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Le George

Una cucina italiana che spopola a Parigi

Sfarzo e opulenza aleggiano negli ambienti luminosi di uno dei più lussuosi alberghi di Parigi: il George V, oggi sotto il brand Four Seasons, a pochi passi dagli Champs-Elysées, nel  “triangolo d’oro” della città. Tra le 5 stelle Michelin attive all’interno di queste mura, spicca con orgoglio Le George, ristorante italiano guidato da Simone Zanoni, Chef bresciano, già longa manus di Gordon Ramsay in Francia al Trianon Palace di Versailles e ancor prima Executive Chef al suo ristorante tristellato di Royal Hospital Road a Londra.

L’ambiente è elegante, raccolto e luminoso, tra fiori freschi, lampadari di Baccarat e tavolini apparecchiati all’americana, senza tovaglia. Certamente più affascinante il dehors. La cucina è, ancor prima che italiana, mediterranea, con alcuni “signatures” pensati per la condivisione, che spopolano tra l’affezionata clientela, preparati con un pescato di primissima scelta e vegetali auto-prodotti (provenienti da un orto di 8 ettari a Versailles) di notevole qualità.

Un sorprendente “lusso sostenibile” al George V

Zanoni è sicuramente uno Chef mediatico ma ha saputo costruirsi una reputazione di tutto rispetto lavorando duramente per introdurre il concetto di sostenibilità in un mondo, quello dell’hôtellerie di lusso, dove lo spreco alimentare sembra inevitabile. Una sfida ambiziosa ma vinta grazie ad una serie di progetti in collaborazione con l’associazione Les Alchimistes, che tratta gli scarti alimentari in tempi rapidissimi contribuendo ad alimentare l’orto dal quale il ristorante trae benefici con prodotti di eccellenza, realmente a chilometro vero.

Un lusso sostenibile che si trasferisce anche nei gustosissimi e generosi piatti dal tasso tecnico imprescindibile (siamo pur sempre in una tavola di lusso di Parigi) e da una piacevolezza complessiva che sfocia ben presto nella golosità. L’Arancino allo zafferano e tartare di tonno è un boccone di rara goduria; il Carpaccio di barbabietole, lamponi, nocciole e caprino è di una bontà trasversale, un po’ come la Tarte tatin di pomodori canditi e gelato di cacio e pepe, perfetto connubio tra sapori italiani e transalpini.

Si resta travolti dalla golosità anche con i Tortellini alla carbonara dello Chef (ma sono più ravioli nella forma) che, a causa della generosa porzione, vengono meno apprezzati dopo un paio di assaggi a causa del potente umami che sprigiona il concentratissimo ripieno alla carbonara. Il piatto meno entusiasmante è il Risotto seppie e champagne, molto buono di sapore e con un’ottima materia prima ittica, ma con il chicco di riso che avremmo preferito più compatto.

Si risale con il dessert, del premiato Pastry Chef Michael Bartocetti: Nido croccante al cioccolato, olive cerasuola e gelato al fior di latte. Notevole per consistenze e contrasti. Servizio di sala capitanato dal maître italiano con una squadra internazionale, giovane e professionale. L’unico neo? Il beverage, con una carta, anche dei cocktail, con i tipici ricarichi – elevatissimi – da cinque stelle lusso.

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L’Arpège di Alain Passard: una cucina fuori dal tempo

L’Arpège è uno di quei rari ristoranti che, varcata la soglia d’ingresso, provocano un vortice di emozioni. Una volta seduti al tavolo, è inevitabile poggiare per un attimo il pensiero sul fatto che in quegli stessi locali, un tempo, vi era l’Archestrate di Alain Senderens – citato da Alain Passard quale proprio maestro – la storia della cucina francese e, allo stesso tempo, una vicenda umana che non può lasciare indifferenti e, anzi, conduce a sorvolare su qualche carenza in termini di comodità (la sala principale notoriamente stretta, la vicinanza tra i tavoli e la stanza al piano interrato).

