L’abbiamo chiamata scommessa perché, quando è incominciata, né Alessandro Trezza né Monia Solighetto avevano certezza circa la sua riuscita. Ma c’è di più, perché s’è trattato, a guardarci meglio, di una scommessa antropologica ed evolutiva, perché fondata sulla capacità di discernimento del bello e del buono da parte dell’essere umano “che ha un unico potere – dirà più tardi Alessandro – quello di sapere, appunto, cosa mangia e cosa beve“.
Nel suo curriculum, un passato di private banker di giorno e di cameriere la sera presso le sale dei più grandi ristoranti d’Italia. Poi, una decina d’anni fa, la prima svolta con l’acquisizione della pasticceria e gelateria dei cognati, ribattezzata L’Albero dei Gelati, da cui sortì la prima presa di posizione: frutta e latte solo dai piccoli agricoltori locali. Da qui, la scommessa vera e propria: l’esportazione del modello a Brooklyn. Correva l’anno 2012 e, oggi, L’Albero dei Gelati vanta tre filiali in Brianza, due a New York e una a San Paolo, in Brasile. Ma è nata anche una vineria con cucina, l’Have & Meyer, nel vivace quartiere di Williamsburg, a Brooklyn, Terre – Pasta & natural wines e, da poco, anche D’Antan – Vino e Cucina Italiana.
Oggi l’intero progetto dà lavoro a 70 persone, che sono con loro sin dall’inizio di questa avventura: “Tutta la nostra attività è incentrata sul fattore umano – puntualizza senza esitazioni Monia – non ci basta più il concetto di “naturale”: la chiave di volta di un futuro degno di questo nome è proprio il valore umano ma per far questo bisogna instaurare relazioni a lungo termine in un paese – gli Stati Uniti – dove tutto è immediato.“
Apprendiamo così che, essendo la loro un’impresa fondata su un patto con gli agricoltori, oltre all’investimento iniziale, che è il più delicato, il problema si pone dal momento che in natura non tutta la merce è pronta nello stesso momento: l’agricoltore ha quindi bisogno di qualcuno che assorba il grosso della produzione in specifici momenti ed è precisamente questa la garanzia, e la rivoluzione, de L’Albero dei Gelati.
Così facendo, istituendo un paradigma in cui dal brevissimo termine della società americana si passa al lunghissimo termine imposto dalla terra, Alessandro e Monia sono riusciti a inoculare nella mente della propria clientela la consapevolezza che, in natura, nulla è perfetto, men che meno l’essere umano – che per sua natura è fallibile nonché agente attivo di un’evoluzione costante, tanto individuale quanto collettiva – che pure è al centro del loro progetto imprenditoriale. A questo proposito, non è un caso che la wine list di Have & Meyer battezzi ogni referenza col nome proprio della persona che quel vino lo realizza: così facendo se ne umanizza il consumo, ma non solo. Perché la stessa formula di fruizione dei 200 vini in carta – tutti italiani e tutti naturali – è concepita solo al bicchiere: un cambiamento di prospettiva che se da un lato implica maggiore libertà per il cliente, dall’altra lo vincola a mantenere alta l’attenzione nei confronti del vino scelto e degustato.
Idem accade in cucina, dove si articola ogni giorno la migliore tradizione regionale italiana con tanto successo che c’è stato bisogno di un altro locale – Terre. Pasta & natural wines – dov’è la pasta fresca a essere protagonista.
E pensare che agli inizi di questa storia c’era chi li aveva ribattezzati “freaky Italian dreamers” e ci piace pensare che proprio in questo epiteto risieda esattamente la portata rivoluzionaria del loro progetto: un circolo virtuoso che non sembra conoscere battute d’arresto nemmeno in questo momento storico, anzi: “Proprio adesso sentiamo il bisogno di spingere ancora di più l’acceleratore sulla bellezza: così abbiamo scelto di aprire un ristorante fine dining, D’Antan, e l’abbiamo fatto in un quartiere abbastanza problematico, perché molto laterale, di Brooklyn. L’idea è quella di portare la bellezza dove è difficile vederla” e, visto che in quello stesso quartiere stanno oggi nascendo tanti edifici a impatto zero, siamo convinti che Alessandro e Monia, che l’hanno vista per prima, credano come noi che proprio la bellezza sia, dopotutto, anche contagiosa!
