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Le Pré Catelan

La grande cucina classica francese in salsa contemporanea

Abbandonate le tentazioni orientaleggianti di un tempo, Frédéric Anton a Le Pré Catelan cucina oggi quella che ci è sembrata la più naturale estensione, nonché forse l’unico prosieguo possibile, della grande cucina classica francese. E lo fa senza stravolgerne i dogmi né innestare innecessarie contaminazioni: non ricorrendo, in poche parole, all’altro da sé, cui preferisce finalmente una versione intimamente sciovinista – e dunque revanscista – dei propri prodromi, dal cui confronto non esce frustrata ma anzi rafforzata perché alleggerita e slanciata nella forma più eterea, più aerea, più leggera, più altera possibile, e al netto del pur gremito repertorio di salse, tartelette, flan, beurre blanc e sablé con cui impreziosisce, non solo tecnicamente ma anche enciclopedicamente, ogni passaggio. 

Siamo nel cuore del Bois de Boulogne: un luogo che Google Maps colloca ad appena 500 metri dalla fermata della metro ma che, invero, non è poi così accessibile per le signore che vi arrivano, e giustamente, in décolleté, visto che parte del tragitto può prevedere addirittura un sentiero nel bosco e che le insegne per Le Pré Catelan, uno dei tre stelle Michelin più facoltosi di Parigi, a dir poco scarseggino. 

Ma l’accoglienza, una volta arrivati a destinazione, farà dimenticare ogni spaesamento: ciascuno degli elementi del personale di sala sarà difatti autenticamente felice di vedervi, sorridente, accogliente, finanche caloroso nonostante l’ambientazione vestita di un’opulenza senza tempo, benché parzialmente sdrammatizzata da una saletta adiacente, più moderna: quella dove anche noi siamo seduti.

Pureté, légèreté, netteté

Sin dal benvenuto, ci si presenta una cucina capace di grande purezza, leggerezza, nitore e concentrazione: profondissimo lo studio di ogni materia e di ogni tecnica, tanto che la prima parte di ciascun menù, “Crab” e “Tomato“, si avvita attorno al proprio elemento principale su cui Anton ordisce assaggi che servono a studiare l’uno e l’altro, a esplorarne tutti i gradienti in termini di possibilità di consistenza e spettro gustativo mediante preparazioni e relative tecniche – canapé, insalata, zuppa – che, come schizzi preparatori, compongono l’affresco finale: quello del Pomodoro, costituito da una Tartelletta croccante, un’Insalata di pomodoro vaniglia e lime e un Gazpacho con verdura e frutta estiva aromatizzata al basilico, e quello del Granchio col suo Petit flan, il Dashi e il fumo di anice, l’Insalata di granchio con pompelmo pepato e aromi thai e, infine, la Zuppa di granchio: un deliquo cremosissimo aromatizzato al finocchio. 

Arrivano i piatti portanti e, con essi, un ulteriore tratto stilistico dell’Anton contemporaneo: trattare una materia apparentemente umile – il merluzzo, l’animella – come fosse una nobile, imbellettarla e vestirla di tutto punto, offrirne, insomma, una versione aristocratica ed eterea. In particolare, due elementi ci hanno colpito: le note fondenti, quasi di cioccolato, dell’Animella di vitello caramellato con la salsa al vin jaune, e la consistenza plastica e tonicissima del Merluzzo al beurre blanc e scorza di lime. Comprimari, ma indimenticabili per l’importanza rivestita tanto in termini di contributo enciclopedico quanto affettivo la meravigliosa, torrefatta Brandade dalle  trasognate note di mais e il sublime purè, omaggio all’indimenticato maestro di Anton Joël Robuchon, uno della vecchia scuola. Grande bellezza alberga poi anche nei dolci e, in particolare, nella specchiante, vitrea purezza della Torta al cacao amaro e nella sua misteriosissima leggerezza. 

Complice anche la carta dei vini, ricercatissima e dai ricarichi ancora accessibili, né più né meno che il pranzo parigino perfetto.

