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Atelier Moessmer Norbert Niederkofler

La nuovissima boutique culinaria di Niederkofler

Ci sono delle similitudini fra la Moessmer, nota fabbrica di Loden di Brunico e lo Chef Norbert Niederkofler, che ha scelto la villa, di fronte all’azienda, come sede del suo Atelier. Il Loden era originariamente il tessuto dei pastori, usato come mantello da pastori, contadini e cacciatori. Ad elevare questo tessuto a rango di moda fu l’imperatore Franz Josef che commissionò alla Moessmer una mantella di loden bianco. La Moessmer iniziò a elaborare la stoffa, aggiungendo alla lana di pecora tirolese, quella di merino e il cashmere. Allo stesso modo Norbert e la sua brigata, capitanata dal bravo Mauro Siega, elaborano la materia prima, semplice e eccellente, delle montagne e dei laghi, nobilitandola a haute couture della ristorazione. Si vola davvero alto ed è incredibile che si sia già a questi livelli con i lavori che sono finiti poche ore prima dell’apertura, pochissime settimane fa. Il locale è affascinante, curato nei minimi dettagli, come, ovviamente, la proposta gastronomica.

Cook the mountain

La filosofia resta ovviamente immutata ed è quella di Cook the Mountain; nella passerella di questo Atelier appaiono come grande protagonisti trote, salmerini, coregoni, Grigio Alpina, latticelli e formaggi locali, e poi tantissime erbe spontanee raccolte in loco che si ritrovano in salse di grande intensità ed equilibrio. La partenza è sorprendente per incisività di gusto con quattro amuse bouche decisamente di spessore. L’Insalata estiva è uno dei suoi classici e sempre sorprende il palato, così come il Risotto con robiola, tuorlo d’uovo grattugiato e il crescione, che porta una perfetta dose di acidità e piccantezza. Geniale il cetriolo che accompagna il Salmerino, sfilacciato per una consistenza e freschezza che ricorda quella delle alghe wakame, con uova sempre di salmerino e una salsa strepitosa. I Ventrigli di pollo sono super gustosi, un piatto che all’olfatto e al palato ricorda le lumache. La Grigio Alpina viene servita con un interessante pesto di erbe, foglie di portulaca condite con miso di lenticchie ma è lo Spiedino con cuore, fegato e stinco che ti fa innamorare, tanto che ne vorresti mangiare una decina. Decisamente di livello la parte dolce: il pre-dessert con Albicocca e latticello e un crumble, insolitamente affascinante, e poi una fantastica Tartelletta che gioca perfettamente sui registri della acidità. La Tarte tatin è uno dei piatti che si può aggiungere al percorso ed è assolutamente da scegliere, servita con un gelato allo yogurt e composta di frutti rossi mantecato direttamente al tavolo dall’affabile, elegante e iper professionale Gerges Lukas. Finale, così come per gli amuse bouche, con un quartetto di piccola pasticceria memorabile.

Una cucina che, partendo dalla semplicità e dalla materia grezza, ricava dei diamanti, da molte sfaccettature, che brillano di gusto. Per quanto riguarda la votazione andiamo in deroga alle regole, che vorrebbero non dessimo voto ai locali appena aperti, perché in questo caso, dato il livello già molto elevato raggiunto, partiamo con un voto assolutamente di eccellenza che, potenzialmente, potrebbe essere ritoccato in alto in un prossimo futuro.

IL PIATTO MIGLIORE: Risotto, robiola e crescione.

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Una filosofia totale

Che sia il St. Hubertus dell’hotel Rosa Alpina (Badia, San Cassiano) il palcoscenico principale della magistrale cucina di Norbert Niederkofler è noto. È lì, nella raffinatissima struttura della famiglia Pizzinini, che è nata e ha preso forma quella filosofia – nota come “Cook the mountain” – che ha reso celebre nel mondo il cuoco altoatesino. Ed è sempre lì che Niederkofler, anno dopo anno, ha affinato i principi teorici e i dettami tecnici, scoprendo infine – perché “Cook the mountain” è stato un “percorso“, come ammette lo stesso Niederkofler – che non solo di mera cucina si trattava ma di una forma “di pensiero e di azione” (ci scuserà d’Annunzio se prendiamo a prestito questa sua formula) che aveva, e ha, a che fare con il nostro approccio al mondo che ci circonda.

