’elemento prediletto è senza dubbio il fuoco, tramite il quale ogni cottura viene eseguita. Sfrigolii, “fiammeggiamenti” e rosolature sono la cornice all’interno della quale va in scena una contemporanea esibizione di cafè-chantant. Il menu è un manifesto, un compendio della filosofia dello chef, da leggere con attenzione per immergersi nell’atmosfera della serata. In brevissimo tempo ci si accorge che la cena non è una cena, il ristorante, in cui si è, non è un ristorante e lo chef che sta cucinando non è uno chef. Tutte cose, a conti fatti, facilmente prevedibili. Verjus si conferma il personaggio istrionico che è sempre stato, libero da vincoli imposti e alla continua ricerca di nuovi orizzonti personali da poter condividere con il resto del mondo. L’improvvisazione stravolge quanto letto in fase di ordinazione e l’attenzione si catalizza sullo chef più che sul risultato dei suoi piatti. Un approccio forse un po’ egoistico, sicuramente egocentrico, ma magnificamente realizzato. Lo spettacolo consente poche chiacchiere con il proprio commensale e prevede finezze tecniche visive davvero notevoli. Vedere cuocere per intero una faraona che poi, seguendo le sue esigenze di cottura, viene disossata à la minute direttamente sulla brace, è un pezzo di repertorio che porteremo con noi davvero a lungo.
Table è senza dubbio un locale che può esistere solo e solamente grazie alla presenza al suo interno dello chef patron. One man show che allieta e diverte, tendendo allo stupefacente, al colpo di bacchetta magica, che non si può concedere il lusso di una serata sotto tono, di un servizio scarico dell’energia che lo contraddistingue. Ciò rende Table e Verjus condannati a essere fedeli alla propria bellezza, in una sorta di “Ritratto di Dorian Gray” applicato al quotidiano. La vanità è la cosa più importante, specialmente per un vanitoso, il che comporta inevitabili conseguenze sia in positivo sia in negativo. Table è un locale che fa discutere, che non lascia indifferenti, esattamente come il suo ideatore. Il risultato è raggiunto a pieni voti, specialmente per Bruno Verjus.
Aspettativa canaglia.
Quella che inizia a circuirti settimane prima della partenza, e che per tutto il tempo che separa la prenotazione dal “fatidico giorno” ti perseguita e ti fa pregustare e sognare luoghi, sapori, odori, emozioni. Quella lieve ansia da attesa, legata con un doppio filo all’anima stessa del viaggiare, che è il motore della nostra passione. E che quando viene soddisfatta permette di vivere, se inizialmente non è particolarmente alta, esperienze stupefacenti, inaspettate e sorprendenti; ma quando l’aspettativa è parecchio alta, ed essa viene totalmente appagata ecco, quello è il momento in cui si raggiunge la piena sublimazione, l’orgasmo sensoriale, la pura essenza di una passione.
Chiaramente, come ogni cosa bella, sfortunatamente c’è un rovescio della medaglia, e ognuno di noi appassionati purtroppo lo sa bene: cocenti sono quelle delusioni che, a fronte di un’aspettativa molto alta, non vengono ripagate da un’adeguata risposta. Settimane di attesa e di sogni ad occhi aperti, svanite nella nebbia.
Akrame le carte in tavola per un’esperienza memorabile le ha tutte: 20 coperti, uno dei ristoranti parigini più chiacchierati dell’ultimo anno, lodi più o meno unanimi sul web, riconoscimenti a destra e a manca, una vera e propria ascesa verticale che ha condotto lo chef franco-algerino Akrame Benallal dall’apertura ai pari macarons pneumatici in soli tre anni.
A un mese e mezzo dalla data desiderata, un mercoledì, per pura fortuna riusciamo a trovare un tavolo libero a cena ma per il lunedì, l’unico tavolo disponibile in tutta la settimana.
E invece?
Aspettativa canaglia.
Il locale, sito in una viuzza parallela alla direttrice tra l’Arc de Triomphe e Trocadero, è incastrato tra due anonime vetrine ove ci si aspetterebbe di trovare un fruttivendolo o un macellaio, più che un ristorante di questo tono. Una ristrutturazione imponente, arredi molto moderni, smalti, metalli e toni minimalisti, con quella punta di trendy che smorza i toni, rinvigorisce l’ambiente ma non infastidisce. Un’accoglienza capace, distesa e professionale, accomodante, con il sorriso e in grado di metterti a tuo agio in una manciata di secondi.
