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Le Chateaubriand

Genio con poca sregolatezza e tanta organizzazione

Fine servizio, XI arrondissement parigino. Inaki è fuori sul marciapiede, appoggiato a uno scooter, con una sigaretta in una mano e un calice di vino bianco nell’altra. È una serata di inizio estate e lo chef sembra godersi la vita. Ci saluta con un “ciao” tanto spontaneo da risultarci estraneo, mentre ci incamminiamo sotto i lampioni di Avenue Parmentier, allontanandoci da quel fantastico luogo di perdizione che è Le Chateubriand.

Ci piace cominciare da qui il nostro racconto. Di Inaki Aizpitarte si è già detto tutto. Genio e sregolatezza ai fornelli, con la fisionomia dell’artista tormentato e l’atteggiamento da poeta maledetto che si applica in cucina, risultando uno dei migliori chef della capitale parigina. Una cucina espressa, che segue la proposta del mercato e la stagionalità, che non vuole piacere a tutti, ma che riesce ciecamente a entusiasmare molti. Come può uno chef praticamente autodidatta, con a disposizione una cucina troppo piccola per essere vera, riuscire a danzare con leggerezza sull’alternanza dei sapori, in una successione di dolcezze, acidità, temperature e consistenze, tanto precisa da risultare degna di un menu da ristorante vero? La risposta sta nell’organizzazione. È riuscito a raggiungere il traguardo dell’inaspettato, dando vita a una cucina di assemblaggio, precucinata per la maggior parte, che riesce a colpire le papille gustative con esuberanza e gentilezza, senza farsi mancare un pizzico di sfrontatezza. Inaki Aizpitarte è un talento cristallino, capace di tanto sulle montagne russe su cui ha scelto di lavorare, ma in grado, senza dubbio, di gestire la brigata di un hotel di lusso qualche arrondissement più a sud. Il contrario, in questo ipotetico scambio di cucine e brigate, non sarebbe affatto scontato.

Una cucina di assemblaggio fatta per essere ricordata

Il gioco psicologico tanto attraente quanto irritante è quello che ci riporta bambini, quando in un qualsiasi negozio di giocattoli, venivamo rapiti dalla bellezza di una costruzione di Lego mastodontica, compravamo la scatola e, una volta a casa, cercavamo di ricostruire la meraviglia impressa nella nostra memoria, puntualmente senza riuscirci. Ecco, Inaki Aizpitarte, se non avesse fatto il cuoco e altri mille lavori, potrebbe essere l’addetto alla costruzione di Lego da allestimento nei negozi di giocattoli.

La sequenza Riso, salicornia e tartufo (senza riso), un classico da queste parti, rappresenta la sublimazione della filosofia di cucina dello chef e la dimostrazione di quanto appena scritto, con la crema di salicornia a scaldare i piccoli chicchi composti dalla pianta marina, mentre il tartufo supporta il peso iodato con un tocco di eleganza, che dona una freschezza inaspettata al complesso. Sgombro e cassis gioca sul contrasto dell’acidità colorata delle bacche di cassis, accolte dalla grassezza di un pesce appena tiepido, splendido nella sua integrità. Nasello, acqua di vongole, zucchine gialle e fiori di sambuco si fa notare per l’audacia del servizio; il pesce crudo si cucina direttamente nel piatto grazie al calore dell’acqua di vongole, che supporta la rincorsa di dolcezze presenti con un estratto di umori marini. Pollo e patate è il colpo di scena, il piatto che non si dimentica, che giustifica e conclama le scelte di un cuoco totale, capace di tutto, fiero di sé stesso e del suo lavoro. Su cui noi vogliamo rischiare qualcosa.

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L’inizio della rivoluzione a pochi passi dalla Bastiglia

