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Double Dragon

Tutti a cena nell’11°

Pochi movimenti hanno avuto un effetto più dirompente nel panorama gastronomico delle capitali europee della cosiddetta “bistronomie”. Cucine poliglotte, stagionali, ricche di spunti creativi; solo vini naturali, playlist di qualità, atmosfera frizzante e prezzi così bassi da rendere l’esperienza “pop” per davvero. Un modello ormai consolidato che nell’ultimo decennio ha visto eccellere Septime, capace di promuovere l’11° arrondissement a luogo d’elezione della gioventù gourmet di Parigi e di raggiungere un successo planetario che di certo ne trascende i meriti: difficile infatti pensarlo tra i primi 10 ristoranti del mondo e migliore di Francia. Bertrand Grébaut, Chef e proprietario, ha affiancato a Septime una seconda tavola di solo mare, Clamato, mentre la moglie Tatiana Levha, in società con la sorella Katia Levha, ha lanciato prima Le Servan e poi Double Dragon “rubando” per quest’ultimo anche il sous chef Antoine Villard, oggi già in uscita verso altri lidi.

Cucina melting-pot

Origini filippine, infanzia e adolescenza apolidi, le due sorelle propongono una cucina melting-pot che più globale non si può, in cui uniscono influenze pan-asiatiche a prodotti e idee francesi mettendo spesso l’accento sulle sensazioni piccanti. Si parte con gli indiani Samossa: triangoli di sfoglia deep fried, ripieni di atchara e accompagnati da una francesissima crème crue. Si passa alla Tartare di cervo affumicato con jangajji , nella quale l’umami della soia avvolge e copre la carne rendendo difficile distinguerne il sapore. Si chiudono gli antipasti con il signature dish: Bao al Comté e kimchi con maionese al kimchi, un triangolo Cina-Korea-Francia che in effetti si conferma il boccone migliore della serata, sebbene l’abbinamento appaia sacrilego per gli amanti del “roi de fromages”. Chi pensava di aver esaurito il viaggio intorno al mondo resterà deluso, perché tra i piatti principali di Double Dragon compare una Quaglia, peraltro cotta alla perfezione, condita con salsa agrodolce adobo (Messico!) a base di peperoncino, aglio, aceto e zucchero. All’Insalata di lattuga tocca invece la salsa filippina di arachidi kare-kare. Si chiude con il Leche flan vanilla, una versione anch’essa filippina del creme caramel: poco più di una brutta copia del nostro goloso “latte in piedi” bolognese.

Nota a margine: da qualche mese si può prenotare facilmente online ed evitare le code infinite che si formano, per esempio, di fronte a Clamato.

IL PIATTO MIGLIORE: Bao al Comté e kimchi con maionese al kimchi.

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Un luogo meraviglioso alle porte di Parigi…

La visita a Le Doyenné impone un piccolo viaggio da Parigi, un’ora di treno sino alla stazione di Bouray e, poi, una – davvero bella – passeggiata di una quarantina di minuti fino a Saint-Vrain. L’approccio alla struttura è paralizzante, tanta è la bellezza: prati, orti, piccole stalle e l’edificio principale, una ristrutturazione di rara cura e gusto (lo Chateau confinante è stato il ritiro di campagna della contessa du Barry e della famiglia Borghese e, poi, dimora della famiglia Mortemart; invece, dov’è ora situata la sala, negli anni ‘70 hanno lavorato gli scultori Niki de Saint Phalle e Jean Tinguely). La sala principale, vetrata, ospita il ristorante, guidato da due cuochi, James Henry e Shaun Kelly, la cui idea di cucina è evidentemente basata sull’autoproduzione, con prevalenza della componente vegetale, un approccio contemporaneo – à la page – che rappresenta una novità nel contesto parigino (in cui, una cucina di “autosussistenza” è ovviamente impraticabile).