E poi c’è la cucina. Corretta, piacevole, adeguata. Tre aggettivi che no, difficilmente contestualizzeresti in una premessa come quella poco sopra. Una cucina che è lecito aspettarsi frizzante, cristallina, in grado di stupire, di coinvolgere, di colpire… e non capace solo di lasciarti sopito, a pensare “…ok, bene, tutto qui?”
Piatti senz’altro corretti, ben fatti e solo blandamente stimolanti, certo scevri da grossolani errori ma purtroppo privi di particolari spunti o chiavi di lettura, fatti di ingredienti ed accostamenti potenzialmente interessanti, ma vanificati da assenza di concentrazione e da elementi prevaricanti sul resto, con una carenza generale di armonia e di equilibrio.
Uno stile forse più adatto alla cucina di un rapido, economico ed informale bistrot, non certo ad uno tra quelli giudicati centravanti della ristorazione parigina di oggi. Quindi viene da chiedersi: al netto dell’aspettativa, dei rumors e delle liste d’attesa di settimane, sarebbe stata questa una cena in egual misura inappagante? Chissà, quel che è certo è che una cucina un po’ banale, anche se corretta, lo è a prescindere, soprattutto quando proposta a certi prezzi non propriamente “a buon mercato”.
La minimale, spartana (e buia) mise en place.
Uno dei quadri alle pareti, tutti curiosamente rappresentanti donne tatuate.
Scorcio della piccola sala
La prima e la più sfiziosa delle entratine: Oreo al Parmigiano…
…e le altre.
Il servizio del burro.
Con il pane, di un solo tipo, ben fatto.
Il primo piatto, dal menù di quattro portate “Coup de Coeur”, tutte a discrezione della cucina (come nel caso del menù da 6 portate, “Gourmand”).
“Verdure: Zucca/Riccio di mare/Formaggio Mimolette”. Piatto potenzialmente interessante, all’atto pratico si rivelerà una vellutata di zucca, che incredibilmente riesce a coprire quasi totalmente sia la Mimolette che i ricci di mare.
“Molluschi: Vino/Molluschi”. Semplicemente, nulla più che la descrizione: vino e molluschi, che non riescono a trovare un punto d’incontro armonico, tra l’acidità del vino, scissa tra l’aria e il brodo, e la gommosità dei molluschi.
“Marinaio: Triglia/Lardo di Colonnata/Indivia/Riso Rosa” Una buona triglia, con un sottile strato di lardo a donare un po’ di grassezza all’insieme, con una concentrata e sapida salsa. In accompagnamento (?) una scodellina di riso e indivia dalle note dai ricordi nordafricani, agrodolce e molto speziata. Buona la triglia, buono il riso… ma insieme?
“Rinfrescante: Sorbetto di mora/Aceto di mele”, servito in maniera… rinfrescante in un bicchierino in ghiaccio. Acido, fresco e dolce. Un bello stop tra una portata e l’altra.
“Carne: Piccione/Mais/Curry”. Idem come i piatti precedenti. Un piccione di buon livello, adagiato su del mais e coperto da una polvere di popcorn, con una salsa… nettamente al curry. Simpatica la declinazione mais/popcorn, solo troppo dolci per esaltare il piccione. Ma una volta giunti al curry, tutto il resto un po’ soccombe.
In stile Gagnairano (dove Akrame ha lavorato), tre i piccoli dolci, serviti tutti insieme.
“Avocado/Banana/Cioccolato bianco”: Avocado e banana pungenti ed astringenti (forse un po’ troppo), con il cioccolato bianco che smorza i toni.
“Dolcezza: Cioccolato, Carbone di Bambù” Ottimo equilibrio tra dolce e croccante. Dessert molto buono e goloso.
“Raviolo pera & noci/Sorbetto alla birra”.
Caramellina alla liquirizia finale, rinfrescante.
