Quando Alessandro Borgognone, titolare di questo ristorante, vide l’apprendista Daisuke Nakazawa piangere -nel film “Jiro l’arte del Sushi”- dopo essere stato ripreso dal Maestro per una “frittata” non perfetta, decise che quello doveva essere il suo Chef. Aprì nel 2013 con l’obiettivo di diventare il migliore ristorante di Sushi di New york.
E l’impresa gli è certamente riuscita.
Tanti sono i luoghi, nella Grande Mela, dove poter mangiare un buon -a tratti eccellente- sushi. Ma in nessuno di questi c’è la tendenza alla perfezione stilistica, unita ad una buona dose di sana creatività, che fa di sushi Nakazawa un punto di riferimento del genere. Merito indubbiamente di Nakazawa San, e di ciò che ha appreso alla corte del grande Maestro giapponese.
Questo affascinante gioiello, incastonato in una via del Greenwich Village, è un posto assai ambito, fully-booked per mesi, sia ai normali tavoli che, come potrete immaginare, all’ambitissimo bancone posizionato all’ingresso, in cui è possibile vedere all’opera direttamente il Maestro con tutta la sua stuola di adepti-aiutanti.
E’ intrigante il movimento sinuoso che si scorge da questo angolo di visuale, movimenti frenetici ma al contempo precisi e maniacalmente perfetti. Una vera e propria sinfonia, in cui l’opera portata in scena è la creazione di 21 atti unici che compongo il menù Omakase e che rasentano la perfezione, proiettando una serie infinita di ingredienti, provenienti da ogni parte del globo, in un caleidoscopico tripudio di sapori, odori e essenze.
Perchè Mr. Nakazawa ha evoluto la rigida tradizione del maestro Ono aggiungendo tocchi di creatività, come una salsa al miso fermentato o una pasta di yuzu al wasabi, e selezionando una serie di ingredienti -i migliori- tra quelli reperibili negli Stati Uniti, ma anche oltre confine, non dandosi limite alcuno. Obiettivo la massima soddisfazione dell’avventore, a qualsiasi prezzo.
Ecco quindi i ricci del Maine messi a fianco, in una variazione intrigante, a fantastici ricci provenienti direttamente dalla baia di Hokkaido. Così come lo sgombro spagnolo, affiancato allo sgombro del Pacifico. E poi un tripudio di capesante vive, gamberi blu praticamente uccisi sul banco, tonno in variazione, da magro a grasso, di qualità straordinaria.
Colpisce al cuore e allo stomaco questa esperienza unica, deflagrante, inaspettatamente voluttuosa e divertente. A differenza del suo maestro, Mr. Nakazawa scherza, ride e dialoga con gli ospiti. E così sono invitati a fare tutti i ragazzi dello staff.
Ci sono, dicevamo, altri grandi interpreti di cucina giapponese a New York, ma certamente Sushi Nakazawa può vantare il primato per il menù Omakase migliore della città. Il tutto accompagnato da un servizio di prim’ordine, anch’esso eccelso.
Ecco a voi lo spettacolo!
La mise en place, al super-esclusivo bancone.
L’ottimo e pregiato Tè Gyokuro, da noi scelto in accompagnamento.
Il primo atto unico: Ivory king Salmon (una qualità di salmone selvaggio preziosissima), fiocchi di sale Maldon e polvere di yuzu.
La preparazione del secondo pezzo.
Chum Salmon -letteralmente salmone all’esca- Copper River. Un altro particolare tipo di salmone selvaggio, qui leggermente affumicato al legno di faggio.
Preparazione del Wasabi fresco.
I fantastici ricci della baia di Okkaido.
Capasanta viva, si muoveva ancora.
Seppia, Sisho e marmellata di lime.
Kelp fish (pesce fuco) e composta di radice speziata di Daikon.
Il fantastico e freschissimo Red Cornetfish…
…con polvere di zeste di yuzu e soia fermentata.
I due sgombri a confronto: sgombro spagnolo e sgombro giapponese. Impressionano le differenze di texture, sapore e intensità. Indovinate a favore di chi?
La preparazione del granchio reale.
Granchio reale e polvere di pepe del Giappone.
Ricciola (yellowtail) giapponese.
… che accompagna un bonito affumicato, che ci ha ricordato lo stupendo bonito provato dal Maestro Jiro Ono.
