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Crosta

Dalla colazione alla cena

A Milano, in zona Porta Venezia, in una traversa di Viale Piave, troviamo un simpatico locale polifunzionale: Crosta. Avviato nel 2018, vanta due forni “a vista” all’ingresso e esprime la sua pluralità di sfaccettature offrendo la possibilità di poter acquistare dell’ottimo pane a cura di Giovanni Mineo, gourmandises e dolci, fare colazione, mangiare fino a tardi senza essere, alleluia, assillati dal tempo (sono sempre aperti per pranzo sino alle 18.00), e cenare con delle Pizze alla Pala o Tonde classiche preparate da Simone Lombardi e approntate con varie tipologie di farina a seconda dell’impasto desiderato.

Pane, pizza e cucina

La nostra visita da Crosta si apre per pranzo con un delicato, etereo, “extra large” e vegano Hummus di ceci, pinoli tostati e salsa al peperoncino e limone accostato a delle fragranti fette di pane tiepido home made con un nonnulla di olio “on top” e proseguiamo con due tipi di Pizza alla Pala composte da farina di grano tenero marchigiano tipo “0 e tipo “2” e lievito madre. Sfortunatamente a pranzo non è concesso degustare quella tonda che, in veste serale, viene elaborata aggiungendo alle due farine sopracitate, farina di grano duro antico siciliano integrale, sostituendo il lievito madre con il lievito di birra.

In alternativa qualche proposta gluten-free quale l’Uovo morbido, crema di topinambur, cavolo viola marinato o qualche proposta vegetariana come la Minestra di cavolfiore e curry e l’Insalata di fagiolini e finocchi con crema di patate al prezzemolo e menta. Scegliamo la Pizza Diavola che viene presentata con una base “margherita” con l’aggiunta di ‘nduja della Macelleria Ioppolo e un tocco di origano e la Stracciatella e Crudo che viene allestita con l’interessante prodotto caseario succitato, scioglievole Prosciutto Crudo 18 mesi dell’azienda agricola Zavoli, olio evo. Purtroppo, sebbene l’impasto fosse egregio, alveolato, digeribile e mantenesse la giusta croccantezza sia in superficie che alla alla base, il risultato è stato un filo deludente poiché entrambe risultavano un po’ bruciacchiate e annerite sul fondo.

Per cena la proposta si amplia, con le pizze tonde cucinate “espresse”, arricchite da una grande varietà di prodotti di selezionate aziende agricole. La cura per le selezione delle materie prime e il rispetto della loro stagionalità si evince nelle pizze tradizionali come la Marinara, la Bufala e la Cosacca fino alle “contemporanee” Patate schiacciate, pesto Rossi di Genova e crescenza o nella profumata e fragrante Verdure di stagione. Sulla pizza “signature”: Ventricina, coriandolo, cipollotto, ananas si è già scritto molto. Noi ci limitiamo a ribadire che vale la visita in quanto a prova di scettico (circa l’utilizzo dell’ananas sulla pizza). Concludiamo la sosta con un delizioso Tiramisù, che ben rappresenta le golose proposte di dessert e le definite “torte da credenza” come la Caprese al cioccolato, la Torta Paradiso, il Banana Bread, la Torta al limone e mandorle, la Torta carote e cannella e via preferendo. La carta dei vini, piuttosto scarna, comprende qualche etichetta di vini rifermentati in bottiglia, oltre a qualche proposta di birra e qualche cocktail.

IL PIATTO MIGLIORE: Ventricina, coriandolo, cipollotto, ananas.

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La rivoluzione del pane

Si cadrebbe in errore a liquidare la nuova formula dei fratelli Mazzucchelli a Sasso Marconi come una semplificazione di fronte alla complessità del momento storico. Tutt’altro. Perché si tratta, nientemeno, che di una rivoluzione, cui i Mazzucchelli rispondono, con precisione svizzera, ormai, ogni vent’anni e sempre in coincidenza di accadimenti di portata storica: nel 2001, quando rivoluzionarono il ristorante di famiglia, furono le Torri Gemelle, oggi la pandemia e, non ultima, la guerra in Ucraina.