…e la cucina di campagna di due cuochi australiani

La meraviglia di cui si è detto e il benessere che ne deriva per l’ospite a Le Doyenné si ripercuotono inevitabilmente (in termini positivi) sulla percezione che si ha della cucina in senso stretto, il cui percorso si apre con una serie di benvenuti vegetali visibilmente passardiani, tra cui un Carpaccio di pomodoro, in cui la qualità della materia prima non sbalordisce come ci si sarebbe aspettati, a causa di un’estate bizzarra e di un contesto climatico che ha dei limiti oggettivi (a onor del vero, anche gli altri pranzi del “tour” hanno evidenziato carenze nella maturazione dei vegetali). In altri termini, è evidente che l’intento di servire solo verdure proprie – e costruirvi intorno la gran parte del menù – implica necessariamente il rischio di imbattersi in periodi in cui la produzione non eccelle in termini qualitativi (soprattutto nelle transizioni tra stagioni), considerato altresì lo standard medio a cui siamo abituati noi mediterranei. Una menzione merita la charcuterie – un lardo di ottima qualità – , seguita da la Crevette Impériale des marais charentais – un gambero che condivide l’habitat delle ostriche – dalla frittura (tempura) non leggerissima.

Il migliore dei passaggi vegetali è stata invece la Zuppa fredda di mais, tomatillo e dragoncello messicano, un piatto dal bell’equilibrio dolce-acido, interessante la temperatura di servizio. L’Agnello de pré-salé alla brace ha convinto per qualità e cottura nonché grazie all’accompagnamento vegetale, un’insalata dell’orto condita con una leggera salsa tonnata (pochi giorni dopo, ci è stata servita una coscia di piccione la cui cottura lasciava invece a desiderare). A chiusura del pranzo, Yogurt infuso alla verbena, cetriolo e acetosa, un dessert ben costruito in termini di contrasti tra consistenze e temperature, non eccessivamente zuccherino e intelligente nel valorizzare le note caratteristiche dei tre vegetali. In conclusione, la cucina de Le Doyenné beneficia del contesto in cui si colloca e dell’idea su cui poggia ma, se isolata da questi ultimi, evidenzia ancora qualche lacuna che richiede di essere riempita sì da uniformare – verso l’alto – il livello dell’esperienza complessiva (nonché giustificarne il prezzo).

IL PIATTO MIGLIORE: Soupe froide de mais, tomatille, estragon du Mexique.

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Maison: la casa di Sota Atsumi

In occasione dei tour gastronomici nella capitale transalpina, un consiglio frequente da parte di personale di sala e cuochi è quello di visitare Maison, il nuovo ristorante di Sota Atsumi, il giovane cuciniere giapponese che aveva portato alla ribalta un altro indirizzo assai interessante, il Clown Bar (uno dei migliori piatti di cervella che si possa avere la fortuna di mangiare): una visita è d’obbligo se si desidera saggiare il precipitato attuale della “bistronomie”.

Maison è un luogo incantevole, in cui l’architettura – a firma di Tsuyoshi Tane, colui che si era occupato del restyling di Kei dopo il riconoscimento del terzo macaron – è evidentemente concepita al fine di stimolare la convivialità (una casa, per l’appunto), di cui i tavoli sociali e l’ampio spazio davanti alla cucina ne sono riprova. Il centro del ristorante è la brace – il metodo di cottura prevalente -, di cui si occupa personalmente e pressoché in esclusiva lo Chef, l’unico vestito in nero, una sorta di ape regina intorno alla quale ruota il resto del personale di cucina, in bianco. Una menzione particolare merita, poi, la cantina, profondissima e ricca di rarità (non se si è alla ricerca di nomi altisonanti), la cui identità – chiara come in rari casi accade – è cesellata da Takashi Takebayashi, dai lunghi trascorsi in Piemonte.

