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Mugaritz

Che sapore hanno le idee?

Potreste pensare di aver prenotato un ristorante. Ma la verità è che avete appena aperto una porta. Dall’altra parte troverete sorprese, domande, risposte, storie e idee commestibili. Vi invitiamo a fuggire con noi verso nuovi orizzonti; ma soprattutto a scrivere il vostro finale alla nostra tavola: la vostra collaborazione è essenziale, solo voi potrete scolpire la vostra esperienza.” Quanto precede costituisce il contenuto dell’email che riceverete successivamente a una prenotazione sul sito web del Mugaritz. Un testo che rappresenta una dichiarazione di intenti. Un’introduzione mirata a predisporre a un’esperienza interattiva, estremamente pertinente. Definire l’ultimo menù del Mugaritz, quello del venticinquesimo anniversario (andato in scena fino alla fine di ottobre), dal nome “Memorie del futuro”, come una semplice degustazione sarebbe un’approssimazione eccessivamente limitante. E anche se, a giudicare da quanto trapela online, potrebbe sembrare il meno acclamato, il suo valore è immenso nella sua sperimentazione, rappresentando il tratto distintivo di un’intera carriera, quella di Andoni Luis Aduriz, spinta agli estremi con creazioni che, prima ancora di titillare il palato, scuotono la mente.

Per fare subito un esempio di tale audacia possiamo citare il primo piatto del menù intitolato Ama, che richiama il gesto primordiale di suzione al seno materno: un’evocazione potente e primitiva. Il nome stesso, derivato dal verbo spagnolo “amar“, che significa amare, acquista un ulteriore significato in basco, dove si traduce in “madre“. Questi due concetti si intrecciano e si nutrono reciprocamente, offrendo un invito a gustare l’essenza primordiale di ogni cosa. È proprio questo il preludio di una serie di degustazioni – sorprendenti e affascinanti – la maggior parte delle quali devono essere gustate con le mani, per coglierne appieno non solo il sapore, ma anche la straordinaria consistenza, caratteristica imprescindibile della cucina di Aduriz.

Posto lungo il confine tra le città basche di Errenteria e Astigarraga, questo luogo supera di gran lunga l’esperienza ordinaria del cibo. Si erge come un omaggio al confine stesso, indicato come “muga” in basco, e alla maestosa quercia, conosciuta come “haritza“, che da sempre sovrasta questa linea di demarcazione, immersa nella bellezza naturale circostante. Attualmente, il genio di Andoni Luis Aduriz affronta con consapevolezza il connubio tra arte, scienza e gastronomia, amalgamando il tutto in un’esperienza incredibilmente stimolante ma più complessa che mai. In questo contesto, il cuoco non mira semplicemente a soddisfare l’appetito del commensale – anche se questo accade più che sporadicamente – ma aspira a coinvolgerli in un’esperienza cognitiva più profonda, che stimoli i sensi e l’intelletto. Optando per la presentazione di piatti insoliti o sconosciuti, l’obiettivo del Mugaritz è quello di suscitare la curiosità, l’immaginazione e la riflessione degli ospiti. Questa filosofia si basa sulla convinzione che il cibo non debba essere limitato alla sua funzione primaria, ma debba essere un’opportunità per creare connessioni, avviare conversazioni e spingere i commensali a esplorare nuove sfaccettature di una comune esperienza a tavola.

Aduriz: il livello successivo dell’esperienza gastronomica

Quando si visita Mugaritz è essenziale liberare la mente da preconcetti e approcciarsi all’esperienza con una mentalità aperta e curiosa. È così che ci si meraviglia nell’affrontare un piatto senza posate, poiché, come detto, gran parte degli assaggi non prevede l’uso di posate, sebbene gli stessi non siano nemmeno concepiti come comuni “finger food“. Il servizio di sala, di assoluto livello, a tal riguardo, si rileverà determinante nell’agevolare il commensale a comprendere al meglio l’esperienza. L’attenzione ossessiva alle consistenze e il rifiuto di servire piatti comuni sottolineano l’importanza della creatività e dell’interazione. Si viene attivamente coinvolti nel processo creativo, incoraggiati a scoprire nuovi sapori, a esaminare le combinazioni di ingredienti e a partecipare a un dialogo più ampio sulla cultura gastronomica. A questo proposito Aduriz è uno dei pochissimi cuochi a seguire una propria grammatica culinaria, senza richiedere né dare punti di riferimento, creando secondo la propria unica visione perché “creare non significa copiare“, diceva un certo Ferran Adrià.