Fatto sta che, ancora una volta, Aurora e Massimo hanno sparigliato le carte, e lo hanno fatto abdicando, peraltro, a tutto quanto, o quasi, consolidato negli ultimi vent’anni. All’epoca, una platea di numerosi clienti, affezionati a una cucina confortevole e di territorio; oggi a coloro che, invece, erano devoti agli strali della luce, più o meno tremula di questi tempi, della stella Michelin, che si trovano a familiarizzare con una proposta assai diversa. Radicalmente diversa, ma solo apparentemente.

Perché la cucina intima, cerebrale e carnale di Aurora Mazzucchelli è ancora tutta qui. Se ne sta solo assisa, più comodamente, più pacificamente, si direbbe, su letti lievitati, concepiti appositamente per i suoi piatti in un’ottica “site-specific“.

Una cucina in cerca di un nome

E se i riferimenti, più o meno espliciti, affondano nella rivoluzione di Simone Padoan a I Tigli, è comunque il caso di dire sin d’ora che non esiste, invero, una formula simile a quella che va in scena adesso a Casa Mazzucchelli dove, a guardarci bene, è stata coniata molto bene nel piatto ma è ancora orfana di una locuzione in grado di esaurirne la complessità, la grandezza e, al contempo, la delicatezza e la leggerezza, vivaddio. C’è, insomma, bisogno di una parola nuova per definirla, di un neologismo. Chiunque ce l’abbia si faccia avanti, dunque, almeno nei commenti.

Venendo dunque alla nostra cena, e premesso che mancano almeno due foto, quella della Seppia gratinata, focaccia integrale, fonduta di formaggio ragusano e limone e quella della pizza Margherita che, impunemente, ci siamo concessi appena prima dei dolci, ritroviamo su questi lievitati tutta l’erudizione, la sensibilità e, in definitiva, il palato di Aurora – lei che, il giorno della nostra visita, tra l’altro, era affaccendatissima dietro alle Colombe – ma sdrammatizzato e svincolato dall’elemento “piatto” e, per questo, posto su un supporto non solo altrettanto commestibile ma anzi propedeutico alla comprensione dell’insieme costruito dagli ingredienti, nel loro rapporto di mutua complementarietà. Il pane, del resto, dal momento dell’apertura del Forno Mollica è andato configurandosi come un elemento più che centrale: una posizione così preminente, anzi, da suggerire una riflessione ed esortare dunque la Chef a una nuova collocazione nel piatto, quella di ingrediente portante (letteralmente). Per questo è senz’altro riduttivo, oltre che fuorviante, definire “pizza” quella di Casa Mazzucchelli; per questo urge la necessità di un nome che possa rendere giustizia di questo nuovo corso, e della portata che esso può e vuole avere per la cucina contemporanea.

Ogni piatto, dunque, è un assaggio, una fetta, uno spicchio, un morso, che prevede il supporto di un panificato portante cui è associata una composizione di ingredienti che, come accadeva già in passato nei piatti di Aurora, disegna un paesaggio o, meglio, una miniatura, tanto ogni elemento è situato. Accade nell’Asino battuto al coltello su letto di mandorla e focaccia integrale, con capperi, pomodoro candito e cioccolato 72%, tanto dolce e vaporosa la carne quanto aromatico il palato, punto anche, là dove necessario, dalla provvidenziale sapidità del cappero. E senz’altro accade nella croccante Lumaca di Bologna avviluppata nella focaccia integrale col pesto di prezzemolo, il pomodoro capuliato e l’aromaticissimo basilico: una festa nell’orto.

Altro paesaggio egregiamente incorniciato è poi la proposta dei vini al calice di Massimo Mazzucchelli che, della volubile arte dell’abbinamento, è senz’altro uno degli ermeneuti più sensibili.

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La parte aerea: il lievito madre

La parte più ampia, più consistente, più fondante e, di conseguenza, più mitica della nostra piramide alimentare è abitata dal pane.

Ipotizzando che, alla sua realizzazione, presiedano elementi di natura fisica differente (liquida, solida e aerea) inauguriamo questa lunga trattazione intorno al pane che, secondo Ippocrate, “appartiene alla mitologia”, partendo dal lievito che, in qualità di fermento e considerata la reazione che innesca, del pane può essere considerata, appunto, la parte aerea.