Sicché, almeno per il nostro Niederkofler, “cucinare la montagna” non significa spadellare da mane a sera patate e altri tuberi, chiudendosi in un piccolo universo fatto di stolido tramandamento. Ma passare da un’azione meccanica, quale è quella del cucinare, a una prospettiva di pensiero: “cucinare la montagna” significa quindi prendere coscienza della “natura intorno a te“, dei suoi abitanti, dei suoi cicli, delle sue forze, delle sue debolezze. In una parola, del suo ecosistema. Accettandolo. Rispettandolo. E prendendosene cura. Care’s, per l’appunto… Ripensare la cucina attraverso la montagna (ma potrebbe essere anche attraverso il mare, piuttosto che attraverso la pianura…) significa per Niederkofler tutelare il territorio e, attraverso ciò, contribuire a una crescita sostenibile dell’intero pianeta.

Rimanendo sul piano strettamente gastronomico-alimentare di Cook the mountain (benché l’aspetto filosofico e quello culinario non siano scindibili) l’utilizzo di prodotti locali, biologici e di stagione (“la natura è la mia dispensa naturale – dichiara il cuoco altoatesino – la migliore che potessi avere“), la riduzione al minimo possibile degli scarti e il sapiente utilizzo delle tecniche di conservazione (fermentazione su tutti) hanno permesso a Niederkofler di tracciare uno stile di cucina del tutto personale e identitario. Rinunciando sì ad alcuni ingredienti molto italiani (come, per esempio, l’olio extravergine, sostituito dall’olio ricavato dai vinaccioli) ma riportandone in auge altri ormai da tempo relegati ai margini. Non si pensi però al nostro cuoco altoatesino come l’eremita della montagna, perso dietro vacui sogni ambientalistici. Tutt’altro. È una natura «con l’uomo dentro» (Roger Scruton) quella di Niederkofler: e a testimoniarlo c’è il suo ultimo libro, “Cook the mountain”. The nature around you (München, Südwest, 2020, 2 voll., 396 pp.; 160 pp., 98 euro), peraltro stampato su cartamela, ottenuta dagli scarti delle mele, nel quale ci sono sì alcune decine di ricette ma che è soprattutto dedicato a illustrare il paesaggio alpino, raccontandone l’evoluzione della vita rurale e presentando alcuni dei suoi ‘eroici’ produttori di materie prime (agricoltori, allevatori, casari…). Perché, per il futuro del pianeta, sarà comunque l’uomo a fare la differenza, con i suoi comportamenti e con le sue scelte.

A Plan de Corones

Alpinn è un luogo che, per la sua forza evocativa (il panorama ha pochi eguali – Brunico, tutta la Pusteria, le vette di confine… – e lascia davvero a bocca aperta), ben rappresenta lo scenario nel quale si muove Niederkofler e ove prende forma il suo Cook the mountain. Ma è pure testimone di quanto sia per lui importante che la nuova generazione raccolga il suo testimone. Non è una novità: Niederkofler ha sempre creduto nei giovani, perché a loro spetterà sempre più prendersi cura del pianeta, guarendolo dalle ferite che le precedenti generazioni gli hanno inferto o che, quantomeno, non sono state capaci di curare. Giovani ai quali il cuoco altoatesino ha lasciato spazio nelle cucine (bastino due nomi, entrambi di estremo valore: Michele Lazzarini prima, e Mauro Siega ora) e nella sala (in Italia ci sono pochi professionisti del calibro di Lukas Gerges…) del St. Hubertus.

E pure quassù, all’Alpinn, ove Fabio Curreli mostra notevole capacità tanto nel proporre alcuni dei piatti storici del maestro (menù “Cook the mountain“, a 85 euro) quanto a declinare la filosofia in un suo più personale percorso di degustazione (menù “Alpinn“, a 75 euro). Percorso, quest’ultimo, che si dispiega lungo una linea stilistica netta e ben percepibile, basata sulla ricerca di un’ampiezza espressiva la più ampia possibile. I piatti, più che distinguersi per tecnica o complessità negli abbinamenti, tendono a presentarsi in modo lineare, quasi understatement, rivelandosi poi sorprendenti dal punto di vista della complessità aromatica, gustativa, di consistenza e di temperatura. E dipanandosi, l’uno dopo l’altro, lungo un filo di pulizia concentrato, ma non celebrale, sostenuto da lievi accenti amarotici forniti dagli ingredienti vegetali (per esempio la bieta e le coste). Sono poi le erbe aromatiche (aneto, acetosa, fieno…), le differenti texture (avvertibili soprattutto nel Ceviche di montagna e nell‘Orzotto) e l’utilizzo di elementi con calori differenti all’interno della stessa pietanza (come per il ribes ghiacciato nei Fusilloni con salsa di selvaggina) a donare ai piatti una vividezza raffinata e invidiabile. E che va ben oltre le aspettative.

