Il nome pagliaccio si narra sia in onore di un dipinto, regalato al cuoco da sua madre, che raffigura un pagliaccio, appunto. Simbolo per Anthony Genovese di stravaganza e originalità. Una leggera nota autobiografica traspare dalla citazione. A noi piace pensare che una fonte di ispirazione sia anche stata la famosa opera lirica di Ruggero Leoncavallo, che mostra un contraddittorio forte tra l’anima scanzonata della commedia e il dramma della realtà. A volte cruda, inaspettata, intensa e vibrante.
Tutti ben sanno che un clown, il pagliaccio, deve essere malinconico per essere un buon clown, e che per lui questa è una faccenda molto seria, è la sua vita. Il contrasto continuo tra la malinconica sensibilità e l’eterna vibrazione di sofferenza fa si che un clown assurga a grande, immenso interprete dell’antitesi, dell’opposto, del sorriso e dello scherno. Immerso in una laconica ed avvolgente tristezza.
Proprio questo combattimento continuo, questa tensione opposta, questa vibrazione cangiante abbiamo scorto nella cucina di questo grande interprete: Anthony Genovese.
Una cucina composta di moltissimi ingredienti, quasi apparentemente caotica, ma che trova un filo conduttore netto, preciso e personale al termine del percorso. La complessità dona ai piatti lunghezza gustativa quasi sorprendente, a tratti spiazzante. Perché tutto ci si aspetta fuorché precisione, rigore, linearità gustativa. Ed invece la cucina di Genovese è un tripudio di personalità, di note speziate, di oriente ma anche di occidente (romano francese) e di una costante deriva dolce che è la timbrica connotante del suo percorso.
L’anno scorso visitammo il Pagliaccio e rimanemmo perplessi di fronte ad alcuni passaggi che non ci parevano nelle sue corde, scomposti, fuori contesto per quel luogo e per quella cucina. Forse tentando di adottare uno stile non suo, una cucina lontana dal suo istinto e dal suo pensiero, Genovese ha rischiato di appiattirsi su toni, quelli dolci, e su tonalità che non gli sono proprie. Rischiando l’anonimato.
Anthony Genovese deve osare, deve mixare sapientemente le spezie come solo lui sa fare, deve complicare un piatto con tanti ingredienti, quelli a lui fondamentali, che riconducono il percorso all’impronta caratteristica della sua cucina, la cucina del Pagliaccio.
Un paio di esempi eclatanti? Scampo croccante, acqua di melanzane, crema di peperone e lampone, in cui il brodo di melanzana affumicata, accompagnata da spaghetti soba, è l’emblema dell’umami nippo-italiano fatto a persona, con la firma dello chef. Lo scampo fritto alla perfezione, non unto ma croccante e suadente, accompagnato da un potpourri di spezie e ingredienti che lo completavano magnificamente.
O ancora i Dim alla piastra, gamberi bianchi, coda di bue croccante, altro emblema di contaminazione romano-orientale sapientemente interpretata.
E poi tanti altri, la faraona, l’agnello, senza dimenticare un piatto di pasta che assurge ad alta, altissima cucina nel paradigmatico Spaghetti olio e peperoncino, lumachine di mare, con tocchi orientali evidenti che rendono elegante e raffinato il carboidrato.
Questa è la cucina che desideriamo trovare al Pagliaccio, personale, istintiva, del cuore. Profonda, appagante, golosa ma anche molto raffinata. E con quel pizzico di malinconica sensibilità che pervade ogni piatto.
In sala un gruppo giovane, motivato ed eccezionalmente preparato tra cui ci piace ricordare Gennaro Buono e Matteo Zappile, l’uno Maitre e l’altro Sommelier, grandiosi interpreti e co-protagonisti di questa fantastica, grottesca e mirabolante commedia che ogni giorno va in scena qui, a via dei banchi vecchi 129, a Roma.
Ottimi e vari amuse bouche, già sul timbro caratteristico della cucina:
Carciofo con crema di burro di cacao all’olio d’oliva
Crema di asparagi con spuma di speck e semi di papavero
Anguilla affimicata con composta di cocco
Panino al vapore con glassa al pomodoro
Polpetta di nasello con mango e tofu
Ala di pollo con salsa tandori
Capesante, acqua di carciofi, alga kombu e grano (foto di apertura).
Scampo croccante, acqua di melanzane, crema di peperone e lampone.
L’ottimo brodo di melanzana affumicata e soba in accompagnamento.
Seppia alla griglia, asparagi e uovo al tè nero.
Spaghetti olio e peperoncino, lumachine di mare.
Dim alla piastra, gamberi bianchi, coda di bue croccante.
San Pietro, crema d’orzo, cipollotto e olio al caffè.
Faraona, tè Earl Grey, spinaci e cetrioli.
Agnello, scorzanera, crumble al cacao.
Barretta di gelato al “caramelia”, crumble di ovomaltine e more.
La fantastica ed elegante piccola pasticceria…
…e i nostri compagni di viaggio
Questa valutazione, di archivio, è stata aggiornata da una più recente pubblicazione che trovate qui
E’ strano tornare al Pagliaccio dopo oltre 2 anni, trovare il locale così trasformato rispetto a quello che era e rallegrarsi di riconoscere la stessa cucina, così forte, personale, unica.
I sentimenti che ispira in chi era stato tra i sostenitori della primissima ora (quando ci si veniva in pochi, una piccola setta strafelice di avere scoperto il migliore chef di Roma a prezzi da bistrot, spesso tristemente semivuoto) sono contraddittori: da un lato la felicità, per il meritato successo oggi che il Pagliaccio gioca in un altro campionato; dall’altro il rammarico, perché, visti i prezzi odierni (anche tripli rispetto agli esordi), risulta piuttosto difficile farne un appuntamento frequente.
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