Quella di Bruno Verjus è una storia tutta da ascoltare. Basta guardarlo per rendersi conto di avere a che fare con un personaggio sui generis, capace di realizzare in una sola vita ciò che gli altri non realizzerebbero in tre, e forse nemmeno riuscirebbero a sognare. Dopo un percorso scolastico passato studiando libri di medicina, capisce che la sua vera passione riguarda certamente la salute, ma in maniera preventiva piuttosto che curativa. Il cibo, il vino, i prodotti  genuini, l’arte della lavorazione delle materie prime diventano il suo obiettivo, affrontato in maniera analitica come d’uopo per un aspirante dottore. Il passo per diventare un giornalista è breve, con una carriera in impennata tra carta stampata, microfoni radiofonici e telecamere. Magnetico, carismatico, con uno sguardo profondamente complesso di chi, da un momento all’altro, potrebbe inventarsi una contorsione celebrale in grado di lasciarti sbalordito, Verjus si fa notare diventando in breve un punto di riferimento per appassionati e addetti ai lavori. Tutto sembra incanalato per il verso giusto, Verjus si potrebbe pensare essere appagato dal suo successo professionale, e invece arriva il colpo di tacco del campione, la giocata che cambia la partita in un istante. Corre l’anno 2013 e dall’alto del suo sapere teorico raccontato nel corso degli anni, Verjus decide di diventare un cuoco e di aprire il suo ristorante, Table.

Ovviamente il risultato non è banale. Il locale si sviluppa lungo uno splendido bancone di acciaio, che serpeggia sinuoso, creando piccole isole che delimitano la privacy degli ospiti, mentre dall’altra parte lo chef Verjus e i suoi collaboratori danno vita allo spettacolo delle cotture.

Dalla piastra alla bocca, una cucina “vanitosa” e senza filtri

Irruento, deciso e diretto, Verjus mette in atto una cucina in cui l’elemento prediletto è senza dubbio il fuoco, tramite il quale ogni cottura viene eseguita. Sfrigolii, “fiammeggiamenti” e rosolature sono la cornice all’interno della quale va in scena una contemporanea esibizione di cafè-chantant. Il menu è un manifesto, un compendio della filosofia dello chef, da leggere con attenzione per immergersi nell’atmosfera della serata. In brevissimo tempo ci si accorge che la cena non è una cena, il ristorante, in cui si è, non è un ristorante e lo chef che sta cucinando non è uno chef. Tutte cose, a conti fatti, facilmente prevedibili. Verjus si conferma il personaggio istrionico che è sempre stato, libero da vincoli imposti e alla continua ricerca di nuovi orizzonti personali da poter condividere con il resto del mondo. L’improvvisazione stravolge quanto letto in fase di ordinazione e l’attenzione si catalizza sullo chef più che sul risultato dei suoi piatti. Un approccio forse un po’ egoistico, sicuramente egocentrico, ma magnificamente realizzato. Lo spettacolo consente poche chiacchiere con il proprio commensale e prevede finezze tecniche visive davvero notevoli. Vedere cuocere per intero una faraona che poi, seguendo le sue esigenze di cottura, viene disossata à la minute direttamente sulla brace, è un pezzo di repertorio che porteremo con noi davvero a lungo.

Table è senza dubbio un locale che può esistere solo e solamente grazie alla presenza al suo interno dello chef patron. One man show che allieta e diverte, tendendo allo stupefacente, al colpo di bacchetta magica, che non si può concedere il lusso di una serata sotto tono, di un servizio scarico dell’energia che lo contraddistingue. Ciò rende Table e Verjus condannati a essere fedeli alla propria bellezza, in una sorta di “Ritratto di Dorian Gray” applicato al quotidiano. La vanità è la cosa più importante, specialmente per un vanitoso, il che comporta inevitabili conseguenze sia in positivo sia in negativo. Table è un locale che fa discutere, che non lascia indifferenti, esattamente come il suo ideatore. Il risultato è raggiunto a pieni voti, specialmente per Bruno Verjus.

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Michele Farnesi rinnova le rotte turistiche parigine

Belleville è un quartiere parigino più famoso per il suo fermento notturno che per le bellezze artistiche presenti. In una piazzetta, all’ombra di una chiesa, un piccolo locale con pochi tavolini sul plateatico sembra accompagnare lo scorrere del tempo come uno spettatore farebbe nella sala di un cinema.