Il servizio, ad Apinn, affidato a giovani sorridenti, è attento e informale al contempo: capace da un lato di mostrarsi all’altezza della cucina, e dall’altro di mantenere comunque una bella atmosfera da rifugio alpino. A rendere ancor più piacevole la sosta anche la carta dei vini (costruita con l’aiuto di Gerges, e si vede!) che, presentando una scelta più che buona (con un focus particolare sulla produzione alpina), permette certo di trovare la giusta bottiglia.

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Sostenibilità e gusto sui tetti di Milano

Tra le gustose novità che pullulano sotto l’ombra della Madonnina svetta l’ambizioso quanto affascinante progetto di Horto.

Si trova all’ultimo piano dello storico Palazzo Broggi in Piazza Cordusio, dove è in fase di completamento The Medelan che ospiterà uffici e negozi di lusso; una terrazza-giardino con vista a 360 gradi sulla città. Una location unica nel suo genere, sui tetti di Milano, dove va in scena il concetto di “ora etica” che si basa sulla selezione di una cortissima filiera di piccoli produttori distanti non più di un’ora da Milano.

L’illustre Chef interpellato per l’occasione è il tristellato Norbert Niederkofler il quale svolge il ruolo di direttore strategico del progetto. La cucina che trae spunto dal “Cook the mountain” del St.Hubertus e diventa “Cook the Closest”. A sviluppare questa filosofia ci pensano ben due Chef, Stefano Ferraro e Alberto Toè. Il primo già noto sulla scena cittadina in quanto fondatore di Loste Cafè e con pregresse esperienze nientemeno che al Noma, dove curava il reparto dolciario, il secondo, invece, ha nel suo curriculum trascorsi prestigiosi al fianco dello stesso Niederkofler, ma anche di altri superchef come Massimiliano Alajmo e lo svizzero Andreas Caminada.

Una cucina rotonda e sincera

Il risultato a pochi mesi dall’apertura è già ampiamente soddisfacente a cominciare dai piatti che escono dalla bellissima cucina a vista, armonici e golosi, con molti punti di riferimento che evocano non solo la filosofia e lo stile del St. Hubertus ma anche la cucina scandinava, definendo uno stile con una chiara personalità, certamente differente da altre cucine d’autore cittadine; il tutto, è bene precisarlo, con la capacità di restare comunque saldamente ancorata sul territorio. Il Risotto con castagne e tartufo nero è semplicemente perfetto ed emblematico in tal senso. Dal menù degustazione, intitolato “Savoring” si coglie a pieno la filosofia di questa tavola in cui il prodotto è lavorato in maniera essenziale ed esaltato anche da temperature di servizio ragionate e cotture tradizionali. La Cagliata di latte vaccino, carpaccio di Varzese e caviale di storione è una partenza delicata, quasi in sordina, che gioca su consistenze quasi evanescenti; i Plin di stachitun, zafferano e lievito hanno un alto tasso di godibilità/golosità nascondendo anche intriganti acidità, in un insieme comunque voluttuoso. La Costata di manzo (sempre di razza varzese), infine, dimostra, nella sua semplicità di servizio e nell’impeccabile cottura, che la cucina è in sapienti mani. A pranzo c’è una carta di vivande ancora più inclusive e dirette.

Il servizio di sala, guidato da Ilario Perrot, è di classe e affabile ed ha ormai completato il rodaggio. La carta dei vini è in divenire ma, quella si, esula dal concetto di “ora etica” spaziando tra etichette francesi importanti ed etichette italiane meno conosciute.

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Cook the Mountain

Non può che essere “Cook the Mountain” il titolo della recensione a proposito del ristorante St. Hubertus di San Cassiano, all’interno dell’Hotel Rosa Alpina (oggi partner della catena internazionale Aman), incastonato tra le splendide montagne della Val Badia. Pochi, infatti, sono i ristoranti al mondo col medesimo grado di fedeltà alla propria filosofia e con una così spiccata immedesimazione tra cucina e territorio. Per cui il motto “Cook the Mountain”, coniato dallo stesso Norbert Niederkofler, è il perfetto riassunto di tutto ciò.