Materia , grandi cotture e sfumature

La cucina di Sota Atsumi è fortemente concentrata sull’ingrediente – di qualità molto alta – e, come si è detto, predilige la brace come metodo di cottura. L’immediatezza con cui le portate sono costruite convive con una fitta rete di sfumature che, se colte, consentono di comprendere le ragioni del “culto” che ruota intorno a questo cuciniere. Anguilla, tuorlo d’uovo e spugnole è stato l’apice del pranzo, una cottura magnifica – turgida -, il tuorlo a dare grassezza e golosità e, a chiudere, la nota di terra e sapida delle spugnole. Un altro bel passaggio è stato Rombo affumicato, ostriche di Utah (Normandia) e cavoletti di Bruxelles: interessantissime l’affumicatura del rombo – eseguita nel piano più alto della brace, così da dare un leggero sentore “grasso” (nei piani inferiori erano in cottura le carni) -, la nota iodata delle ostriche nonché l’accoppiata amarotico-croccante dei cavoletti. L’Agnello da latte dei Pirenei in due servizi ha chiuso magnificamente la parte salata del percorso grazie alla sua succulenza – ancora una grande cottura – e alla trama amarotica conferita, in entrambi i passaggi, dalla parte vegetale. Uno dei dessert più interessanti del week-end è stato Torta alle pere, gelato alla vaniglia e salsa di maggiorana: il morso tumido della pera in contrasto con la croccantezza della tarte e una meravigliosa – davvero notevole – salsa alla maggiorana, intensamente aromatica e leggermente amara. Maison Sota si conferma uno dei ristoranti più interessanti di Parigi, soprattutto se si è alla ricerca di un inframezzo nel pellegrinaggio tra i mostri sacri della capitale.

IL PIATTO MIGLIORE: Anguilla, tuorlo d’uovo e spugnole.

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Le Clarence e Christophe Pelé: la “tensione” tra due stili

Le Clarence è l’ambasciata gastronomica e d’hôtellerie del Principe Robert Dillon di Lussemburgo, a Parigi, la cui famiglia è altresì a capo del Domaine Dillon che, da pochi anni, ha acquisito un’icona enologica qual è Château Haut-Brion. Su tali presupposti è facile farsi un’idea del contesto in cui si colloca il ristorante: una grande maison, che trasuda classicismo. Tuttavia, con una brillante intuizione, alla guida della cucina è stato posto Christophe Pelé, cuciniere dall’attitudine irriverente, divenuto celebre ai tempi de La Bigarrade, ristorante che proponeva una cucina di mercato – con una costante commistione tra materia alta e bassa – e menù in perenne divenire (come testimoniato dalla scheda redatta a suo tempo da Roberto Bellomo). Nella tensione e perenne ricerca di equilibrio tra queste due “anime” – ciascuna, a tratti, sembra prevalere sull’altra – sta il fascino di Le Clarence, in quel desiderio di sdrammatizzare e strappare alla prevedibilità un’offerta gastronomica che potrebbe sembrare ostaggio del contesto. Peraltro, nonostante la partenza di Giuliano Sperandio – a cui è stata affidata la guida de Le Taillevent -, questa icona della cultura parigina conserva un profondo legame con il nostro paese poiché Andrea Capasso – già passato per le cucine del Lido 84 – è il nuovo sous chef e Aurora Storari guida la pasticceria. Per inciso, è d’obbligo segnalare qualche pausa eccessivamente prolungata tra i diversi servizi – il pranzo è durato complessivamente più di cinque ore – che, nella fase finale del percorso, hanno inevitabilmente inciso sull’attenzione.

L’aurea via di mezzo

La fertile “conflittualità” tra l’opulenza e la capacità di colpire di fioretto di Pelé è nettamente percepibile nei passaggi di cui si compone il percorso, il quale, in ogni caso, si caratterizza per la costante presenza di ingredienti di pregio, tanto che, a tratti, si ha la sensazione che ciò sia frutto un’imposizione con cui il cuoco deve venire a patti (può l’eccessiva disponibilità di materia tradursi in un limite espressivo?). Da un lato, vi sono sussurri di straordinaria eleganza – come in Langoustine cruda, riduzione di arancia e polvere di lampone – e, sul versante opposto, episodi che rasentano il barocchismo, come Anguilla affumicata e laccata, caviale Osietra e mascarpone, in cui sembra che la strada dell’eccesso funga da chiave per sdrammatizzare l’importanza della materia (si percepisce immediatamente la tecnica camaniniana di cottura dell’anguilla). In altri casi, ancora, si assiste alla celebrazione della cucina classica francese – il luogo, in un certo senso, lo impone -, senza variazioni sul tema: una Pithivier di piccione da manuale.

L’apice si raggiunge tuttavia nei momenti di perfetto equilibrio tra le due forze in gioco, come nella Triglia grigliata sulla sua pelle, midollo, crisantemo giapponese e crema a base di arancia o nel Rombo leggermente grigliato, acetosella, spaghetti di patate, piede di agnello, angulas e riduzione di pesce, in cui emerge la straordinaria capacità di Pelé di mettere sullo stesso piano protagonisti e comprimari, pescare da tradizioni gastronomiche altre – vedi i gyoza, le angulas, … – cimentarsi in cotture millimetriche e far convivere eleganza e istinto nonché mare e selva.