Le tre differenti variazioni di tonno: magro, mediamente grasso e grasso.
Ecco qui la variazione, la nostra preferita l’intermedia.
Ricci di Hokkaido e del Maine.
Tamagoyaki e anguilla affumicata in salsa di soia e caramello.
Tra cui spicca anche una new entry: gambero della baia di San Francisco.
Il perfezionismo del minimalismo.
Questa è, a nostro parere, la sintesi della filosofia kaiseki e di questo grande ristorante. Abbiamo già trattato l’argomento nella recensione di Kitcho, ma qui vorremmo dare un ulteriore punto di vista, che vada oltre la maniacale attenzione per la materia prima, per la stagionalità e per il rito.
Perché al ristorante Koju ci troviamo di fronte ad un’interpretazione, se volete estrema, del modernismo stilistico kaiseki targato Giappone. Un rito che rimane tale e che al contempo viene spogliato di numerosi orpelli, reso metropolitano e contemporaneo, per certi versi anche antiteticamente veloce, ma che preserva tutti i contenuti veri e profondi di quest’arte.
Punto di partenza è la cura nelle preparazioni, apparentemente semplici, ma frutto di elaborazioni lunghe e molto puntigliose. In cucina, anche se non si vedono, ci sono 2 addetti alla cottura del riso, 3 addetti alla preparazione dei brodi, altri 4 alla cesellatura di verdure e pesce. Un esercito concentrato su partite a prima vista elementari, in realtà coordinate e capitanate da veri e propri maestri dotati di esperienza pluriennale.
Il “Maestro” rifinisce e cesella il sashimi, assaggia e ritocca il già quasi perfetto brodo per lo shabu-shabu, osserva e dirige con una attenzione da vero e proprio direttore d’orchestra. Comprendiamo ora sino in fondo l’assonanza con un altro Maestro come Marchesi con questa filosofia, ed anche il suo costante accostamento alla simbologia e alla stilistica, nonché al rigore della grande opera musicale d’orchestra. Mai come in questo caso metafora fu azzeccata.
Il giorno della nostra visita lo chef Toro Okuda si trovava a Parigi per l’apertura del suo primo locale fuori dal Giappone (Okuda Paris, già segnato col pennarello rosso tra le prossime visite da fare nella Ville Lumière).
Il suo sostituto, giovane ma con una sicurezza da chef navigato, non ha fatto rimpiangere il Maestro.
Koju è l’esperienza, con la E maiuscola, di una contemporaneità Kaiseki portata all’apice.
Dove ogni ingrediente primario, un pesce o una verdura, viene preservato nella sua essenza più profonda. Non troverete sale aggiunto da nessuna parte. Tutto puro, se è dolce sarà dolce, se è sapido sarà sapido. Così come, se l’ingrediente lo è, lievemente piccante. Presentato nella sua purezza maestosa e intonsa.
Il ruolo di protagonista di ogni preparazione è demandato spesso ai brodi, di concentrazione, finezza e persistenza, nonché sapidità, notevoli e dagli apparenti comprimari. Una volta un frutto secco, l’altra volta un’erba piuttosto che una laccatura in cottura.
Una affascinante esperienza che dovrete, se vorrete avere un quadro completo ed esaustivo, affiancare ad un grande esempio di tradizione kaiseki in quel di Kyoto. Ed il vostro cerchio gustativo in Sol Levante sarà completo.
La table du chef.
Mise en place.
Il giovane chef all’opera.
Granchio reale, gelatina di aceto di riso e soia, agrumi: un concentrato di rara eleganza.
Abalone, purea di melanzana e fagioli di soia: consistenza fantastica dell’abalone e della melanzana profumata al gelsomino.
La preparazione del nostro sashimi.
Il primo brodo.
Aragosta, fagiolini di soia, funghi, polpetta ai crostacei e radice di loto.
Sashimi di tonno, seppia, orata, daikon, insalata di alghe, rapanelli. Di consistenza e purezza fantastici.
La preparazione dello shabu-shabu.
Barracuda al vapore con funghi, anguilla arrosto e laccata con bianchetti. Immersi in un giardino d’autunno. Patate dolci, noci gingo, polpette di daikon, radici di zenzero, peperoni, lime, pepe e shiso. La foglia di pepe sull’anguilla un tocco da vero maestro.