La storia parte da molto lontano, da semplice ristorante-pizzeria dell’albergo, evolvendosi progressivamente in ristorante gourmet pensato per una clientela sempre più internazionale e di alto profilo, fino alla drastica decisione, presa nel 2011, di eliminare tutti i piatti basati su ingredienti non autoctoni per concentrarsi su tre elementi che diventeranno i punti cardinali del nuovo progetto: territorialità, stagionalità e, soprattutto, nessuno spreco. L’obiettivo è stato negli anni pienamente raggiunto e il risultato costantemente raffinato con una cucina che da un lato resta sempre pienamente fedele alla filosofia di fondo, rispettando in maniera quasi religiosa i predetti principi, dall’altro unisce golosità e ricchezza a una grande eleganza e freschezza, data da un sapientissimo uso delle innumerevoli erbe e bacche di montagna presenti nel corso della degustazione, il tutto presentato con un’estetica minimale, di chiara ispirazione nordico-scandinava.

The Nature Around You

Il menù (unica opzione disponibile), dopo una serie di amuse bouche di grande impatto, come la Tartelletta di cipolla, sangue di maiale pastorizzato, formaggio BergGenuss (stagionato dentro un vecchio bunker della prima guerra mondiale) e la Bruschetta di bernia (carne di pecora frollata marinata con sale, vino e spezie), entrambi caratterizzati da sapori decisi e da grande intensità gustativa, vira immediatamente verso due piatti di rara eleganza, paradigmaici della cucina del St. Hubertus, e divenuti veri e propri classici.

Il primo è l’Insalata dell’orto composta da più di 30 tipi di erbe e fiori autoctoni raccolti giornalmente e condita con una kombucha di sambuco nella quale si alternano continuamente note balsamiche, amare, floreali e ogni boccone risulta diverso dal precedente, complice anche l’acidità della kombucha e del succo di erbe e mela, da sorseggiare in accompagnamento: in poche parole, la montagna in un piatto. Segue quindi la Tartare di coregone condita con una salsa tiepida ottenuta dalle carcasse del pesce stesso e vino terlano, leggermente acida e dalle note erbacee, con le squame a dare croccantezza in uno splendido gioco di consistenze e temperature; piatto che evidenzia più di ogni altro il rispetto per la materia prima nella sua interezza, senza alcuno spreco.

Tra gli altri highlight presenti in menù si segnalano in particolare la golosissima Anguilla porchettata, con lardo, laccata alla soia accompagnata dal suo brodo affumicato, piatto dagli evidenti rimandi giapponesi realizzato con una materia prima strettamente locale e il Ditalino di farro con estratto di selvaggina, bacche di crispino e radice imperatoria, ma senza dimenticare la Lingua ai mirtilli rossi in cui l’intensità e la concentrazione del fondo di verdure viene splendidamente smorzato e al tempo stesso esaltata dall’acidità del mirtillo.

Il reparto dolci inizia con il fresco gioco di texture dello Yogurt e ribes con topinambur e sambuco per giungere a una imperiosa Tarte tatin, pur terminando con il Buchtel da intingere in una crema di cera d’api: una pasticceria conclusiva che qui risulta essere tutt’altro che “piccola”.

Nota di merito, infine, a una sala che unisce rigore teutonico e calore italico, magistralmente gestita dal maître ed head sommelier Lukas Gerges, che amministra pure una carta vini di rara profondità.  Unico appunto che, a questi livelli, crediamo sia lecito fare, verte sulla staticità della proposta gastronomica, non prolifica come dovrebbe in termini di inventiva, la quale, anche considerata la scelta di proporre un unico menu degustazione, dovrebbe investire maggiormente, almeno ogni anno, su creatività e sperimentazione.