Il dubbio inizia ad affiorare nella mente dei commensali fin dal duplice servizio delle Ostriche, che pongono un interrogativo sull’atto del mangiare o del bere e sul significato di quale possa essere il corretto ordine tra le due azioni. E sarà proprio il commensale a cercare di trovare una risposta al quesito su un piccolo blocco note, consegnato all’inizio dell’esperienza, contribuendo così a generare nuove idee per le degustazioni future. Si sottolinea anche l’aspetto visivo, come nel caso del Pomodoro arrosto, con garum, basilico e penicillium roqueforti (la tipica muffa del gorgonzola), in cui il pomodoro non sembra affatto tale, mantenendo intatta la sua essenza mentre evita la sua forma. Arriva quindi il piatto per antonomasia, dall’emblematico titolo “Disadattati”, che incarna il concetto di una trasformazione radicale, trasformando l’ostica consistenza gommosa e gelatinosa dei cetrioli di mare in qualcosa di elastico e croccante, da diventare confortevole. Ciò che sembrerebbe incoerente e incongruente diventa qui una celebrazione della diversità tanto inaspettata quanto efficace. Un ruolo significativo è giocato anche dalla pancia, con l’Animella maturata nel saké, cotta poché, succulenta ma ricca di varie consistenze, tra cui piccole parti croccanti, servita con crescione, risultando tra le migliori mai assaggiate. C’è poi il già iconico “Faccia a faccia: la pelle che abito” di Almodovariana memoria, con l’inquietante faccia di gelatina di sidro da utilizzare come se fosse un involucro; una creazione che vuole esprimere l’empatia in cucina, accomunata dal trasmettere l’essenza di un’esperienza senza poterla realmente vivere appieno. Questa sfida viene affrontata da Andoni portando la propria identità territoriale (attraverso ingredienti iconici della zona come sidro, chorizo e mais), per consentire ai commensali di assaporare l’esperienza in modo simbolico. Si segnala, infine, una predominante presenza di fermentazioni e muffe ricorrenti, ma mai come in questo caso l’uso instancabile di tali elementi è finalizzato a raggiungere un gusto specifico e non fine a sé stesso. È una sfida complessa descrivere in poche righe un’esperienza così completa e ricca di stimoli, che comprende una serie di venticinque “momenti” in un percorso che unisce la sperimentazione di nuove consistenze, la contemplazione della naturalità intrinseca in ogni stagione, l’integrazione di nuovi ingredienti, l’indagine attraverso tecniche e forme commestibili che riflettono concetti quali il lusso, il trascorrere del tempo, la bellezza e le tradizioni.

Si può quindi affermare che l’obiettivo primario del Mugaritz e di Aduriz risieda nell’impiego del cibo come pretesto per la ricerca e come stimolo a indagare, immaginare, confrontare e ricordare, fino a suscitare – e persino incitare – un certo disagio utile a spingere al di là dei limiti convenzionali non solo l’ospite, ma il ristorante nella sua totalità. Questo è, probabilmente, il “livello successivo” dell’esperienza gastronomica.

IL PIATTO MIGLIORE: Animella maturata in saké e crescione.

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La griglia del paradiso di Bittor Arginzoniz

Frequentemente, nel valutare attentamente un piatto, ci sforziamo di cogliere tutte le sfumature di cui è composto, fino a cercare l’elemento che lo contraddistingue, assumendo, quest’ultimo, un ruolo chiave. Questo, frequentemente, costituisce l’ingrediente segreto.