Dolcetto finale, con tavoletta di cioccolato… “à emporter”
No, non è una mera questione di campanilismo. Per quanto ci riguarda, di Simone Tondo ne avremmo scritto con gli stessi toni fosse stato anche francese, spagnolo, cinese o proveniente da qualsiasi altro angolo del mondo. E’ semplicemente bravissimo, a prescindere da quanto riportato sulla Carta d’Identità.
Che poi sia italiano, e che sia riuscito ad emergere su una piazza di altissimo livello come quella parigina, non può che farci piacere ed inorgoglirci, ma il suo valore resta il medesimo anche posto in scala assoluta.
Solamente ad un paio d’anni dalla creazione di Roseval, in società con l’inglese Michael Greenwold, è riuscito a riscuotere enorme successo, un massivo riscontro positivo da parte di critica e clientela, lodi praticamente all’unisono e tavoli costantemente pieni.
Poi il colpo di scena: dalla riapertura a settembre di quest’anno, Michael ha scelto di intraprendere altre strade, e Simone è rimasto da solo al comando del ristorante.
Delicati equilibri quindi, che rischiano di diventare instabili, a causa della rimozione di una delle due colonne portanti?
Assolutamente no, anzi. Con piacere abbiamo scoperto che in rue d’Eupatoria, attualmente, si sta ancora meglio che in passato. Si respira un’aria serena e si percepisce distintamente un sacco di voglia di fare bene, probabilmente anche grazie all’individualità di tutte le scelte e le idee.
Nonostante gli stravolgimenti ai vertici, quella che è sempre stata la caratteristica primaria, l’essenzialità, resta la chiave di Roseval. Tutto è ridotto all’indispensabile: godimento al netto degli orpelli.
L’ambiente è ristretto, spartano e con spazi ridotti all’osso. Tavoli e sedie sono piccoli, decisamente ravvicinati e apparecchiati in maniera spoglia ed essenziale. Il menù è uno solo ed uguale non per tutto il tavolo, bensì per tutto il ristorante: 50€ 6 portate, 75€ abbinandovi i vini.
Menù nuovo ogni settimana, nuovi dessert ogni quindici giorni.
Se il dizionario definisce un contrario di “grandeur” ecco, quello è il termine che meglio riesce a raccontare Roseval.
Lo stesso aspetto spartano è riportato sui piatti, apparentemente semplici, che in realtà si rivelano dei veri e propri piccoli capolavori. Essenziali nell’idea, ma complessi nell’esecuzione; spogli nella forma ma assolutamente completi, centrati ed intelligibili; scarni nella descrizione in carta, ma articolati e sfaccettati da richiedere un’attenzione oltre la media. Dalla costante e ricorrente nota vegetale, ma mai troppo in mostra, mai ridondante.
Totalmente mediterranei nel cuore, ma valorizzati da ingredienti, idee e tecniche “worldwide”, grazie all’influenza e le esperienze dell’eterogenea brigata, composta da tre persone in cucina e tre in sala, di sei nazionalità differenti, che lavorano in piena armonia.
Globalizzazione nell’aspetto più positivo del termine ed il tutto, coerentemente, nel cuore del Menilmontant, il quartiere più meticcio della città.
Funzionerebbe ugualmente Roseval, in qualsiasi altro angolo di mondo? Chi può dirlo, commistioni forti come questa sono rare e delicate. Di certo riuscire a distinguersi per essenzialità e per un inarrivabile rapporto qualità/prezzo qui, a Parigi, non è propriamente cosa da tutti i giorni, e sicuramente ha maggior valore che altrove.
Lo scotto da pagare però, sempre dovuto alla Ville Lumière, è il rischio di fare il vaso di coccio tra vasi di ferro, che il vero valore di Simone e di Roseval passi in secondo piano senza che ne venga colta l’essenza, principalmente a causa della concentrazione e del livello dei grandissimi che li circondano.
Una sorta di contemporanea trasposizione del brutto anatroccolo dove, al pari della fiaba, se riuscirete a guardare oltre le apparenze ed andare dritti alla sostanza, ecco che potrete scorgere uno splendido cigno che no, nulla ha da invidiare al resto dello stagno…
L’ingresso del locale.
L’essenziale mise en place.
Il pane.
“Saint Jacques”: capasanta, lamponi, burro nocciola, aceto. Eccellente partenza, con un piatto che lavora molto bene sui contrasti, tra le morbidezze dell’eccellente capasanta e del burro, contrapposte alle acidità del lampone e dell’aceto, che spicca sul resto.