La parabola di Alain Passard è oramai nota ai più: un cuoco che, nel 2001, con i tre macarons appuntati sul petto – e una gran fama di rôtissier – decideva di proporre un menù interamente vegetale, un’autentica rivoluzione (quando si parla di avanguardia e di svolta green…). Ora, la proposta gastronomica dell’Arpège è per la gran parte basata sui prodotti della terra – interamente provenienti dai tre appezzamenti di proprietà (terreni di diversa composizione) – con qualche inserimento proteico, ossessivamente selezionato. Ciò posto, la domanda che molti appassionati si pongono è: ad oggi, la cucina di Alain Passard merita di essere frequentata per la sua attualità oppure si risolve in un omaggio al passato? Ebbene, questo pranzo ha restituito un cuoco in grande forma, quasi rigenerato dalla pausa imposta dalla pandemia. Dinanzi, si ha un uomo che ha un evidente dono – c’è una componente imponderabile in alcuni passaggi –, una figura romantica, quasi cinematografica, di cuciniere che, grazie a ingredienti straordinari, tanta tecnica (non esibita) e un’ossessione per l’importanza del gesto, riesce ad emozionare. Si badi, sarebbe un errore recarsi in rue de Varenne alla ricerca di una cucina “contemporanea”, anche in termini banalmente estetici: quella del cuoco bretone è senza tempo, eterna, personalissima e richiede un approccio libero da preconcetti per essere apprezzata. Il servizio è preciso ed essenziale – magari il cambio delle posate avrebbe potuto essere più puntuale – e nessuno spazio è lasciato a orpelli o manierismi. I ricarichi sui vini rasentano l’immoralità (un’abitudine parigina), con alcune eccezioni (da scovare con il lanternino).

Una cucina di archetipi

In occasione della nostra ultima visita abbiamo optato per il menù “Le déjeuner des jardiniers” – un percorso interamente verde e calibrato sugli ingredienti della stagione – con l’aggiunta di due proteine alla carta (vi è la possibilità di condividere una portata in due persone). La capacità del cuoco di estrarre la massima concentrazione di sapore emerge subito in Fines ravioles potageres, consommé de printemps: una pasta finissima ripiena di cipolla, salvia e cavolo in un brodo dalla grande intensità: boccone veramente complesso. In termini di  a-temporalità, paradigmatica è la Tartare pourpre végétal acidulé au raifort moutarde des jardinier, un piatto-icona capace come pochi altri di valorizzare l’ingrediente vegetale e, nel contempo, un caso rarissimo in cui al trompe-l’oeil segue un assaggio strabiliante (la sostanza sovrasta l’impatto visivo, non viceversa). Un passaggio memorabile – forse il migliore – è poi la vellutata (tiepida) di foglie di rapa e spinaci con crema chantilly alla salvia, in un intreccio – del tutto privo di consistenza o masticabilità – tra dolcezza, note balsamiche, sensazioni tanniche e grasse, al termine delle quali resta al palato il sapore di salvia più nitido, lungo e intenso che si possa immaginare.

Ancora, il sushi di rapa bianca, olio d’oliva di Alentejo e olive nere è un piatto che si fatica a comprendere come possa funzionare: eppure, la consistenza e la mineralità della rapa, la nota piccante, la grassezza e leggera acidità dell’olio, la temperatura del riso… ineccepibile. Il passaggio meno indovinato è, invece, la parmentier di rapa, spinaci, carote e senape, in cui un eccesso di note speziate (un errore?) incide sulla piacevolezza e sulla percezione del singolo ingrediente. Il carré d’agnello di Sisteron (alta Provenza)  è la prima delle scelte alla carta: carne di qualità eccelsa, cottura di una perfezione prima sconosciuta, in un abbinamento con una salsa alle ostriche –  dai sentori iodati e salmastri – che porta alla mente Senigallia, banchina di Levante. La seconda aggiunta è invece una sogliola con salsa al vino Côtes du Jura e dragoncello, foglie di cavolo e patata fondente, in cui il pesce ha una consistenza turgida (ai confini con il croccante) e la salsa – un classico del cuoco – amplifica le note marine: le foglie di cavolo – carnose e succulente – e la patata – cremosa e setosa – non sono un’anonima presenza, bensì potrebbero rappresentare una portata a sé. Da ultimo, un soufflé di avocado e pistacchio con cuore di cioccolato fondente, un guizzo di genialità nonché un altro passaggio difficilmente “spiegabile”: ingredienti inconciliabili tra loro funzionano alla perfezione.

La cucina di Alain Passard è apparentemente semplice e scevra da sovrastrutture, tanto da correre il rischio di venire banalizzata o risultare indecifrabile, soprattutto se non sia ha una memoria gustativa minimamente strutturata, come alcuni grandi album jazzGiant Steps o Kind of Blue – , al primo ascolto ostici ma, quando vi si ritorna, a tempo debito, capaci di aprire uno squarcio e far rivalutare ciò che si è sino al quel momento ascoltato – o, in questo caso, mangiato –: l’agnello non sarà più lo stesso, così come la rapa o l’immagine che balzerà alla mente quando si penserà alla salvia.

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Giovani italiani (all’estero) con un roseo avvenire

Eugenio Anfuso e Cecilia Spurio fanno coppia fissa nella vita e nel lavoro. Da poco sono a capo della cucina di Korus, piccolo bistrot parigino tra Bastille e République. Dopo aver cucinato straordinari piatti di pesce chez Bernard Pacaud (ed esperienze precedenti da Igles Corelli, Aimo e Nadia e Pascal Barbot) lui, e dessert di un certo livello in alcuni tre stelle (Enrico Bartolini, Pierre Gagnaire e Guy Savoy, dopo essersi formata all’ALMA) lei, hanno deciso di fare il passo decisivo della loro carriera e lavorare spalla a spalla mettendo a frutto le loro esperienze.