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Norbert Niederkofler: l‘incantatore della Val Badia

Norbert Niederkofler s’è formato dapprima nel Nuovo Mondo e poi in giro per gli stellati di tutta l’Ecumene. È stato questo peregrinare rapinoso e disorientante che, negli anni della prima globalizzazione, ha determinato per lui un ritorno in patria coinciso nient’altro che con l’esigenza – non decidibile, non tacitabile – di casa: una casa che era, allora come adesso, la montagna e l’urgenza di introiettarla, questa dimora estrema, sostituendo il particolare all’universale e farne teoria e finanche filosofia con Cook the mountain e Care’s e, pratica, al St. Hubertus

È la montagna, del resto, la responsabile del genio di Norbert Niederkofler nonché colei che ricorda all’uomo che ogni genius è prima di tutto genius loci diventando, della cucina, sia l’immaginario che il quotidiano. È solo così, del resto, che gli ingredienti acquisiscono una freschezza propria, tenera, virginale: quella delle cose appena nate. Come le erbe, in particolar modo, di cui questa cucina tanto si nutre quanto è nutrita e da cui mutua una vita intima, rizomatica e ariosa, ossigenata e rigenerata dalle altezze anche quando si tratta di sottosuolo o sottobosco come nel caso dei funghi e delle radici.

E non senza l’ausilio delle mani sapienti dell’head chef bergamasco Michele Lazzarini, già lodato anche in passato, che è uno dei talenti più brillanti del St. Hubertus: è anche grazie al lui, infatti, se l’elemento vegetale, in qualsiasi forma, diventa un protagonista capace di spartirsi, con pochi altri elementi, l’intera forza e l’efficacia del piatto. Accade con la salsa di nasturzio che accompagna il cervello nonché col brodo di anguilla dell’anguilla stessa, qui porchettata. Peraltro nell’impianto ergonomico di questo piatto si manifesta una seduzione importante, e assai ricorrente: quella verso una fruizione brutale, preistorica della cucina che cela anche l’invito, invero esplicito, a un rapporto non mediato col cibo, da esperire direttamente, con le mani.

Una frugalità di stampo classico

Tra gli elementi ricorrenti della cucina del St. Hubertus, poi, c’è l’acidità: che non significa necessariamente freschezza o, comunque, non solo. Perché tutto il repertorio delle acidità possibili è frequentato con assoluta disinvoltura da Niederkofler, che dimostra di esser capace di integrare ogni acuto e contestualizzarlo sempre forte com’è di un retaggio capace di conciliare l’elemento più classico, o più alto, col bruto (o col crudo). Tutta la sua cucina, anzi, potrebbe esser concepita come l’ambizione a una dimensione rustica e frugale dell’esistenza da parte di un cuoco con solide basi classiche d’impronta smaccatamente francese.

Peculiari i primi piatti che sono, ciascuno a modo suo, un piccolo calembour: fruttato di uva spina lo spaghetto freddo; umami slanciato il risotto, dove la spinta casearia, non paga di se stessa, viene rinvigorita e forse anche sdrammatizzata dalla verve della colatura di coregone. Quanto ai ditalini, formato di pasta comfort per antonomasia, questi accolgono una seduzione conturbante: quella ematica e deliziosamente borgognona dell’estratto di selvaggina.

Si torna dunque all’incanto della dimensione agreste e bucolica con la trota alla mugnaia e, soprattutto, con la carota, laccata fino alla torrefazione.

Perché dal raccolto alla casseruola, e questo Norbert lo sa bene, passa tutta l’italianità in cucina e ciò è tanto più vero a queste latitudini, dove tecniche come la fermentazione diventano mandatarie visto che la terra si chiude, diventando inaccessibile all’uomo, per oltre cinque mesi l’anno. Da qui la necessità della circolarità dell’economia: tutto quanto arriva nel piatto, infatti, arriva da un mercato di prossimità che si materializza in oltre 500 tra verdure, erbette e funghi, mentre dagli allevatori locali si comprano solo animali interi al fine di propiziare una competenza che, del sacrificio dell’animale, sappia celebrare tutto e vanificare nulla.

Una competenza che diventa un trionfo nel maialino dai rimandi fusion e nei ribs di agnello straordinari nella cremosità delle carni, al punto da sembrare bolliti. Una consistenza struggente e misteriosa, ulteriormente enfatizzata, ton sur ton, velluto su velluto, dalla potentissima zuppa di funghi vellutata dalla finitura, una schiuma di fungo a terminare la carrellata dei salati.

E proprio questa chiusura ci accompagna felici ai dolci, in una carrellata tra le migliori mai assaggiate: un crescendo di classicismo condito con sapienti interpolazioni fino al gran finale della imperiosa, definitiva tarte tatin.

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