“Langoustine”: zuppa di patate, scampi, polvere di scampi, combava. Al contrario del piatto precedente, dove prevalgono le acidità, qui si viaggia sul velluto con la zuppa di patate molto lenta, la decisa impronta degli scampi, e la nota citrica della combava che vivacizza il tutto.
“Maquereau”: sgombro tataki, ricotta di pecora affumicata al fieno, moromi. Terzo gran piatto, un gemellaggio tra la Sardegna ed il Giappone: protagonista del piatto la ricotta, dal carattere deciso anche grazie alle note legnose dell’affumicatura, con lo sgombro lavorato tataki, ridotto a texture e a lieve apporto acido, così come il moromi, la soia fermentata, che grazie alla sua profondità fa da trait d’union tra i due ingredienti principali.
Il primo vino in accompagnamento. Sia in carta che per quanto riguarda gli abbinamenti al calice, si percorre la via del naturale e del bio, rivolgendosi comunque sempre al piccolo vigneron.
“Cabillaud”: baccalà, midollo, purée di ortica, dashi. Perfetta la cottura del baccalà, anch’esso reso poco più che texture, in favore della sapida concentrazione del dashi e della profonda nota vegetale del purée di ortica.
Secondo vino abbinato.
“Rouget”: triglia, fiori di carote viola, cavolfiore, kale, colatura di alici. Piatto che percorre le medesime note del precedente, marcandole ulteriormente. Un uno-due marino/vegetale.
Terzo vino abbinato.
“Agneau”: sella d’agnello, sedano rapa, mela, bietole bianche. Si vira verso il dolce nel piatto di carne: spiccano la cottura esemplare e l’intelligente utilizzo di una parte vegetale più “bianca” e terrosa, che a meraviglia si accorda all’agnello.
Il quarto vino in accompagnamento.
“Chaource”: formaggio Chaource, mostarda, acetosella.
…con il quinto vino abbinato.
Predessert: Crema di latte e arancio.
“Poire”: cioccolato, pera confit al pepe, olio, crumble. Eccellente dessert, goloso sebbene non eccessivamente dolce, con la pera resa croccante e masticabile, ed il pepe a donare una bella aromaticità. Degna chiusura di una cena sorprendente.
Con il sesto ed ultimo vino abbinato.
Mascarpone, pompelmo e vaniglia.
Se serve un riferimento, proprio di fronte a Roseval…
Là, tout n’est qu’ordre et beauté, Luxe, calme et volupté.
Pare quasi scritto apposta per il Bristol, il famoso passaggio di Baudelaire.
Un luogo straniante questo, nel suo essere totalmente scollato dalla realtà. A non più di 100 metri della residenza presidenziale in rue de Faubourg Saint Honoré, una delle vie più fastose al mondo, con una concentrazione di boutique di alta moda che forse solo Montenapoleone può provare a tenerle testa.
Un posto fatto di lusso vero, esclusivo ma non sfacciato, e non per questo meno incisivo di altri caratterizzati da uno stile sfarzoso, anzi, moderato nello stesso modo di chi parla con tono calmo, conscio d’aver l’autorità e il piglio di farsi ascoltare, senza mai dover andare oltre le righe.
E infatti no, non si esce mai dalle righe da Epicure, proprio perché le stesse sono tracciate in maniera indelebile, sicura e decisa e quindi, semplicemente, nessuno sente la necessità di farlo.
Alcuni numeri, giusto per definire meglio gli ordini di grandezza: 500mq la cucina, unica per il ristorante, un bistrot, un café e il servizio in camera per le 188 stanze, di cui 92 suites.
115 persone lavorano ai comandi dello chef, di cui nove solamente nel reparto pasticceria.
A giudicare dai colletti tricolore e dai riconoscimenti sparsi sulle pareti della cucina, ci sono più MOF a lavorar qui dentro contemporaneamente, che dipendenti in molti ristoranti.
La sensazione, durante un giro tra i fornelli, non è quella di esser di fronte a una grande brigata, ma piuttosto ad una vera e propria azienda.