Quello che una volta fu il Roseval di Simone Tondo, oggi è diventato il quartier generale di Michele Farnesi, lucchese folgorato sulla via dei fornelli, che vede la propria mecca nella capitale francese. Il rapporto tra esterno e interno del Dilia è del tutto idiosincrasico. Il romanticismo porta con sé una dose di follia più o meno grande a seconda dell’innamoramento e a quanto pare quello tra Farnesi e Dilia sembra essere stato un colpo di fulmine lancinante. Non c’è infatti alcun motivo apparente per decidere di intraprendere un’avventura ambiziosa come quella a cui dà vita Farnesi in un locale di questo genere. Piccolissimo, presenta soffitti bassi che non aiutano l’acustica del locale, facendolo diventare anche un po’ claustrofobico, con una temperatura difficilmente gestibile dato il sovraffollamento umano e con sgabelli al banco talmente scomodi da risultare difficilmente sopportabili. Ma il disagio non è un ingrediente che caratterizza solo la serata dei clienti, bensì anche quella dei cuochi che si trovano a dover fare contorsioni in una cucina di pochi metri quadrati.

Magia, mantica, illusione, spettacolo o semplicemente tanto talento

Tutto viene ridimensionato, stravolto, rivalutato quando la macchina organizzativa di Dilia si mette in moto. Ciò che può rimanere di un servizio di sala, date le dimensioni del locale, si trasforma in una geniale forma di intrattenimento da parte dei due camerieri che esula dalla mera sfera gastronomica. Con una spontaneità invidiabile, i piatti e i vini in abbinamento si susseguono con grande ritmo. La sensibilità nel trattare i prodotti da parte dello chef è subito chiara, mettendo in sequenza quattro ingredienti accarezzati ed esaltati come meglio non si potrebbe. Tortellini di agnello, camomilla, bottarga e rabarbaro è l’introduzione al libro che accompagnerà la serata, un incipit chiaro e risoluto, in cui ogni masticazione spezza l’esplosione gustativa che deriva dalla precedente. La dolcezza leggermente verde della camomilla accompagna gli umori dell’ovino enfatizzati dalla concentrazione iodata della bottarga, mentre il rabarbaro è una piacevole nota croccante che dona freschezza. Impeccabili le Linguine con aragosta, pomodoro e pangrattato, un distillato di italianità memorabile. Si prosegue con Anguilla, stracchino e piselli, passaggio che dona nuova vita al formaggio spalmabile che funge da salsa, in cui l’acidità è veicolata dalla grassezza che incontra la nota terrosa e dolciastra dei piselli e sorregge la cottura magistrale dell’anguilla. Il coup de theatre arriva con Animella, vongole e agretti, delocalizzante, stordente, stratosferico. Francia e Italia non sono mai state così vicine con un piatto di indubbio valore gastronomico, che sottolinea la sua identità proprio superando l’eterna rivalità tra i due Paesi.

Dilia entra di diritto nella lista dei ristornati da visitare tassativamente durante un soggiorno a Parigi. Complimenti a Michele Farnesi e a tutta la sua brigata, che, nonostante vengano snobbati dal firmamento gastronomico, illuminano il cielo di Parigi a suon di fuochi d’artificio.

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L’alter ego di Saturne è un circo enogastronomico

Domatori di tigri e leoni, fachiri, pagliacci, acrobati, equilibristi, mangia fuoco e ipnotizzatori. Questi erano i clienti del Clown Bar nei primi anni del ‘900, quando i circensi del vicino Cirque d’Hiver Bouglione desinavano in tranquillità tra le belle mura decorate a tema.

Dal 2015 la storia trova nuovo slancio, grazie alla coppia ChartierLe Moigne, già proprietari di Saturne, che da dietro il banco presidiano i pochi tavolini in legno. Il successo è immediato. Fuori dal locale c’è sempre una fila di persone in attesa di provare gli equilibrismi palatali del duo delle meraviglie. Non c’è trucco, non c’è inganno. La formula rasenta la totale purezza, numeri da circo accompagnati dai classici da “retro tendone,” truccati quanto basta per essere contemporanei. Nessun formalismo, dunque, ma un servizio leggero e spontaneo, mentre il profumo del burro bianco si arrampica su per le scale, passando dalla cucina alla sala. Un luogo di totale perdizione in cui la suspense è rappresentata dall’attesa tra un passaggio e l’altro, mentre l’adrenalina cresce durante la scelta di un altro verre de vin.

L’intelligenza di Chartier esplode in cucina

A testimonianza di quanto già raccontato qui, Sven Chartier dimostra di possedere un’intelligenza finissima, tanta spregiudicatezza e un’affinità imprenditoriale fuori dal comune. Eccezion fatta per la filosofia di base, ovvero il rispetto per la naturalità in ogni sua forma, tra Saturne e Clown Bar non c’è alcun punto di contatto. Diretto e irriverente, Clown Bar sopperisce ai limiti dell’atteggiamento un po’ troppo politically correct di Saturne, facendo mostra di sé attraverso una cucina impeccabile nella sua semplicità e assolutamente spregiudicata.