In un meraviglioso casolare del 1500 nella cittadina rurale di Axpe, vicino Bilbao, Bittor Arginzoniz, una trentina di anni fa intraprendeva la sua avventura di oste della sua Etxebarri (in basco, “casa nuova”). Non contento di come andavano le cose, affascinato dalla brace e dalle cotture ancestrali, decise di prendere le redini della cucina per esplorare nuovi orizzonti che avessero quale filo conduttore, appunto, il fuoco vivo e la brace. Da quel momento Arginzoniz prese tre decisioni determinanti che trasformarono quel ristorante a gestione familiare in quello che potremmo definire, oggi, il non plus ultra delle bracerie esistenti: sostituire il carbone con la legna, creare utensili di cucina che non esistevano per poter introdurre l’acqua di mare nella brace e selezionare, in maniera ossessiva, una materia prima di primissima scelta.

Per tutto questo la sua cucina, definita “la semplice nudità dell’impossibile”, appare capace di distillare la tradizione culinaria basca fino alla sua essenza e, utilizzando solo la brace, diventare unica.

Il sapore del fuoco

Il sapore conferito dal fuoco è quello della tradizione di famiglia che rievoca in Arginzoniz il passato. Il sistema di braci, ascendenti e discendenti, creato dall’asador era qualcosa di totalmente nuovo per un ristorante di alta cucina. Così come il posizionamento dell’ingrediente rispetto alle braci. Queste ultime si rilevano capaci di propiziare cotture millimetriche come un raggio laser e l’affumicatura, che varia a seconda del combustibile naturale utilizzato (solo legna, mai carbone), dona un sapore unico al prezioso ingrediente. L’esempio lampante è quello del Gambero di Palamos, i cui umori restano intatti nella testa e si sprigionano al momento dell’estrazione delle code dal carapace. La carne, neanche a dirlo, è tenera ma carnosa e succosa, inebriata dall’irresistibile aroma. I due estremi tra i quali si muove la gastronomia moderna sono l’ingrediente e la tecnica. Qui quest’ultima erge il cuoco e l’utilizzo ancestrale della stessa a deus ex machina della cucina, e se un altro grandissimo cuoco basco della vicina Errenteria è il massimo rappresentante mondiale della cucina “trasformista”, Arginzoniz ne è la nemesi prediligendo la purezza del prodotto. La gestualità è sempre la stessa – come un artigiano giapponese – e consiste nel nebulizzare l’ingrediente con olio di girasole (dal sapore neutro) e nel far ruotare le manovelle del sistema di griglie; l’ingrediente, quindi, viene arricchito e nobilitato dai profumi delle affumicature e leggermente trasformato dal calore del fuoco fino a raggiungere la consistenza perfetta.

Il menù degustazione, salvo qualche piatto iconico come la Costata, il Gambero di Palamos e qualche dessert, muta più di quanto si possa pensare e predilige, ovviamente, la stagionalità del miglior prodotto (in termini di sapore). Interessantissima anche la carta che riserva strepitose sorprese come l’Astice blu, dalla cottura commovente, servita con una salsa altrettanto strepitosa fatta con emulsione delle uova. Nel crescendo di assaggi, dopo l’immancabile accoppiata di Chorizo e pane, Pomodoro e acciughe salate in casa, abbiamo amato un friabilissimo Cracker di funghi, dai sapori netti, lo splendido Gazpacho di pomodoro in accompagnamento al “Formaggio” di bufala fatto in casa (nel servircelo hanno umilmente rimarcato la volontà di evitare l’appellativo di “mozzarella”, anche considerata la nostra nazionalità, sebbene si sia rivelato un riuscitissimo tentativo), il Calamaro con emulsione di salsa verde e cipolla, anch’esso perfetto nella consistenza, i Funghi porcini con melanzana che hanno preceduto una più ordinaria Animella con zucca e, prima della leggendaria Costata, di cui si è già scritto tanto, il Besugo rosso (una sorta di dentice locale) cotto intero, dove il sapore del mare resta praticamente intatto e acquista più fascino con la brace.

Il ristorante è molto bello, come l’ambiente naturale circostante, e il servizio, a gestione familiare, è informale e caloroso. La sala viene gestita con grande bravura e savoirfaire da Mohamed Benabdallah, uomo chiave che riesce ad anticipare le scelte del cliente anche sapendo consigliare (bene) i vini dalla vasta cantina.

Asador Etxebarri è un luogo magico, imprescindibile. Un santuario gastronomico dove ci si abbandona a un cibo con una qualità estrema e si resta inebriati da un persistente aroma di brace. È questo l’ingrediente segreto che si ritrova in ogni piatto, un qualcosa capace di evocare emozioni profonde e intime, come un richiamo nostalgico a una bellezza dimenticata.