Il risultato si è materializzato in una cucina quasi istintiva sorretta però dalle solidissime basi classiche francesi. Da Korus, infatti, Eugenio e Cecilia propongono una cuisine du marché che più istintiva non si può. Un menu in costante movimento che ha conquistato subito la fiducia dell’esigente cliente locale, molto avvezzo alle proposte “bistronomiche” di qualità dello sterminato panorama gastronomico cittadino. Ambiente chic e sobrio e due menù degustazione per la sera, uno a 62€ con 7 portate, antipasti e pasticcini, l’altro a 72€ con 8 portate, stuzzichini e mignardises finali.

Un menu diviso in capitoli che parte dal prodotto stagionale

Préparations créatives de produits bien élevés” è la filosofia di questo locale. I piatti sono divisi in capitoli, a raccontare una storia che varia con il variare delle stagioni e del mercato. Una sequenza di sensazioni e ricordi: acidità, braci, ripieni e farce, suggestioni di Bretagna, affumicature, primavere e infanzie. I due giovani cuochi ci hanno dato saggio di grande esperienza con colpi di classe come il Carciofo alla brace, latte di Chevre e liquirizia, il Piccione, ketchup di peperone, ribes e mezcal o gli elegantissimi dolci: la Mousse al lime, piselli, basilico e citronella o la Meringa al rabarbaro, riso al latte e anice verde, eccezionalmente giocato tra contrasti piuttosto spinti.

Parliamo di due talenti da tenere attentamente d’occhio, che si cimentano con una cucina che ricorda molto le grandi tavole “bistronomiche” parigine, tra Inaki e Passerini, ma non solo. L’esperienza viene completata da un servizio giovane, rapido e amichevole e da una proposta di etichette di vini naturali, mai in voga come oggi.

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Arnaud Donckele e Cheval Blanc: un binomio vincente

La fortunata collaborazione tra lo Chef Arnaud Donckele e la maison alberghiera Cheval Blanc – prima limitata a La Vague d’Or di St-Tropez – ha dato alla luce un’altra gemma, Plénitude, il ristorante di alta cucina situato all’interno della nuovissima sede parigina che, a soli sei mesi dall’apertura, è stato premiato con tre macarons, conseguendo un risultato più unico che raro (l’ultimo esordio in guida con il massimo riconoscimento era rappresentato dal Pavillon Ledoyen di Yannick Alléno). Peraltro, occorre sottolineare come le offerte gastronomiche dei due ristoranti siano ben distinte e originali, ciascuna fortemente influenzata dal contesto d’appartenenza, l’una mediterranea e focalizzata sull’ingrediente, l’altra più tesa a celebrare la classicità della Ville Lumière: in tal senso, non è azzardato affermare che, con l’apertura di Plénitude, il cuoco di Rouen abbia inaugurato un percorso inedito. Un plauso merita, poi, la parte dolce del percorso, affidata a Maxime Frédéric, uno dei più grandi pasticceri francesi – allievo di Cédric Grolet e già responsabile dei dessert de Le Cinq – a cui è stato altresì affidato il Limbar, la pâtisserie-boulangerie situata all’interno dell’albergo.

Un nuovo approccio alle salse: come proiettare nel futuro la cucina classica francese

Il manifesto del ristorante parigino di Arnaud Donckele è chiaro: proporre una visione personale e contemporanea della cucina francese – in particolare, quella della Capitale – attraverso una rilettura dei suoi capisaldi, ovverosia salse, vinaigrettes, brodi e jus. Queste ultime sono le vere protagoniste del menù, in un’inversione della gerarchia classica che, invece, le concepirebbe come accompagnamento dell’ingrediente principale. Infatti, Il personale di sala invita calorosamente l’ospite ad assaggiare innanzitutto la salsa – a cui è costantemente dedicato un servizio di grande impatto estetico, teso a valorizzarla – e, solo in un secondo momento, la portata nella sua interezza. Questo scambio di ruoli tra protagonisti e co-protagonisti ha implicato un lavoro maniacale su complessità – l’elenco dettagliato degli ingredienti di ciascuna salsa è sbalorditivo – finezza e leggerezza, quest’ultima raggiunta mediante l’eliminazione dei “leganti” classici, sostituiti da ingredienti nobili.