Ciò premesso, i più antichi esemplari di pane pervenutici rivelano che esso era, quasi sempre, non fermentato, ovvero non lievitato: in una parola, azzimo. La fermentazione panaria, ovvero la lievitazione, ha avuto molto probabilmente un’esegesi del tutto casuale e comunque arbitraria, a seconda del territorio dove questa si innescava. Un innesco che, solitamente, scaturiva dall’uso “improprio” di birra o vino, come sostiene Vincenzo Tanara che nel suo libro “L’Economia del Cittadino in Villa” (Venezia 1658) fa risalire l’origine del lievito del pane all’uva o, meglio, alla sua fermentazione, e difatti i lieviti che innescano la fermentazione alcolica possono essere  gli stessi che presiedono alla fermentazione panaria. Ma questa non era e non è, tuttavia, l’unica strada percorribile: allora come oggi vi era infatti anche un’altra fermentazione, più spontanea che, non a caso, viene comunemente associata al termine di “madre” poiché è propria, specie-specifica del pane, appunto. Ebbene, è d’uopo chiarire sin da subito che per nessuna di queste strade verso la lievitazione contemporanea è possibile stabilire una cronologia certa. 

Possiamo invece definire con certezza quando il lievito entra in letteratura e, in particolare, in letteratura scientifica: quella vergata da Louis Pasteur, chimico e biologo francese cui tanto deve, in termini di fermentazione, anche un territorio come, per fare un esempio su tutti, la Champagne. Fu lui che nel 1857 riuscì a dimostrare il ruolo essenziale del lievito nei processi fermentativi del vino, isolando un microorganismo appartenente alla famiglia dei funghi che, invisibile a occhio nudo, una volta sviluppato si propagava con velocità, capillarità, uniformità e simultaneità: in una parola, il lievito, un organismo ubiquo di cui, oggi, sono state censite più di mille specie.

Il lievito: uno, nessuno, centomila

In questa grande famiglia, i lieviti che riguardano il pane sono i cosiddetti fermenti i quali producono energia convertendo gli zuccheri in acido lattico o alcol (etanolo), a seconda che si utilizzi, per la fermentazione, pasta madre o lievito di birra.

Prima di entrare nel vivo della nostra trattazione, tuttavia, è d’uopo mettere agli atti che, da un punto di vista normativo e a differenza di altri paesi europei, in Italia non esiste una legge che stabilisca cosa s’intende per lievito. Questa lacuna è imputabile, forse, a un vizio di natura terminologica: in paesi come la Spagna, la Francia e l’Inghilterra sono utilizzati termini differenti per indicare, e distinguere, lieviti di tipo Saccharomyces Cerevisiae – ovvero lieviti coltivati, composti da pochi ceppi selezionati per efficienza, velocità di riproduzione e resistenza agli ambienti con forte pressione osmotica, come il frigorifero – dai lieviti madre, ovverosia i lieviti selvaggi, i quali si trovano in natura sulla buccia di frutta e verdura e possono essere coltivati dopo aver creato per loro un ambiente di riproduzione ideale. Se, dunque, il primo tipo in questi paesi prende rispettivamente il nome di levadura, levure e yeast e il secondo maza madre, levainsourdough, in Italia si utilizza il termine “lievito” indiscriminatamente, benché in alcuni dialetti sopravviva ancora una simile distinzione.

Eppure, ciascuno ha caratteristiche diverse in termini di reazioni metaboliche  e, quindi, di velocità e quantità nella produzione di alcool etilico, anidride carbonica e/o altri composti organici e aromatici che influenzano la velocità di lievitazione e le qualità organolettiche dei prodotti da forno nonché, ovviamente, la nostra reazione ad essi.

Lievito bio e convenzionale

Fulvio Vailati Canta, docente ALMAcon un passato sui generis e una mente in continua evoluzione” ci racconta quanto segue: “Tempo addietro ho visitato un sito di produzione di lievito per la panificazione: qui, da uno stesso ceppo vengono prodotte una linea normale di lievito e una biologica. Cosa significa? Essenzialmente a differire è il tipo di alimentazione somministrata ai lieviti: nel biologico il cibo è costituito da melassa di canna da zucchero bio mentre nella linea normale la melassa proviene dalla canna o dalla barbabietola da zucchero coltivata in agricoltura convenzionale. Il risultato è stato sorprendente: i primi crescono molto bene e risultano più resistenti e longevi, i secondi, invece, pur crescendo bene possono essere esposti ad agenti contaminanti che, talvolta, ne rallentano la riproduzione indebolendo l’intero ceppo. Chiaramente, nello sviluppo del lievito fattore determinante è poi anche il luogo in cui avviene la fermentazione, che ne influenza le caratteristiche.