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La contemporaneità dei grandi classici

Come tutte le grandi scuole classiche, anche la cucina francese si trova a dover decidere, oggi, chi e cosa essere. Le strade, del resto, sono sempre negoziabili, e tracciate da coloro che la interpretano, suscettibili di fattori che vanno dall’indole personale e, passando per le esperienze soggettive, s’aprono a quella che è l’aire du temp – la moda – tracciandone un profilo complesso, comune. Una delle strade più prolifiche, s’è visto, consiste nell’innestarvi tecniche da altre culture: scelta interessante antropologicamente ma non sempre originalissima da un punto di vista ontologico. Altri prediligono la strada dell’essenzialità, della purezza e della concentrazione, ed è anche questo il caso di Nicolas Beaumann da Maison Rostang che, tuttavia, a differenza di Frédéric Anton a Le Pré Catelan, ha mano meno definita, e difatti decide di dedicare – intelligentemente – parte del suo menù ai grandi classici della scuola cui appartiene, che interpreta con una cura che potremmo definire filologica.

Una grandissima presse canard

Tra questi c’è, ça va sans dire, la Canard à la Presse, ovvero l’anatra al torchio, eseguita con cerimoniale impeccabile e accuratissimo. Ad accompagnarla, un Consommé de canard o, più precisamente, di canette (un esemplare femmina di anatra di meno di due anni la cui carne è più carnosa, appunto, e più fine della normale anatra) precedentemente estratto. Quindi, con l’aiuto di una pressa per anatra in argento la carcassa, precedentemente sfilettata davanti al cliente, viene pressata per estrarne i succhi che rifiniscono il filetto una volta impiattato. Uno spettacolo magnifico, un’esaltazione del savoir-faire, della maestria e della cultura della sala, prima ancora che della cucina, ma che taluni potrebbero forse considerare inattuale alla luce dello spietato politically correct in cui siamo tutti oggi falsamente precipitati. Ebbene è precisamente questo spettacolo, il suo rituale, la magnifica consistenza succosa delle carni e il velluto pieno e concentratissimo della salsa, a valere da solo un tavolo da Maison Rostang.

Quanto al resto, e al netto di un dessert molto aereo nonostante l’importanza degli ingredienti – tabacco e cognac – segnaliamo tuttavia una certa difficoltà, da parte dello Chef, di ammodernare e attualizzare il bagaglio di questo classicismo. Sapori fin troppo delicati e un eccessivo manierismo – vedi da solo il Tonno Ikejime, confuso e obnubilato nella forzata giustapposizione con l’aneto e il cetriolo o il più centrato ma molto evanescente Pomodoro – penalizzano questa cucina cui comunque riconosciamo una qualità molto importante e, per certi aspetti, comune solo alle interpretazioni più grandi: la leggerezza. E scusate se è poco. 

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Classica cucina francese d’Oriente

A due passi dagli Champs-Elysées, tra Avenue Montaigne e Rue du Faubourg St-Honoré, all’interno dell’hotel La Réserve si trova Le Gabriel, regno di Jérôme Banctel, prodigioso Chef bretone che, dopo anni di abnegazione nelle cucine di Bernard Pacaud e Alain Senderens, sin dal primo anno di attività mantiene salde le sue due stelle Michelin tanto che pare, oggi, essere pure in odor di terza. Il ristorante, rivestito di corame, alabastri e placcature oro, è ricavato all’interno di una raccolta, solenne sala prospiciente La Pagode de Cos, ambiente delizioso, quest’ultimo, dedicato a un pasto meno formale.

Quanto all’esperienza, diciamo a priori una cosa che abbiamo notato solo a posteriori: stupisce, infatti, la coerenza estetica tra lo stile culinario di Banctel e gli ambienti interni de Le Gabriel, caratterizzati da un’atmosfera sussiegosa, quasi da cerimoniale del Sol Levante. Del resto, in sala le coppie di occidentali sono solo due: il resto è abitato da facoltosi asiatici, evidentemente desiderosi di misurarsi con una grande cucina di scuola classica francese esplicitamente declinata in salsa orientale: una fusion di altissimo livello che, tuttavia, non disdegna di parlare di sé mediante frequenti interpunzioni autobiografiche, costituite da materie prime provenienti risolutamente dalla Bretagna: terra natia di Banctel.

Les Voyages Immobiles

Partendo da questi presupposti, tre sono i menù in carta in questa giornata di inizio settembre: optiamo per “Virée“, ovvero quello che ci sembra più esaustivo dello stato dell’arte dello Chef che, già nel nome, palesa la sua vocazione: un’idea di cucina intesa come occasione di viaggio e, dunque, di scoperta del mondo e del sé, come propiziano i tre menù o, meglio, i tre voyages immobiles proposti.