Nonostante lo chef Eric Frechon sia un eccezionale professionista (d’altronde, non molti sono gli chef insigniti della Légion d’Honneur), non ha più alcun senso parlare di “chef e brigata”, ma di una mastodontica macchina, che si mette in moto per una sola ragione: produrre eccellenza.
A partire dal servizio, tremendamente efficiente, puntuale e sempre giustamente formale, se non altro per mantenersi a tono con l’ambiente, ma in grado di mantenersi chirurgicamente distaccato o ben più coinvolgente a seconda delle volontà del tavolo, di interfacciarsi più o meno a seconda del grado di malleabilità del cliente. E per un ristorante dove ogni mail in risposta alla prenotazione termina con “…e ricordiamo l’obbligo dell’abito per l’uomo, anche a pranzo” questa ricerca di un punto d’incontro è un plus non indifferente.
Ma, paradossalmente, quello che più colpisce è la cucina. Date le premesse, sarebbe lecito aspettarsi opulenza, ricchezza, ingredienti lussuosi fini a se stessi e questo, in un luogo così, potrebbe anche essere giustificato. Ed invece, nonostante l’impostazione certo classicheggiante, i piatti sono mirabilmente alleggeriti e attualizzati, senza inutili orpelli; anzi, con un gran lavoro di ricerca fatta in direzione dell’equilibrio e dell’armonia e un’attenzione ai dettagli a tratti imbarazzante.
Ecco che anche un piatto come l’anatra, di deriva nettamente dolce, si mantiene saldamente sui binari grazie ad un sapido, concentrato e davvero accademico fondo di cottura e alla lieve balsamicità apportata dalla legna in cottura, creando un contrasto equilibrato senza l’apporto di ulteriori ingredienti.
Una menzione la meritano senza dubbio i dessert del fenomenale pasticciere Laurent Jeannin che, pur nella forma apparentemente semplice, si riveleranno delle piccole opere d’arte, esteticamente ma soprattutto nel profilo gustativo, oltre a essere realizzati con una cura sorprendentemente maniacale.
Certo il giro sulla giostra è tutto fuorché economico, questo è fuori discussione… ma è altrettanto innegabile che un’esperienza di questo tipo sia totalizzante, riuscendo ad inebriare contemporaneamente tutti i cinque sensi: davvero difficile uscire da questo luogo senza sentirsi dieci centimetri sopra la terra.
Mise en place e dettagli in sala.
Per la consultazione della carta viene servito una sorta di “casatiello“, oltremodo goloso.
Stuzzichini iniziali.
Du pain (!!!)…
…et du beurre.
Amuse bouche.
Noci di capesante tagliate al coltello, succo di ostriche, chantilly al limone e curry.
Capesante di qualità indescrivibile, supportate dalle lievi acidità della crema e dal succo di ostrica. Partenza di mirabile equilibrio.
Cavolfiore di Bretagna al curry di Madras, parmigiano grattugiato, beignets di cipolla fritti.
Portata più golosa ma di fattura altrettanto pregevole: decisa e marcata la nota speziata del curry, contrastata con la dolcezza delle piccole cipolle fritte e dal parmigiano, non particolarmente stagionato quindi abbastanza dolce e pastoso.
Sogliola di sabbia farcita con duxelle di finferli, salsa al fumetto di sogliola e Vin Jaune. Nuovamente, l’equilibrio dei contrasti: piatto assolutamente classico, ma con una leggera, concentrata, sapida e acida salsa in accompagnamento.
…da farne incetta, della salsa e dei finferli saltati, serviti a parte. A fine portata la salsa restante viene versata nel piatto, con un invito verbale alla scarpetta.
Anatra selvatica cotta su legna di ginepro, polenta morbida alla frutta secca, mele cotogne all’ibisco.
Servita con a parte l’insalatina con finferli, mais e la coscia dell’anatra…
…e il fondo dell’anatra, strepitoso. Idem con scarpetta.
Nel frattempo il tavolo affianco al nostro ci permette di osservare il servizio della poularde en vessie, con il maître impegnato allo (splendido) guéridon.
Il carrello dei formaggi, dal quale estrapoliamo…
…una selezione di formaggi molli…
…ed una a pasta più dura.
Predessert.