Lo starter di frutta 

Per produrre il lievito madre si può procedere con una fermentazione spontanea oppure mediante uno starter, ovvero un elemento “contaminante” avente il compito di attivare il processo di fermentazione come lo yogurt, il miele, il mosto o la polpa di frutta. A proposito di frutta, tuttavia, sono tendenzialmente da escludere kiwi e ananas che contengono un enzima detto proteasi, capace di alterare la struttura del glutine nell’impasto; da privilegiare, invece, uva, mela, pera, prugne e cachi, ricchi di sostanze zuccherine ma anche di microrganismi autoctoni preziosi per la fermentazione.

Come? Presto spiegato: si tratta di frullare 100 grammi di un frutto a scelta, privato dei semi ma non della buccia che, invece, è naturalmente contaminata dai microrganismi. L’ideale sarebbe poter utilizzare della frutta biologica, in maniera da scongiurare eventuali residui di pesticidi e fitofarmaci. Ottenuto il frullato, versarlo in un recipiente pulito e aggiungere lo stesso peso in acqua tiepida e quindi coprire con una garza per permettere alla coltura di respirare e di “catturare” ulteriori microrganismi presenti naturalmente nell’aria. Lasciar ammostare questo composto per circa 24-48 ore a temperatura ambiente, fino a quando sarà possibile notare della schiuma in superficie, segno che la fermentazione è partita. A questo punto, si può filtrare la polpa dal composto ottenuto, e cominciare a impastare il liquido con una quantità di farina manitoba utile a raggiungere un impasto asciutto e duro, oppure con lo stesso peso di farina manitoba se si sceglie di creare una pasta madre liquida. Lasciate fermentare l’impasto in un contenitore, che andrà coperto con pellicola, segnando il livello di partenza per poterne valutare l’aumento di volume. Dopo 24-48 ore, una volta avvenuta la lievitazione (l’impasto dovrebbe essere almeno duplicato), la pasta madre solida dovrà essere pulita dalle proprie “croste” ed essere “rinfrescata”, cioè nutrita nuovamente con della farina con rapporto di rinfresco 1:1, ovvero con un peso di farina pari al peso del lievito e una idratazione pari almeno al 45% della farina utilizzata per il rinfresco; la pasta madre liquida, invece, dovrà semplicemente essere rinfrescata con lo stesso peso del lievito in acqua e farina… ma ne parleremo tra pochissimo.

Il composto ottenuto a questo punto dovrà nuovamente essere riposto in un contenitore coperto da pellicola e in grado di contenere almeno un volume pari a 3 volte quello iniziale. Il contenitore dovrà essere tenuto a temperatura ambiente, possibilmente ad una temperatura intorno ai 18-21 C° per 24 ore. Il ciclo di rinfresco-fermentazione per 24 ore a temperatura ambiente andrà ripetuto tutti i giorni per circa un mese e, se tutte le operazioni verranno condotte correttamente, già dal 15° giorno si potrà iniziare a utilizzare la pasta madre negli impasti di prodotti  semplici come pane, pizza e focacce. 