Coerentissime, a questo proposito, già le entré, divise tra un Bao mignon, la Coscetta di rana in tempura e la Tartelletta con fondo di maialino; filologico, invece, lo Sgombro sui ciottoli con patate Amandine, salicornia e bourride sauce: il filetto, al vapore, è finito al tavolo dove viene sensualmente svestito delle foglie di cedro che ne avviluppano le carni, per proteggerle dal contatto con le pietre bollenti. Una tecnica giapponese, questa, che ben si addice alla grassezza dello sgombro ma che sarebbe stata forse più eloquente, oltre che più brillante in termini estetici, senza la salsa bourride, leggermente prevaricante. Altrettanto foriero dell’amore per gli esotismi di Bactel il Maialino croccante con agria, alga nori e conchiglie dove, al netto dell’aspetto un po’ disordinato dato, ancora una volta, dalla salsa, le note empireumatiche della pelle bruciata del maialino si legano a quelle salato-caramellate dell’alga nori, in un connubio di grande incisività di gusto.

Su questo costante registro si articola tutto il pranzo, che culmina con una freschissima Meringa con pompelmo e asparagi di mare, ove a spiccare è finalmente, davvero, la purezza della materia prima. Merito, questo, di Olivier Derenne, esperto sourceur e, prima di lui, di Hugo Desnoyer, macellaio personale di Bactel. È grazie a queste più che durature alleanze, dichiarate peraltro già in carta, che la cucina de Le Gabriel acquisisce ulteriore autorevolezza: la stessa che le permette di introiettare, con naturalezza, tecniche e stimoli esogeni, pur continuando a fronteggiare il nutrito repertorio di salse della cucina classica francese che, qui, sono tutto fuorché semplici comprimarie.

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Un italiano al comando

Il fatto di non poter vantare una storia secolare come altre cattedrali della ristorazione parigina, non ha impedito a questa insegna di meritarsi la palma del locale più “istituzionalmente” elegante della città. Le Taillevent, insostituibile per i déjeuner d’affaire che contano, è stato considerato per decenni la succursale dell’ora di pranzo dei vicini ministeri e il luogo dove andavano decise le sorti dell’alta finanza parigina. Gran parte del merito di questa fama va riconosciuto a Jean-Claude Vrinat, oggi passato a miglior vita ma rimasto nell’olimpo dei più grandi interpreti di sempre di quel ruolo che in Francia viene enfaticamente definito “maître des lieux” e che noi proviamo a tradurre con scarsa efficacia “patron”, nel quale il proprietario, con la propria costante presenza, si fa anche regista e custode dell’atmosfera dei luoghi.

Un’istituzione parigina con una così forte valenza simbolica potrà mai affidare la direzione gastronomica a uno Chef non francese? Ebbene, sì. E, guarda un po’, si tratta di un italiano. Giuliano Sperandio, classe 1982, di Diano Marina (IM) ma adottato fin dal 2006 dalla Ville Lumière, dove ha affiancato Christophe Pelè prima alla Bigarrade, minuscolo e avanguardistico locale nel 17ème e poi a Le Clarence, gioiello parigino della famiglia Dillon (i proprietari della costellazione bordolese di Haut Brion).

Il matrimonio tra Taillevent e Sperandio da un lato risponde a una forte esigenza di rilancio da parte della proprietà del Ristorante, incapace, negli ultimi anni, di trovare una guida gastronomica con le carte in regola per far rivivere a queste mura i fasti di un tempo; dall’altro impone allo Chef di interpolare il rigido spartito della Maison, più forte di qualsiasi curriculum-vitae, con la propria, personale, idea di cucina. Per comprendere i meccanismi alla base di questo processo di mediazione, la scelta più indicata è il menu “Gestes Taillevent”: quattro piatti, declinati in più servizi e completati al guéridon sotto gli occhi dei commensali, secondo i gesti rituali del servizio alla russa.

Il servizio alla russa esalta la frazione classica della cucina

Dopo essersi persi per qualche minuto in una carta dei vini che per profondità deve inchinarsi, in città, solo a quella della Tour d’Argent, ci si mette nelle mani di Arnould Baudoin, maître e direttore che a stile e savoir faire unisce straordinarie capacità di “trancheur”. Il percorso prende il via con il Caviale Oscietra, sostenuto dalla consistenza e dalla grassezza di una Battuta di tonno rosso e wagyu. Da qui in poi Monsieur Arnould si prende la scena. Inizia a mostrare la propria abilità al momento di trinciare la coda dell’Astice flambée al whisky torbato con fiori di zucca, a cui vengono affiancati la testa in salsa “thermidor” in tutta la sua tradizionale opulenza, le Chele con una maionese di corallo e fragole verdi allo stesso tempo avvolgente e fresca, i “gomiti” a condire delle perfette, italianissime, Tagliatelle al nero si seppia. Sale in cattedra al momento di sezionare il Piccione arrosto, del quale lascia francamente perplessi la dimensione della porzione (un intero piccione a testa), non certo la cottura millimetrica di ogni sua parte e la profondità di sapore della salsa.