La preparazione della radice di Wasabi.
Shabu-Shabu di pesce (simil merluzzo) e funghi pregiatissimi Matsutake. Il brodo intenso e pervasivo, con il fungo che emana sentori di fiori d’autunno e sottobosco. Fantastico.
Riso, brodo di miso e funghi, cipollotto e sottaceti.
La rilettura del tradizionale mochi. Gelato al caramello e castagna, liquore di castagna, castagna bollita e palline di riso dolce. Strepitoso.
Il classico finale con il the Matcha.
Il nome di questo accogliente ristorante al centro della Grande Mela ci suggerisce di fare il “punto” sulla nostra cucina a New York. La capitale del mondo è piena di ristoranti italiani, e le ragioni sono evidenti a chiunque. Dopo qualche visita a molti locali tricolore (più o meno noti) l’equazione “cucina italiana=qualità” non ci è sembrata affatto scontata. Perché mai? Prescindendo dal fatto che il nostro gusto è parametrato su esperienze imparagonabili fatte su e giù per lo Stivale, a New York abbiamo incontrato lussuosi e costosissimi indirizzi dove l’anima più vera e vincente della nostra cucina è stata storpiata attraverso una serie di banalità sconcertanti. Ricette diverse fuse in un’unica preparazione, attenzione più ai nomi dei piatti che alla sostanza degli stessi, la sensazione che aprire un ristorante italiano a New York sia dettata più da lucrosi ragionamenti economici che da vere passioni o progetti di qualità.
Per carità, anche in Italia (e in particolare nelle grandi città turistiche), il tessuto della nostra ristorazione è infarcito d’improbabili “trappole per turisti”, una sgradevole e atavica costante, quasi fisiologica.
All’estero, però, questa spiacevole sensazione sembra acuirsi, dilatata forse da quella sorta di amor patrio che fa capolino esclusivamente quando si varca la frontiera, quando intorno a noi non si parla più l’italiano, quando (e soprattutto) qualcuno incomincia a parlarti di calcio o bucatini alla amatriciana.
Allora lì scatta il fervore patriottico, un ardore paternalistico in difesa delle nostre certezze insindacabili.
Vedere martoriati i capisaldi della nostra cultura gastronomica è motivo di profonda prostrazione, ma quello che rende più tristi è la mancanza di idee.
Tra menù fotocopia che recitano un copione già scritto e mestieranti che s’inventano imprenditori abbiamo avuto la fortuna di incontrare qualcuno che qualche idea ce l’ha veramente.
Antonio Mermolia è uno chef calabrese che, dopo la formazione in madrepatria, ha scelto di mettersi in gioco oltreoceano, nel ristorante Il Punto, a due passi da Times Square. Il proprietario Antonio Pecora ha chiamato il cuoco di Gioia Tauro per fare qualcosa di diverso dal solito. E ci sta riuscendo.
La cucina del Punto non è banale e anche se non perfetta migliorerà sicuramente in futuro grazie all’umiltà e alla buona volontà di Antonio. Due caratteristiche fondamentali.
Al Punto i temi cari alla nostra tradizione non sono semplicemente dati in pasto a una clientela acefala, ma vengono interpretati e comunicati con il cuore, in alcuni casi con risultati interessanti, in altri meno, ma sempre con profonda onestà.
In un ambiente bello e accogliente, che sembra trasportarti in pochi istanti vicino casa, la sincerità e la lealtà ai valori della nostra cucina ci sembrano i principi fondanti di un percorso lodevole.
E da italiani, sinceramente, una rara occasione di cui sentirsi fieri.
Sala principale.
Primo assaggio, Zuppetta di pomodoro fresco. Corretto.
Pane, ottimo.
Involtino crudo di gambero, salsa al pistacchio. La salsa, intensa, non rende giustizia alla qualità del crostaceo.
Il Branzino. Piatto interessante, il pesce, marinato, è sodo e fragrante. Buone le salse di accompagnamento (prezzemolo e limone verde), acide e aromatiche.
Il Salmone. Piatto goloso con un buon equilibrio tra sentori grassi, affumicati e amari.
Uno dei nostri friulani preferiti.
Sigaro verde. Un gioco su un classico come il cannellone, tendente troppo al dolce (in particolare la salsa di carote che lo chef ama tanto …).