Il rinfresco

Come già accennato, affinché i microrganismi possano riprodursi in maniera da averne sempre disponibili e pronti per un nuovo impasto bisogna provvedere al loro mantenimento e alla loro propagazione tramite la tecnica del rinfresco attraverso la farina, l’acqua e, se è il caso, attraverso il cosiddetto “bagnetto”. La farina è fondamentale in quanto costituisce il nutrimento e quindi il terreno di coltura delle specie microbiche in esso presenti. La sua composizione è direttamente responsabile della formazione degli acidi che portano allo sviluppo del lievito e al raggiungimento di un pH ideale: una farina tipo 0, o 00, con una forza intorno ai 350 W (tipo Manitoba), cioè una farina ad alto tasso proteico, è l’ideale perché permette un’alimentazione costante ed equilibrata per i microrganismi che si nutriranno di proteine che hanno bisogno di maggior tempo per essere metabolizzate e, quindi, di un pasto che dura più a lungo rispetto agli amidi che, invece, sono molto più semplici da attaccare e ridurre a zuccheri semplici. L’acqua, com’è noto, è l’ingrediente fondamentale per la vita e la sua qualità è importantissima oltre che per la buona riuscita di un impasto lievitato anche per la vitalità della pasta madre. È importante perciò usare acqua potabile naturale, facendo attenzione che questa, specie se di rubinetto, non contenga troppo cloro che ha un’azione battericida: per queste ragioni è sempre consigliato utilizzare dell’acqua minerale naturale confezionata.

Rinfrescare la pasta madre solida…

Come si diceva, qualora si fosse in presenza di una pasta madre solida per rinfrescarla occorre eliminare le croste, ovvero tutta la parte più esterna in quanto risulta essere la parte più contaminata e nella quale ci sono cellule morte o poco vitali e quindi pesare la parte rimasta o la parte che si intende rinfrescare. A questo punto, si aggiunge un peso pari di farina e il 40-50% di acqua sul peso della farina, e si impasterà fino a formare un panetto. Bisognerà quindi avere cura di custodire il panetto in un contenitore in grado di contenere 3 volte il volume iniziale e conservare a temperatura ambiente, tra i 18-24°C.

…e quella liquida

Anche qui si comincerà pesando la parte che si intende rinfrescare, e aggiungendo pari peso di farina e di acqua. Si mescolerà usando una frusta o un cucchiaio oppure in planetaria mediante l’uso di frusta o foglia; infine, anche stavolta, si dovrà conservare a temperatura ambiente in un contenitore in grado di contenere 3 volte il volume iniziale del nostro impasto.

Il bagnetto

Nel caso in cui la pasta madre solida diventi troppo acida è bene prima del rinfresco farle il cosiddetto bagnetto. Questa procedura serve a “lavare” la pasta madre dall’eccessiva acidità che può portare i microrganismi presenti nella pasta madre alla progressiva perdita di vitalità. Anche in questo caso sarà necessario eliminare la croste, e poi tagliare delle fette dello spessore di circa 1 cm, da immergere in una bacinella contente acqua a temperatura ambiente per 10-20 minuti, dopo i quali si strizzeranno le fettine per eliminare l’acqua in eccesso, si peserà la quantità da rinfrescare, e si procederà al rinfresco dopo aver pesato la parte interessata. Generalmente se si deve utilizzare il lievito tutti i giorni basta rinfrescarlo una volta al giorno. In alternativa, nel momento in cui non si utilizza troppo spesso il lievito per i propri impasti, si può procedere alla conservazione in frigo, in congelatore o per essiccazione.

La conservazione

Il lievito madre può essere conservato in frigo a +4C° per un massimo di 1 settimana, sempre all’interno del suo contenitore. Può essere rigenerato con un semplice rinfresco una volta alla settimana con un rapporto 1:2 (farina di rinfresco pari al doppio del peso del lievito da rinfrescare) dopo averlo eventualmente sottoposto a “bagnetto” se dovesse risultare troppo acido. Al termine del rinfresco procedere secondo la solita procedura e riporre in frigo non prima di un’ora dal rinfresco.

L’impasto e il pre-impasto

Prima di cominciare è bene sapere che per utilizzare il lievito madre negli impasti è importante eseguire dei rinfreschi preparatori, che servono a metterlo nelle giuste condizioni a seconda degli impasti che si andranno a fare. Per la preparazione del pane o di ricette non molto complesse è importante effettuare almeno un rinfresco preparatorio che consentirà alla pasta madre di raddoppiare il suo volume in circa tre ore e mezza. Solo allora essa sarà pronta per essere utilizzata negli impasti nelle dosi previste in ricetta.