In questo caso i tre “satelliti” sono il Ragù di fegatini con rape rosse e lardo, i Fagiolini con salsa di interiora, grano saraceno e sardina e la Sfoglia allo scalogno e sauce suprême. Un assaggio di formaggi dal carrello e inizia la danza delle Crêpes Suzette, a loro volta accompagnate da Gelato al latte, chantilly al the verde, gelatina di ribes e shiso. La scelta di Sperandio è, quindi, di muoversi all’interno di una solida intelaiatura classica che prevede esecuzioni raffinate condivise tra cucina e sala nelle versioni centrali dei piatti, per poi lasciare spazio, con misurati tocchi creativi, alla propria ragguardevole capacità di interpretazione degli ingredienti nei piatti di accompagnamento.

Un doveroso commento sull’aspetto economico: i prezzi, sommando il prestigio del luogo, le materie prime impiegate, il livello della cucina, il servizio e la cantina, appaiono sorprendentemente convenienti. Il menu “Heritage” costa 190 euro, il menu “Gestes”, qui descritto, 245 euro; à la carte si sta intorno ai 200. Tanto? La metà, circa, di quanto richiesto dai top-player della città (Pacaud, Passard, Gagnaire, Alleno, ecc.), a fronte di un divario qualitativo evidentemente più contenuto, che sembra via via assottigliarsi grazie al nuovo Chef.

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Giovani italiani (all’estero) con un roseo avvenire

Eugenio Anfuso e Cecilia Spurio fanno coppia fissa nella vita e nel lavoro. Da poco sono a capo della cucina di Korus, piccolo bistrot parigino tra Bastille e République. Dopo aver cucinato straordinari piatti di pesce chez Bernard Pacaud (ed esperienze precedenti da Igles Corelli, Aimo e Nadia e Pascal Barbot) lui, e dessert di un certo livello in alcuni tre stelle (Enrico Bartolini, Pierre Gagnaire e Guy Savoy, dopo essersi formata all’ALMA) lei, hanno deciso di fare il passo decisivo della loro carriera e lavorare spalla a spalla mettendo a frutto le loro esperienze.

Il risultato si è materializzato in una cucina quasi istintiva sorretta però dalle solidissime basi classiche francesi. Da Korus, infatti, Eugenio e Cecilia propongono una cuisine du marché che più istintiva non si può. Un menu in costante movimento che ha conquistato subito la fiducia dell’esigente cliente locale, molto avvezzo alle proposte “bistronomiche” di qualità dello sterminato panorama gastronomico cittadino. Ambiente chic e sobrio e due menù degustazione per la sera, uno a 62€ con 7 portate, antipasti e pasticcini, l’altro a 72€ con 8 portate, stuzzichini e mignardises finali.

Un menu diviso in capitoli che parte dal prodotto stagionale

Préparations créatives de produits bien élevés” è la filosofia di questo locale. I piatti sono divisi in capitoli, a raccontare una storia che varia con il variare delle stagioni e del mercato. Una sequenza di sensazioni e ricordi: acidità, braci, ripieni e farce, suggestioni di Bretagna, affumicature, primavere e infanzie. I due giovani cuochi ci hanno dato saggio di grande esperienza con colpi di classe come il Carciofo alla brace, latte di Chevre e liquirizia, il Piccione, ketchup di peperone, ribes e mezcal o gli elegantissimi dolci: la Mousse al lime, piselli, basilico e citronella o la Meringa al rabarbaro, riso al latte e anice verde, eccezionalmente giocato tra contrasti piuttosto spinti.

Parliamo di due talenti da tenere attentamente d’occhio, che si cimentano con una cucina che ricorda molto le grandi tavole “bistronomiche” parigine, tra Inaki e Passerini, ma non solo. L’esperienza viene completata da un servizio giovane, rapido e amichevole e da una proposta di etichette di vini naturali, mai in voga come oggi.

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