New York continua a riservarci sorprese! Dove trovate oggi uno dei migliori e più promettenti sushi omakase della Grande Mela? Semplice, all’interno di un ristorante giapponese appartenente ad una rinomata catena. Entrando, non stupitevi di ritrovarvi un po’ spaesati, perché il bello deve ancora arrivare: perché il vostro posto esclusivo, dei soli nove disponibili, è al bancone, proprio dirimpetto allo chef Shion Uino, in quello che ha tutta l’aria di essere un sottoscala…
Shion Uino è giovane di grandi e belle speranze. Otto anni alla corte di Sushi Saito, probabilmente il miglior sushi master di Tokyo e considerato l’erede naturale di Jiro, si trasferisce un anno fa a New York dove officia tutti i giorni, domenica escluso.
Qui è dove propone un tripudio di ingredienti giapponesi selezionatissimi in cui si stagliano il calamaro allo yuzu e salsa ponzu concentrata, un granchio da favola e una selezione di ricci notevolissima. Sushi ottimo, certamente, ma che sconta la giovane età del sushi master. La tecnica del sushi è profonda, e necessita certamente un’applicazione e uno studio delle tecniche, ripetitive, decisamente superiore a quanto, seppur datato, ha potuto effettuare questo giovane e baldo apprendista. Strana la frittata dolce finale, di una consistenza nuova e interessante e stupende le favolose – e costose – fragole giapponesi con polvere di zucchero Kokuto di Okinawa, pregiatissimo.
Ma se il buongiorno si vede dal mattino, certamente sentiremo molto parlare di questo giovane ragazzo che ci ha mostrato colpi molto interessanti che, ribadiamo, necessitano ancora di sedimentare, di impregnarsi di ulteriore esperienza e continua applicazione per raggiungere livelli ancora più alti.
A Manhattan convivono tante anime: l’opulenta ed esclusiva Upper East Side fa da contraltare ad Harlem, quartiere ormai rigenerato ma per molto tempo assai diverso dal suo dirimpettaio; il fascino radical chic del Greenwich Village, l’alternativa Soho, i sobborghi di Downtown.
E può pure capitarti che a pochi passi o, meglio, a pochi blocchi, come direbbero i newyorkesi, dal centro dell’Empire State Building, di Times Square, del Rockfeller Center, ci si imbatta in una zona buia, malfamata e mal frequentata ed è proprio qui che, all’interno di un market aperto 24 ore su 24, si approda a uno dei più esclusivi e costosi ristoranti di New York e, per estensione, del pianeta intero!
È qui che officia César Ramirez, approdato a Manhattan dopo un’esperienza a Brooklyn, che già gli aveva valso le 3 stelle Michelin. Lui che, conosciuto per la sua cucina di contaminazione, fusion si direbbe, accosta tecniche, preparazioni e prodotti di ispirazione giapponese a una scuola classico-francese di indiscutibile stampo e carattere che concretizza in piatti bellissimi, vividi, vivi e vibranti ottenuti da ingredienti selezionatissimi.
L’unica nota stonata? Che i piatti e, in generale, tutte le sue preparazioni tendano a un’uniformità stilistica e gustativa determinata dai fondi, in primis quello del pollo, del suo grasso, del burro e della panna utilizzati, che ammorbidiscono e arrotondano il gusto di ogni elemento facendolo tendenzialmente convergere. Onore al merito, va detto, per l’acidità, onnipresente in tutte le preparazioni, ben calibrata ed elegante e alla vera e vivida freschezza della straordinaria materia prima impiegata. Del resto, si discute molto di questo luogo esclusivo, ambito, intrigante e, comunque sia, molto divertente!
Da un lato l’esclusività del luogo, l’attenzione del servizio, la qualità degli ingredienti impiegati. Dall’altro una cucina che, proprio per soddisfare un’ampia gamma di clienti, non osa e non aggredisce il piatto come ci si aspetterebbe. Certamente, siamo al cospetto di un ottimo cuoco, di un abile selezionatore della materia prima, di un perfetto creatore del gusto impeccabile nella dimensione stilistico-gustativa ma limitato da una combinazione di scelte di gusto, volte ad appiattire i sapori. E quindi il rombo che possedeva il medesimo gusto degli scampi che sembrava rincorrere la Sawara strizzando l’occhio al granchio. Così come quel soufflè ghiacciato che, stando alle premesse, doveva dilagare nell’immenso ma che ci è invece solo piaciuto…
Come già capitato altre volte, insomma, a noi è mancato il pathos, l’anima più profonda, la grande personalità del cuoco che anche attraverso il fascino dell’imperfezione, spesso, si manifesta.
Star mediatica, David Chang spopola nelle serie del piccolo schermo e su Netflix, dove lo conosciamo come grande ristoratore e imprenditore, proprietario di un impero che conta una ventina di ristoranti ai più disparati livelli, sparsi per tutto il globo terraqueo di cui nessuno, purtroppo, nel Vecchio Continente.