Valutazione della salute del lievito madre

Il lievito madre è da considerarsi maturo, ovvero pronto per la lavorazione, se la sua pasta ha un colore bianco e consistenza soffice con alveoli leggermente allungati. Se si assaggia, deve avere un sapore leggermente acido, mentre è da considerarsi troppo forte, invece, se il suo sapore è più simile all’amaro che all’acido, il suo colore è grigiastro, e gli alveoli sono rotondi. In questo caso è opportuno curare il lievito tramite il bagnetto prima dei rinfreschi. Viceversa, è da considerarsi poco acido e quindi troppo debole se il suo sapore è dolce, il colore è bianco brillante, gli alveoli sono stretti e stentano ad allungarsi. In questo caso bisogna procedere con rinfreschi continui e lievitazioni ogni 4 ore al caldo in modo tale che i microrganismi possano tornare in equilibro e permettendo il raggiungimento del giusto grado di acidità della pasta. Il lievito, tuttavia, può anche inacidire o andare a male se il suo sapore è caseario, il colore grigiastro e pasta vischiosa. In tal caso, con un’azione tempestiva il prodotto può riprendersi ma solo dopo una settimana di accurati bagnetti, rinfreschi e fermentazioni.

Ulteriori approfondimenti su Terra di Pane. Il Grande libro del Pane Italiano curato dalla sottoscritta in collaborazione con Ezio Marinato e ALMA, per i tipi di Plan Edizioni.

 

* In copertina, dettaglio dell’ “Air Croissant” di Albert Adrià da Enigma

Comincia la “fase 2” e, con essa, continua il nostro viaggio alla ricerca delle migliori tavole d’Italia. Un viaggio diverso, stavolta, coerentemente con le modalità del presente momento storico. Per orientarci, abbiamo preso la città di Milano come punto di partenza ideale, ne abbiamo adottato il sistema – in particolare quello del nostro spin-off Passione Milano, dove “le visite” sono già incominciate – e abbiamo rivolto il nostro interesse culinario e, con esso, il nostro occhio critico e analitico,  verso quelle coraggiose realtà che hanno deciso di trasformarsi e offrirsi in questa nuova, inedita veste. 

Pane Niko Romito: tre stelle a casa tua, con alcuni prodotti selezionati

Niko Romito, grandissimo cuoco italiano, anche in questo periodo di lockdown ha saputo rendersi protagonista e non solo per via di una comunicazione che non esitiamo a definire, in una parola, provocatoria. Lui, oltre a essere uno dei più grandi e fulgidi talenti dello Stivale, è infatti anche grande imprenditore che nulla lascia al caso.

Ecco quindi la scelta di non fare delivery né per Spazio che per Reale, ma di progettare un congegno a prova di qualsiasi difetto e concepito per essere tempestivo, efficace e perfetto nel servizio. Accantonato per ora il progetto del delivery, non si esime però, presso Spazio Roma, di indirizzare all’asporto uno dei suoi prodotti simbolo: il pollo fritto. E poi la bomba e tante altre leccornie. Ma tutto è stato pensato, provato e verificato con cura maniacale per minimizzare e azzerare gli sbagli.

Noi, intanto, aspettando di provare le nuove meraviglie (si vocifera del suo pane caldo consegnato a casa a Milano e Roma), abbiamo testato il delivery Pane Niko Romito, linea che parte direttamente dal laboratorio di Castel di Sangro situato nel retro di Alt-Stazione del gusto.

Il risultato? Servizio di una efficienza paragonabile ad Amazon – e abbiamo detto tutto – con allert continui sullo stato dei pacchi e prodotti di una eccellenza e godibilità unici. Grandissimi i plum cake, morbidi e umidi come dovrebbero essere.

Promosso a pieni voti.

Ad Amsterdam, diciamolo subito, abbiamo mangiato da discreto a molto male nei ristoranti. Forse abbiamo sbagliato a scegliere noi, ma di certo lo street food è decisamente più stimolante qui, come in gran parte delle capitali europee che ci è capitato di visitare. Amsterdame è, ahinoi, nota ai più come il regno delle patatine fritte, qui denominate Patat, di cui troverete le più svariate, variopinte e qualitativamente variegate proposizioni per tutta la città. Noi, fidandoci del tam tam gourmet, ci siamo affidati a queste due : La prima, storica, decisamente ottima (foto di apertura) e la seconda, una piccola catena con qualche punto dislocato in città, con un livello altrettanto elevato. (altro…)