IL PIATTO MIGLIORE: Il bogavante, ossia l’astice con salsa di emulsione delle sue uova.

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La cucina come interpretazione della realtà

La cucina non potrà mai essere considerata un’arte finché non ammetterà nel suo linguaggio il disagio, il fastidio o tutti quegli aspetti che vengono in discorso quando la disciplina in questione non pretende solamente di piacere”: queste parole di Juan Luis Moraza – artista, professore universitario e scrittore basco – sono state di recente utilizzate da Andoni Luis Aduriz per illustrare sinteticamente la filosofia del suo ristorante Mugaritz. D’altro canto, la vita non è fatta di solo piacere – per fortuna, verrebbe da dire – sicché se la cucina ambisce a divenire uno strumento di lettura della complessità che ci circonda e abita in noi, non può essere parziale o selettiva. Di converso, il discomfort non può certamente diventare l’unica cifra caratterizzante l’ars culinaria, perché se la realtà non è fatta di solo bianco non può neppure ridursi unicamente a nero (sarebbe un vero incubo!): eppure si ha la sensazione che, talvolta, qualche emulo del cuoco basco – e alcuni appassionati –  ne travisino il messaggio, interpretando la golosità e le rotondità come un disvalore o, persino, una debolezza. La precedente citazione consente altresì di comprendere l’approccio di Aduriz alla materia prima e al territorio, altri ambiti spesso fraintesi. 

Innanzitutto, l’ingrediente – di qualità superiore alla media (diversamente da come si legge qui e lì) – è strumento e non obiettivo, ovverosia ciò che consente di indagare la realtà, facendone anche (ma non sempre) un utilizzo off-label: in molti casi, ciò che viene in risalto è la textura – anche a seguito di profonde trasformazioni, a discapito del gusto -, una dichiarata ossessione che, tuttavia, non si riduce mai a onanismo, ma mira a fornire una rappresentazione alternativa della materia nonché a valorizzare sensazioni che trascendono il gusto.  In secondo luogo, diversamente da come potrebbe sembrare, la cucina di Aduriz è profondamente territoriale e legata al contesto: tuttavia, vi è chi trovandosi davanti a un oggetto – o un paesaggio – tende a darne una rappresentazione realistica (più immediata e riconoscibile) e chi è mosso dal desiderio di sviscerare anche l’invisibile. Questo approccio è indubbiamente sfidante e, a tratti, disorientante, sicché non stupisce che una non trascurabile parte degli avventori escano da questo luogo contrariati: ciò che non si conosce spesso spaventa e la distanza netta da alcuni modelli tradizionali – veicolati da guide e classifiche – può infrangere le aspettative che questi portano con sé. Pertanto, è indispensabile essere chiari: Mugaritz e Aduriz pretendono di essere scelti con consapevolezza e la giusta attitudine mentale, non per depennare l’ennesima tappa da un lungo elenco.