“Chocolat Manjari”: cioccolato ghiacciato e cremoso, infuso al tè, nettare di mora del Monte Velay. Al netto delle architetture un dessert semplice nell’aspetto, ma dal gusto ben più complesso, con acidità e dolcezza del cioccolato e delle more che trovano l’amalgama delle note più calde del tè. Difficile definire dove iniziano e terminano il dolce, l’amaro, l’acido. Gran dessert.
“Noisettes du Piemont”: Nocciole del Piemonte pralinate e tostate da noi, sorbetto al lampone e scorza di limone.
Dessert più dolce e tradizionale ma non per questo meno buono, anzi.
Gelatine liquide al frutto della passione, acidissime e dolci.
Il carrello della pasticceria finale, strepitoso, ove scegliere tra 8 varietà di macarons, tra marshmallows, caramels varie, praline e biscotti, tutto maison.
Svettano i macarons, di fattura sublime. Straordinari quello alla violetta e quello alla nocciola.
I clienti interessati vengono poi invitati a visitare le impressionanti cucine. In foto l’area relativa alle finiture/pass, una frazione dell’area totale.
Dopo due chiacchiere e i doverosi complimenti, monsieur Jeannin in persona ci delizia con la preparazione di uno dei suoi signature dessert.
“Citron de Menton”: spuma di limoni di Mentone ghiacciata, glassato al limoncello, ricordi di pera e limone confit.
All’interno di uno stampo in argento, fatto costruire appositamente, una spuma composta in gran parte da limoni viene cotta in negativo in azoto, acquisendo esternamente la consistenza di una meringa ma mantenendo il centro morbido. Viene infine glassata al limone: sublime…
Quando pensiamo a una grande capitale gastronomica, certamente Parigi sta nelle primissime posizioni. Perché Parigi non offre solamente una straordinaria offerta ristorativa: Parigi è anche botteghe di spezie, di formaggi, enoteche…E poi le vere perle per tutti gli amanti di zuccheri e affini: le pasticcerie.
Italia e Francia sono da sempre in contrapposizione su moltissimi aspetti e, in maniera anche goliardica, la gara al “chi lo fa meglio” è un leitmotiv del nostro rapporto con i cugini d’Oltralpe.
Probabilmente, se c’è un campo in cui i Francesi hanno da insegnare al mondo, questo è proprio la pasticceria. Non che in Italia manchino i grandissimi (Biasetto, Massari, Fabbri, Assenza e chi più ne ha più ne metta) ma il livello medio a Parigi è incredibilmente alto: in qualsiasi posto entriate, è molto difficile vi rifilino un dolce pessimo. Se poi puntiamo l’obiettivo verso i mostri sacri, allora il godimento sarà assoluto.
Da qualche anno anche i pasticceri giapponesi hanno aperto delle loro insegne a Parigi: la commistione tra scuola classica francese e sapori tipici giapponesi, dà forma a un connubio interessantissimo che già in Giappone abbiamo avuto modo di testare.
Ma il top si raggiunge con gli interpreti francesi, con quella generazione di pasticceri che è riuscita a svecchiare la maniera storica francese di intendere il dolce, diminuendo gli zuccheri e aumentando le concentrazioni dei sapori.
Mostri sacri come Jacques Genin, Philippe Conticini, Pierre Hermé, a cui si sono aggiunti e si stanno aggiungendo una lunga lista di nomi dalle capacità fuori dal comune: Claire Damon, Hugues Pouge o Carl Marletti solo per citarne alcuni.
Se poi anche un top chef come Jean François Piège decide di aprire la sua pasticceria, allora non ce n’è più per nessuno.
Un tour ad alto tasso glicemico da un capo all’altro del centro parigino.
E se è vero che l’amore per il gusto “dolce” sia l’effetto di un cordone ombelicale mai reciso con i sapori dell’infanzia, lasciateci tornare bambini, almeno in questo modo, almeno questa volta.
Des gâteaux et du pain
Cominciamo con la prima coppia della scena parigina: Claire Damon et David Granger.
Lei pasticcera: dagli esordi con Pierre Hermé nello storico Fauchon, passando dalle cucine del Bristol, fino al Plaza Athénée,
Lui fornaio: un maestro di impasti, lievitazioni, cotture.
I due si incontrano e decidono di dare vita a questa gioielleria del gusto.