Vitello al Marsala. Probabilmente il piatto migliore della serata: carne cotta alla perfezione, interessante panatura di funghi disidratati, salse indovinate in acidità.
Un classico semifreddo, molto goloso, per chiudere.
E via… New York non dorme mai!
Soho è uno dei quartieri più affascinanti di New York, non lontano da Little Italy e da Wall Street. Siamo a Lower Manhattan, nella zona dello shopping per antonomasia, anche se negli ultimi anni Soho è diventata anche meta residenziale e culturale, grazie ad un attento recupero che l’ha salvata da un pericoloso degrado sociale. E’ una delle tante anime della “città universo”, quella New York che rimane la fiera permanente delle meraviglie e delle fobie del mondo, lo specchio abbagliante della nostra civiltà, con tutto il suo fascino e la sua asprezza.
Non è difficile ambientarsi a New York, un repentino cambio di vita nella Grande Mela è spesso sinonimo di successo. Certo bisogna sottostare alle sue regole, avere una mentalità vincente e, soprattutto, “convincente”, ma a New York le possibilità sono per certi versi ancora infinite. Come quella di inserirsi nella nutrita comunità di ristoranti italiani che popolano ogni angolo dell’isola, e trovare il proprio spazio. Così ha fatto Markus Dorfmann, altoatesino, a New York dal 1995, e con L’Emporio di Soho alla sua terza esperienza di ristorazione “made in Usa”.
La sua ultima impresa nasce, infatti, nel 2009 e questo dato è già di rilievo, visto che stare sulla piazza per 4/5 anni qui significa essere un indirizzo “storico”. Già perché le parole chiave negli Stati Uniti sono “project”, “concept” o “reastaurant chain”: tutti termini che nel microcosmo delle osterie italiane probabilmente non si sono mai udite. Ma un pizzico di questa nostra cultura di provincia, intima e familiare, Markus l’ha portata proprio nel cuore di Soho.
Arredamento semplice e corrispondente allo spirito della bottega italica, il grande bancone, i tavoli di legno. Si parla beatamente il nostro idioma, anche se condividiamo lo spazio con un intellettuale di colore dai capelli rasta, con studenti asiatici e giovani manager in giacca e cravatta dai tratti tipicamente anglosassoni.
L’ambiente è quindi di rara piacevolezza e con la giusta compagnia ti vedi “costretto” a trascorrere più tempo di quello richiesto per consumare un pasto. Il menù non è il solito (come testato personalmente in locali molto più blasonati e costosi di questo) incomprensibile e spesso irritante potpourri di tutto ciò che identifica banalmente la cucina italiana: qui si parte dalla pizza (farine selezionate e lente lievitazioni) come spina dorsale dell’offerta, con gradite digressioni figlie soprattutto della cultura e delle predilezioni di Markus. Pochi piatti (paste e carni su tutti), ottima ricerca di materie prime provenienti sia dall’Italia sia dalle “farm” locali, buona carta dei vini con etichette non ordinarie.
In sostanza un posto ideale, anche per un italiano disilluso e pretenzioso, a zonzo per la Grande Mela.
Tavoli semplici e confortevoli.
Il bel bancone.
Piacevoli incontri a New York…
Focaccia all’uva.
Crocchette di riso.
Pizza Margherita.
Pizza con speck (le origini di Markus vengono fuori…).
Maltagliati di farro con funghi (il piatto migliore). Come a casa…
La succulenta e ottima Grass Fed Bone In Rib Eye, patate fingerling e peperoncini shishito.
Pannacotta.
Recensione Ristorante
Isa è, probabilmente, il posto più “hip” dove mangiare a New York in questo periodo, uno dei titoli più effimeri che si possa immaginare, visto il dinamismo della metropoli.
Prima di venire me l’ero immaginato come una sorta di Chateuabriand in salsa statunitense ed è…una sorta di Chateaubriand in salsa statunitense.
Del modello transalpino ripropone quell’anima iconoclasta che porta a presentare una cucina ovviamente d’autore in un contesto “casual”; la salsa newyorkese è nel farlo in un’ambientazione davvero suggestiva, mezzo loft mezzo chalet alpino in un angolo di Brooklyn, anzi di Williamsburg, in pieno fermento e con un servizio capace di coniugare informalità e professionalità davvero notevole (vedasi, ad esempio, la competenza sui vini).
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