L’incessante esplorazione della materia

Il primo dei benvenuti – che, tutt’altro che casualmente, vengono serviti all’esterno del ristorante – sintetizza con rara precisione i capisaldi del pensiero di Aduriz: Herbarium of wild and cultivated plants è un una sorta di foglio-pergamena fatto di porro ed erbe spontanee che crescono sui prati che circondano il ristorante, a riprova, da un lato, del legame di quest’ultimo con la natura e territorio e, dall’altro lato, del livello raggiunto nello studio della testura e della materia. Tuttavia, la ricerca non può prescindere da un approccio scientifico, come dimostra Enzymatic molasse of rye bread and sea urchin: un riccio di mare accompagnato da una melassa – viscosa e umami – ottenuta dal lavoro dell’amilasi – un enzima – sul pane: una nuova frontiera sino ad oggi inesplorata (peraltro, il piatto è stato presentato anche alla cena che Aduriz ha cucinato al Del Cambio di Torino per Buonissima: in quel caso, la melassa era di pasta e il riccio era stato sostituito dall’astice). La vetta del percorso è Sake handkerchief, un autentico colpo di genio in cui la bevanda giapponese si trasforma in un fazzoletto edibile – dalla texture simile alla carta bagnata – fatto con il koji (o aspergillus oryzae), ovverosia uno degli ingredienti della bevanda, insieme ad acqua, riso e lievito. Il “boccone” viene accompagnato da due sake dello stesso kura (produttore), ma con due stili divergenti (l’uno più dolce e morbido e l’altro più secco). Una bevanda che si fa solida e, nel contempo, la genesi di un prodotto condensata in un piatto. Ancora, in Creamy cuttlefish, la seppia – unita a mascarpone, caffè e cardamomo – assume la consistenza di un mochi, sgretolando la memoria tattile che si ha dell’ingrediente, in un boccone estremamente goloso. Un altro passaggio incisivo – anch’esso presente a Torino –  è Animal cake, un tiramisù in cui il ruolo del biscotto savoiardo è interpretata da una cotenna di maiale: l’ennesimo inganno di consistenze, l’abbattimento del confine tra dolce e salato – un altro caposaldo della cucina di Mugaritz –  e la componente animale utilizzata in modo a dir poco originale, controcorrente rispetto al proliferare di menù total green. In ogni menù di Mugaritz ci sono poi dei passaggi confortevoli e tesi a celebrare l’ingrediente e la tradizione con un approccio più canonico – in cui, tuttavia, si coglie la straordinaria padronanza delle cosiddette “basi” -, come in Product and tradition – un’orata cucinata come uno yakitori, brodo e crutons preparati con le parti povere del pesce e piparras – ed in Spiny lobsterAragosta, pistacchio e crema delle sue uova -. La parte finale del percorso quest’anno ha definitivamente abbandonato ogni riferimento alla dolcezza – è stata eliminata anche la rassegna di cioccolate a cui ci si era abituati – ed è affidata a Trick: posto che l’intero pranzo ha visto raramente l’utilizzo delle posate, perché non terminarlo raccogliendo un formaggio blu con il dito mozzato a chissà chi (un dito fatto di estratto di carota e con un osso croccante fatto anch’esso di carota)? Un sorriso sancisce il termine del percorso.

Un cenno merita il programma Vis à Vis: i vini dell’abbinamento meno impegnativo sono tutti di cantine spagnole che hanno lavorato al fianco di Haemin Song – la sommelier, capace come pochissimi di comunicare e raccontare ciò che propone agli ospiti – per produzioni sartoriali (nell’ordine di 100/1000 bottiglie) riservate al solo Mugaritz: un’idea brillante, che consente di bere unicità più che rarità (l’ennesima idea fuori dal coro), ma che non è ancora parso completamente a fuoco in termini di valore intrinseco (la mono-provenienza rappresenta un limite oggettivo), soprattutto se comparato con il livello (straordinario) dell’abbinamento proposto lo scorso anno.  In conclusione, Andoni Luis Aduriz e Mugaritz sono a tutt’oggi capaci più di ogni altro di mettere in crisi – l’accezione è positiva – il concetto di ristorante, insinuando sempre più il dubbio (o la speranza) che l’oggetto cui si rivolge quel participio presente non debba essere soltanto lo stomaco, bensì possa comprendere ben altro. 

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Una perfetta sintesi dell’affascinante complessità basca

I Paesi Baschi sono una meta di gran fascino per un appassionato di gastronomia, anche – o soprattutto – grazie a quell’apparente contraddizione che ne anima la cucina, in perenne tensione tra culto della tradizione – oltreché natura e materia -, da una parte, e avanguardia, dall’altra. Quest’animo “duale” si declina anche in altri ambiti: basti pensare a Bilbao, dove a pochi passi dalla città vecchia ci si può imbattere nel museo Guggenheim progettato da Frank Gehry, un edificio che sembra essere stato calato dall’alto sulla città e provenire dal futuro. Un capolavoro architettonico che ha proiettato una città in forte crisi verso un nuovo avvenire, senza tuttavia snaturarne l’anima. Allo stesso modo, in una sorta di parallelismo, ci si rende inevitabilmente conto di come la cosiddetta “avanguardia spagnola” – che in queste zone vede esempi leggendari, quali Mugaritz e Martín Berasategui, tra gli altri – non si sostanzi affatto in una rottura rispetto alla triade tradizione-natura-materia, quanto, piuttosto, in una riflessione e valorizzazione di queste ultime e, nel contempo, in una via di fuga da derive autoreferenziali, preludio all’anacronismo. In questa prospettiva, non sorprende che proprio all’interno del sopracitato museo si trovi un ristorante, Nerua, guidato da Josean Alija, uno dei più importanti cuochi spagnoli – tra i meno “visibili” ma più celebrati dai colleghi -, la cui cucina è capace come poche altre di distillare una tale complessità.