Il cervello di vitello, gremolada e salsa al ponzu, presentato nella sua interezza, è un esempio di edonismo applicato, la sublimazione dell’arte dello stare a tavola, la volontà esplicita di infrangere qualsiasi tabù. Seppia, riso venere, inchiostro e rafano è un esercizio stilistico il cui tema è la gommosità di insieme data dalla seppia e dal riso venere cotto come fosse un risotto. Gommosità smorzata grazie alla vena balsamica e piccante del rafano e alla voluta eccessiva sapidità apportata dall’inchiostro. Piatto totale.

Non sono da meno i Ravioli con ricotta, consommé al cedro e tartufi di mare, in cui la morbidezza della ricotta si lega alle note citriche del consommé e lascia libero sfogo all’intrusione dei tartufi di mare.

Passare da Parigi senza far visita a Clown Bar sarebbe un errore imperdonabile. Fare visita a Clown Bar senza visitare Saturne sarebbe un errore altrettanto grave. Due locali che si completano a vicenda e che consigliamo di visitare uno dopo l’altro in rapida sequenza.

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Nel quartiere della borsa parigina, Sven Chartier ha trovato la sua maturità espressiva

La cucina di Sven Chartier, chef patron di Saturne, è un distillato di idee chiare, di grande sicurezza di sé e di una carriera scintillante scritta in pochi anni.

All’interno delle due sale in cui si sviluppa il ristorante, lo chef, affiancato in sala da Ewen Le Moigne, manda in scena una rappresentazione il cui credo è il rispetto per la natura in ogni sua forma. Le etichette biodinamiche rappresentano il primo criterio di selezione insieme, ovviamente, al fattore qualità. Il ritmo del servizio è incalzante, frenetico, sorridente. La spirale emozionale avvolge il cliente e gli tiene compagnia per tutto il pasto. La brigata di Chartier lascia intravedere l’energia che poi arriverà nei piatti del solo menu degustazione proposto, attraverso il frenetico movimento delle toque blanche. Farsi guidare dall’apparenza però, come spesso accade, risulta fuorviante. Il racconto gestuale evoca una cucina totalmente disinibita, spontanea nei suoi contrappunti, laica nei confronti dei capisaldi francesi. Mentre Sven Chartier dimostra di possedere una maturità sorprendente, che applica a ogni piatto, dando vita a una cucina certamente vivace, inappuntabile dal punto di vista tecnico, ma anche piuttosto furba. Comunque, sempre sofisticata.  Una cucina che trova la sua vivacità nella perfezione esecutiva, nei cromatismi e soprattutto nelle studiatissime temperature di servizio. Nota, quest’ultima, che dimostra l’intelligenza gustativa dello chef che, pur prediligendo una linea tondeggiante, riesce a renderla estremamente personale e seducente.

Una cucina autoriale capace di non scontentare nessuno

Asparago, foglia d’aglio, maionese al burro nocciola è un’ode al prodotto, con la fibrosità dell’asparago nemmeno pelato, che si confonde con la nota tostata del burro nocciola, mentre la foglia d’aglio è l’involucro verde, all’interno del quale la tiepidità del servizio sprigiona tutta la sua eleganza. Cambiano le temperature, ma il risultato rimane eccelso con Muggine, funghi blu, funghi champignon, grano saraceno e brodo di funghi in cui la profondità iodata, apportata dal muggine, incontra il terreno boschivo in un gioco di rincorsa tra umori e consistenze. Il brodo freddo e il grano saraceno soffiato sono il tocco di spensieratezza necessario per rendere fruibile un piatto di una complessità eccitante.
Animella, sesamo tostato e salsa ai datteri percorre lo stesso sentiero gustativo del resto dei piatti del menu, sfoggiando una tecnica sopraffina senza vergognarsi di saper strizzare l’occhio alle dolcezze di supporto.

Con un pizzico di irriverenza in più il Saturne sarebbe da annoverare tra le più grandi tavole d’Europa. Ma Chartier ha un altro asso nella manica, si chiama Clown Bar e tra poco andrà in onda su questi schermi.

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