La pasticceria vive anch’essa quest’anima bifronte, tra dessert che abbattono il confine tra dolce e salato – tra tutti, l’interessante Barbabietola, mela, radicchio e pinolo – ed altri (prevalenti) che, al contrario, non lesinano sullo zucchero, come Crostata di crème brûlée, caramello, sciroppo d’acero, cacao e gelato al tartufo nero (una sorta di “corrispondente” dolce dell’anguilla). In conclusione, Le Clarence è indubbiamente una delle cucine che meritano una tappa quando si visita la capitale francese per la capacità di valorizzare apparenti contraddizioni e far convivere grandeur e imprevedibilità.

IL PIATTO MIGLIORE: Triglia grigliata sulla sua pelle, midollo, riccio di mare, crisantemo giapponese e crema a base di arancia.

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Giovanni Passerini: un cuoco italiano a Parigi

Il Restaurant Passerini non è un ristorante italiano a Parigi quanto, piuttosto, il ristorante di un cuoco italiano in terra francese: non si tratta di una differenza meramente lessicale, bensì sostanziale. Gli stereotipi che spesso sporcano la nostra cultura gastronomica sono banditi, così quest’ultima viene evocata attraverso la convivialità, materie prime frutto di un’attenta selezione – un plauso merita la valorizzazione di alcuni Presidi (il fagiolo di Controne e il radicchio di Treviso) -, una costante generosità di sapori e la memoria nostalgica di un cuciniere distante dalle proprie origini romane (le puntarelle e il broccolo romanesco ne sono una spia). In un certo senso, l’italianità viene estratta dal proprio contesto e, così, rivelata nella sua essenza, consentendo al cuciniere una maggiore libertà, tanto nell’impiego di ingredienti provenienti dal luoghi altri, quanto nel dialogo con la tradizione ospitante (risulta così evidente la naturale convergenza con ciò che è rimasto – la parte migliore e meno narrativa – della bistronomie). Il reparto di cucina è affiancato da un’ospitalità puntuale e calorosa nonché da una carta dei vini coerente e di ricerca.

L’essenza dell’italianità liberata dal contesto

Il risultato dell’approccio di cui si è detto si manifesta con immediatezza in Tortellini di anguilla, brodo di carciofo, foie gras fresco e dragoncello: un’istituzione nostrana (la pasta era leggermente spessa) in cui fa capolino un ripieno “non canonico” ed in cui colpisce il contrappunto tra la grassezza del foie gras – ecco il dialogo con un’icona d’Oltralpe – e la pulizia palatale data dal brodo di carciofo (la chiave intorno a cui ruota il piatto, notevole la concentrazione di sapore). Nella stessa direzione si collocano Linguina Mancini, langoustine, pico de gallo, piquillo, pane e bisque – in cui la golosità di una classica linguina con gli scampi si evolve in una maggiore complessità – e Rognone di agnello, radicchio di Treviso, rapa rossa affumicata e bottarga: il quinto quarto cucinato alla perfezione, la croccantezza e dolcezza del radicchio, le note di terra e fumo della rapa rossa e la sapidità e le note di iodio della bottarga. L’apice del percorso è Baccalà basco, fagioli di Controne, ricci galleghi e bieta: davvero azzeccato il dialogo tra le note feniche dei ricci di mare (di qualità eccelsa, i migliori del tour parigino), la dolcezza e morbidezza dei fagioli di Controne – un presidio campano – e l’erbacea amarezza della bieta (un piatto in cui il baccalà basco, anch’esso di qualità notevole, sembra quasi superfluo). Giovanni Passerini è sicuramente uno dei cuochi che meglio hanno saputo veicolare l’essenza della nostra cultura gastronomica fuori confine, grazie ad una cucina immediata e sincera, lontana da scorciatoie e costruita intorno a materia prima d’eccezione.

IL PIATTO MIGLIORE: Baccalà basco, fagioli di Controne, ricci galleghi e bieta.

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