Muina, ovverosia l’essenza

Il ristorante propone un unico menù degustazione chiamato “Muina”- un termine basco che si riferisce al nucleo, all’essenza delle cose -, dal prezzo ammirevole, che ben illustra la concezione gastronomica dello Chef e ben si predispone a venire integrato con aggiunte alla carta, espressamente incoraggiate: l’idea è quella di fornire una base solida da arricchire secondo le proprie inclinazioni, una soluzione adottata nel periodo post-pandemico e rivelatasi vincente. La cucina di Josean Alija è essenziale – che non significa semplice -, tecnica, materica, evocativa e caratterizzata dall’utilizzo di pochi ingredienti in ciascun piatto. Un primo passaggio dall’eleganza disarmante è Carciofi, tapenade di olive nere, salsa di porro e latte di mandorla, giocato sull’intreccio tra differenti dolcezze, a fronte delle quali l’oliva funge da contrappunto. L’eco della tradizione è ben visibile, poi, in Peperone Apurtuarte, merluzzo e salsa  pil pil – un evidente riferimento al Baccalà con Piperrada (un piatto tipico basco) sublimato, in cui le consistenze vengono capovolte rispetto all’originale – nonché in Cipolla rossa di Zalla, lenticchie e ghiandole salivari di maiale, altro piatto basco – ma anche un po’ veneziano – che perde ogni gravezza per trasformarsi in pura, imprevedibile, grazia. L’importanza della testura – un’ossessione da queste parti – e l’esaltazione della materia sono invece ben percepibili in Cetriolo di mare alla brace e nero di seppia: lo schiaffo di un’onda, ben assestato. Una menzione merita, da ultimo, Spigola, spinaci e rabarbaro: una cottura impeccabile e un meraviglioso palleggio tra le due componenti vegetali. Il percorso si chiude con Avocado in crema, gelato di fieno greco, olive nere e caffè: un dessert – il punto debole della precedente visita – davvero molto interessante, ben riuscito, che vuole ricordare un tiramisù – riuscendovi – attraverso l’utilizzo di ingredienti, all’apparenza, difficilmente conciliabili.

Nerua si conferma una tappa imprescindibile per chiunque voglia comprendere l’essenza della cucina basca, da preferire ad altre insegne più blasonate. In questa prospettiva, il mezzo punto in meno rispetto alla precedente visita non vuole evidenziare un momento di flessione quanto, piuttosto, una fase di stasi e, quindi, fungere da sprone affinché Nerua compia quell’ultimo, piccolo, passo che ne sancisca la definitiva consacrazione.

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Elkano e il Rodaballo a la parrilla: mitologia culinaria

Getaria è un piccolo paese dei Paesi Baschi affacciato sul golfo di Biscaglia, una popolazione di duemila abitanti in gran parte dediti all’attività della pesca. Una volta parcheggiata l’auto, si sale una serie di ripidi viottoli costellati da braci su cui cuoce ogni ben di Dio. Tuttavia, ascoltando le voci dei “compagni di scalata”, ci si rende conto di come una parte di questi – gli stoici che sono riusciti a prenotare – sia indirizzata all’apice della vetta, dove si trova il più celebre e luminoso di quei fuochi, Elkano, un ristorante oramai noto a livello internazionale per il suo “rodaballo a la parrilla”, il rombo cucinato sulle braci. In rari casi si ha l’occasione di percepire con tanta nitidezza come alcune classifiche internazionali – piacciano o meno, ci sarebbe molto da discutere – possano incidere sull’economia di un luogo e, per certi versi, sull’identità dello stesso: la tradizione ha sicuramente radici profonde, ma viene spontaneo chiedersi quanti degli asadores incontrati sulla via si siano di recente scoperti emuli del celebre concittadino. Una volta varcata la soglia del ristorante, si nota piacevolmente come lo stesso sia rimasto fedele all’aspetto che doveva avere ai tempi dell’apertura (ricorda molto i ristoranti di pesce della nostra tradizione), un luogo autentico e apparentemente insensibile al successo raggiunto. Un’attenzione particolare è invece riscontrabile nella carta dei vini, profonda – gli amanti della Champagne e della Borgogna troveranno sicuramente di che divertirsi – e con qualche etichetta veramente conveniente.