Un esempio fulgido in tal senso è rappresentato da Langoustine/Artichocke/Buddha’s Hand, in cui il crostaceo (dalla cottura ineccepibile) è affiancato da una Vinaigrette “Cornaline” che, oltre ad amplificare il sapore dell’ingrediente principale – presente sotto forma di brodo e di uova, queste ultime utilizzate altresì per legare la salsa – aumenta la complessità del boccone con una trama straordinariamente fitta di sentori agrumati, in perfetto equilibrio tra sapidità, acidità e dolcezza (limone macerato, sciroppo di cedro, succo di yuzu, olio di verbena, etc.). Il risultato più entusiasmante è però rappresentato da Trout/Clam/Caviar e brodo “Ode à l’iode”, indovinato connubio tra le note di terra del pesce d’acqua dolce e quelle tipicamente marine (“ode allo iodio”, per l’appunto): sul piatto, si trovano trota, caviale, molluschi, nocciola e salicornia; dall’altro lato, il brodo è invece preparato con una base di pesce, limone caramellato, ramo di melissa, polvere di plankton, succo di abalone, ostrica piatta e olio al limone. In sparuti passaggi – soprattutto in Veal/Morel/Wild Garlic e nei benvenuti iniziali – si è invece avuta la sensazione che la costruzione della portata e il governo della complessità avessero preso il sopravvento sul risultato finale: un assolo in cui al numero mirabolante di note suonate non corrispondono eguali emozioni.

Da ultimo, il dessert, memorabile: un’insalata di agrumi su cui è poggiata una rosa di meringa ripiena di crema al basilico e limone, cui viene aggiunta – in perfetta coerenza col resto del percorso – una salsa denominata Esquisse d’endocarpe (limone macerato, endocarpo di limone, olio d’oliva e di mandarino), a conferire altresì un’elegantissima nota amara.

In conclusione, Plénitude conferma l’enorme talento di Arnaud Donckele, un cuoco capace di costruire piatti tanto complessi quanto ragionati (e, in quanto tali, passibili di più gradi di lettura), il cui livello – lo si ribadisce, già eccezionale –  evidenzia ulteriori margini di perfezionamento.

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Il temporary restaurant a Parigi

Dove più che al ristorante la contaminazione e l’inclusione (parlando di ingredienti, ricette, tradizioni) diventano due fattori imprescindibili per aspirare al successo dell’impresa che si vuole intraprendere? Lo sanno senza alcun dubbio Alain Ducasse e Albert Adrià che, insieme a Romain Meder e Jessica Préalpato, han dato vita a Parigi a un temporary restaurant senza precedenti: Admo Les Ombres. Un nome che unisce le iniziali di Adrià-Ducasse-Meder-Ombres e che battezza il luogo che, per soli cento giorni (l’ultimo servizio cadrà infatti il 5 marzo), delizierà il palato dei gourmet e dei gourmand di tutto il mondo. Un progetto ambizioso che ha creato ovviamente tante aspettative – qualcuno potrebbe persino dire troppe – e generato una mole di news, post e stories sui social senza precedenti.

Inclusività e armonia, con un ma

Leggendo il menù e assaggiando i piatti si ha subito una sensazione positiva, data sicuramente dal fatto che non si avverte competizione o prevaricazione di una cucina, o di uno chef, rispetto ad un altro. È un’orchestra inclusiva, senza “prime donne”, uno scenario perfettamente armonico che sarebbe bello ritrovare in ogni ambito della vita quotidiana.

Il panorama di cui si gode da questo sito di elezione è veramente di grande effetto. La Torre Eiffel si trova lì, a pochi metri dal soffitto tutto a vetrate del ristorante Les Ombres, situato sul tetto del Musée du Quai Branly – Jacques Chirac. Il servizio è di livello anche se mai ingessato, affidato a un gruppo di giovani (finalmente!) e promettenti professionisti della sala. A disposizione dei clienti due menù, da cinque o sette portate, con o senza abbinamento vini.

Grande materia prima, impiattamenti originali, concentrazione dei sapori e la giusta importanza tributata al pane, che qui diventa addirittura una portata. Caratteristiche che, in effetti, ci si aspetta di trovare in un ristorante di tale livello, per un’esperienza che, nel complesso, vale la pena fare ma con alcuni ma. I piatti sono frutto del pensiero di due teste, di due stili, che non sempre convergono in un gusto di amalgama coerente. Alcuni passaggi, come l’Aragosta, colpiscono più per l’apparenza che per la sostanza del gusto. E altri sono si interessanti, ma quasi mitigati, addolciti, arrotondati per compiacere ai molti clienti che si affannano a visitare questo esperimento temporaneo che, però, necessita forse di maggiore amalgama e attenzione da parte degli illustri attori in gioco. La nostra impressione è che ci sia un approccio poco approfondito ed organico, e che il risultato sia molto inferiore alle aspettative generate.

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