Per una volta parliamo di pane e non di dolci, perché i prodotti di Granger fanno gridare al miracolo. E’ un pane straordinario, esposto sugli scaffali proprio con la stessa dignità dei più delicati gâteux: la spiccata nota acida dell’impasto, la crosta croccante e quasi caramellizzata dalla lunga cottura. E’ pane di personalità, fatto di amore e cura. Il consiglio è di farne larga scorta e portarvelo a casa. La boule de campagne dà dipendenza: farina biologica macinata a pietra, lievito madre, sale di Guérande. Tagliato a fette e messo in congelatore si conserva benissimo e potrete gustare a lungo questa meraviglia comodamente a casa vostra.
N.B. Croissant da primato
Hugo et Victor
Ancora una coppia, questa volta al maschile: Hugues Pouge, un passato da Pastry chef di Guy Savoy, e Sylvain Blanc, ex-direttore generale dei Magazzini Printemps. Ci sono loro dietro il nome “Hugo et Victor”, insegna nata nel 2010.
Cioccolato, pralinato e caramello sono i tre elementi ricorrenti nelle preparazioni. Gli altri si diversificano seguendo il ritmo delle stagioni. Si predilige un maggior grado zuccherino rispetto alla tendenza generale della nouvelle vague parigina.
Da non perdere le semisfere al cioccolato ripiene di caramello: decisamente sopra la media.
Pain de sucre
Altro giro, altra coppia. Nathalie Robert and Didier Mathray: galeotta fu la cucina di Pierre Gagnaire per il loro incontro (entrambi ci hanno lavorato a lungo).
E’ la pasticceria meno coreografica tra quelle top, di solito molto vicine all’aspetto di una gioielleria. Qui si bada decisamente alla sostanza, nell’esposizione così come nella pasticceria.
Ne sono un esempio i macarons: tra i migliori di tutto il globo terracqueo. Molto distanti dalla finezza ed eleganza delle creazioni di Hermé, questi sono grossi, panciuti, un po’ rustici forse ma una esplosione di gusto all’ennesima potenza. Buonissima anche l’interpretazione del babà: lievitazione favolosa e bagna da dosare a piacere; sul fondo una crema alla vaniglia di disarmante bontà.
Da segnalare la presenza di un piccolissimo tavolino per degustare in loco: non è facile trovarlo libero, ma è già qualcosa (la maggior parte delle pasticcerie ha solo la possibilità dell’asporto). A fianco c’è anche il negozio in “versione salata”, dove mangiare panini e lievitati di ottima qualità.
Gâteaux Thoumieux
Jean-François Piège non ha bisogno di presentazioni. Questa è la sua ultima creatura, una boutique-pasticceria aperta proprio davanti al Thoumieux con la collaborazione dello chef pâtissier Ludovic Chaussard. Fiori freschi, teche di cristallo che proteggono meraviglie tanto belle quanto buone.
Imperdibile il Paris-Brest, soave e mai stucchevole. Ottima anche la millefoglie, giusto un gradino sotto il top cittadino di Genin.
Dimensioni dei dolci un po’ più contenute come anche i prezzi, considerando città e quartiere. Un’altra piccola perla per i fortunati parigini.
INTERVALLO
Epices Roellinger
Non si vive di sola pasticceria. Oppure, volendo continuare a parlare di dolci, sappiamo bene tutti che il segreto di una grande crema è una grande vaniglia. Qui troverete tutto quel che vi serve e ancor di più.
Olivier Roellinger a Cancale ha segnato un’epoca con la sua cucina dalle mille spezie. Il suo ristorante tristellato ha da tempo chiuso i battenti, ma le sue spezie continuano a raggiungere quanti hanno amato il suo modo di cucinare. Le sue “poudres d’epices” sono capaci di resuscitare qualunque piatto.
Ci sono Vaniglie da ogni parte del mondo: sono conservate in una antica cantina di affinamento posizionata sotto il negozio di Rue Saint Anne (l’unica altra cave à vanilles è a casa sua, a Cancale).
Anche solo fare un passaggio qui per annusare quanto possa essere diversa una varietà del Madagascar da una del Messico è una eperienza didattica.
Per non parlare del pepe, della cannella, del cardamomo, del peperoncino: tantissime varietà e un mondo mai troppo esplorato.