La cucina di Elkano: il golfo di Biscaglia raccontato attraverso la brace

La prima parte del menù degustazione “La baia di Biscaglia secondo la stagione” è composta da  una serie di passaggi tesi a celebrare i prodotti pescati dagli abitanti di Getaria. L’astice viene servito in tutte le sue parti: le chele e il corpo in salpicon –  condimento un po’ troppo coprente -, le uova crude nonché cotte alla brace – queste ultime notevoli, per consistenza, concentrazione e complessità gustativa, anche grazie alla lieve nota di affumicatura – il corallo – le uova nella fase embrionale, umami e pungenti – e la testa, la parte più interessante, una sorta di sintesi del crostaceo. Il Polpo alla brace e composta di cipolla colpisce per la precisione della cottura – né troppo cedevole (come spesso accade quando viene bollito e poi ripassato sul fuoco) né callosa – nonché grazie al felice abbinamento con la composta, la cui dolcezza ben si combina con le note iodate del mollusco. Tuttavia, l’assaggio più incisivo sono i Funghi porcini cotti alla brace, conditi con tuorlo d’uovo, dallo straordinario turgore – nonostante il passaggio sopra il fuoco – che, unito alla combinazione tra l’affumicatura e la grassa viscosità dell’uovo, assicura un gran sorriso. Il Changurro alla Donostiarra – eseguito secondo la ricetta tradizionale (e richiesto à la carte) – non è invece indispensabile, un piatto tondo e goloso che, tuttavia, in parte annichilisce la freschezza della materia prima.

Sin qui, un percorso convincente che probabilmente non sconvolgerà chi proviene da paesi di mare – la materia prima di Ancona, Bari o di Chioggia non ha nulla da invidiare – ma potrà risultare una “rivelazione” per chi questa fortuna non ha. Un capitolo a sé merita invece il culmine del percorso di degustazione, il tanto atteso Rodaballo a la parilla: il rischio di venire delusi dall’aspettativa è alto, ma ciò non accade. Si tratta inequivocabilmente di una delle migliori preparazioni di pesce che si possa avere la fortuna di degustare. La straordinarietà dell’assaggio è determinata dalla mirabile tecnica di cottura, dalla qualità sopraffina della materia nonché dalla conoscenza che Aitor Arregui ha del prodotto, che emerge con evidenza quando quest’ultimo si reca ai tavoli. Il risultato è un pesce alla brace che trascende la monotonia che spesso caratterizza il genere: in questo caso, si sperimentano uno spettro gustativo davvero ampio – dolcezza, sapidità, iodio e l’amaro della pelle più scura – così come una ricca paletta di consistenze, quali il gelatinoso della pelle più chiara – che ricorda quasi il midollo animale -, la croccantezza della pelle “periferica”, l’umido dei filetti, l’asciutta compattezza del collo (boccone che, invece, in altri pesci è tra i più umidi), per culminare con la guancia – soprattutto quella “interna” – compatta e, nel contempo, “collagenosa”. Il fascino di questa preparazione sta proprio nell’enorme – e rarissima – complessità che un unico ingrediente può svelare se trattato con maestria. L’attesa, l’aspettativa e la soddisfazione che la degustazione del rombo porta con sé insinuano il dubbio – si tratta di un paradosso – che Elkano sia “ostaggio” del proprio piatto simbolo, complice anche una certa staticità del menù (a un anno di distanza dalla precedente visita, la degustazione è stata pressoché la medesima). Per compiere un ulteriore salto di qualità – ed evitare di cadere nell’autoreferenzialità – sarà forse necessario mitigare l’ingombrante presenza del proprio piatto simbolo valorizzando al meglio anche il resto.

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