Ed è un vero peccato perchè David Chang e il suo fiore all’occhiello, ovvero il suo ristorante principale, il Momofuku Ko, ci sono piaciuti davvero tanto, e da specie pensare che molte delle preparazioni che ancora qui si trovano, e si ripetono come un rituale, al Momofuko Ko sono state pensate anche 15 anni or sono.
Una cucina contaminata nippo-cino-koreano-occidentale con tanto gioco, tanti sbeffeggi, tante irriverenze ma anche tanti, tantissimi contenuti, ancora oggi attuali. E andare in pellegrinaggio in luoghi così, in cui la brigata attenta ripercorre pedissequamente gli ormai storici signature dish è qualcosa di sensazionale, perché permette di entrare nel vivo di un pensiero di tale freschezza, originalità ed evoluzione, da restituire la misura di cosa accade quando un’avanguardia è così forte e prosperosa da tramutarsi in classico.
Non è un caso che pensiamo ancora al pac-man d’uovo, ai ricci con i ceci e olio d’oliva, all’ostrica di pollo come un chicken nuggets, all’anatra e berries fermentati, alla crema di semi e riso selvatico come dolce… sono questi i piatti che hanno generato, e siamo certi che li avrete anche voi, vedendoli, tanti, potentissimi deja vù.
Una tappa non obbligata, ma stra-obbligata, insomma, se vi trovate a New York!
Merluzzo e patata dolce!
L’uovo pac man, semplicemente strepitoso!
Il Lower East Side è il luogo in cui è ubicato uno dei santuari della New York gastronomica: Katz’s. Ovvero il “delicatessen”aperto tutto il giorno, esistente da 128 anni, reso ancor più celebre dal leggendario orgasmo simulato da una giovane ed affascinate Mag Ryan in “Harry ti presento Sally”.
Ci vuole tanta pazienza se si vuole assaggiare il famoso “pastrami on rye”, diventato il simbolo della cultura gastronomica degli ebrei di New York, importato dalla Romania durante l’immigrazione degli ebrei. Era il 1887 quando Sussman Volk, un macellaio kosher, ricevette la ricetta da un amico rumeno. Un anno dopo, i fratelli Iceland aprirono un piccolo deli, tra Ludlow Street e E.Houston, chiamato “Iceland Brothers”. Nel 1903 i fratelli entrarono in partnership con Willy Katz. Poi nel 1917 il deli Iceland & Katz si spostò dall’altro lato della strada, dove è tutt’oggi ubicato. Il resto è storia.
Una volta entrati, vi forniranno un biglietto all’ingresso che verrà letteralmente obliterato al momento degli ordini. Occhio a non perderlo, perché, nel dubbio, la svista vi costerà 50 dollari.
Sono circa 7000 i chili di pastrami venduti ogni settimana. Alcuni passaggi della ricetta sono ancora un segreto, principalmente si tratta di carne di manzo stagionata, aromatizzata, affumicata, bollita, cotta al vapore e affettata al coltello.
Ed eccolo lì, il nostro caro sandwich ad attenderci al pass.
Non possiamo poi menzionare il prodotto che forse maggiormente appartiene ai newyorkers: la cheesecake. E se si vuole evitare il dibattito su quale debba essere la base (se crema di formaggio, abbastanza pesante, o ricotta, più leggera), allora basterà provare le monoporzioni di Eileen’s Special Cheesecake in Kenmare Street, a Soho dal 1976.
Consistenza densa e soffice, gusto dolce ma con sferzate aspre e una sottile base fatta con i Graham Crackers, versione originale dei meglio conosciuti digestive che, come si abusa spesso nel linguaggio della critica gastronomica, donano croccantezza.
Sono disponibili tre formati. Noi abbiamo optato per il più piccolo, assaggiando la versione con marmellata di fragola
e la classica cheesecake base. Senza dubbio un dolce molto goloso con un sapore familiare.
Ovviamente non si può menzionare la Grande Mela senza parlare di hamburger. Le alternative qui sono due: provare un hamburger di catene gourmet come Shake Shak, Burger Joint o Bare Burger, oppure buttarsi a capofitto su un hamburger “stellato”. Nel primo caso entrate nel Parker Meridien Gallia e chiedete della tenda rossa…
..dietro la quale si nasconde un piccolo angolo undeground, il Burger Joint.
Un luogo studiato nei minimi dettagli in cui servono un hamburger assolutamente autentico nel gusto e nell’aspetto.
Con una combo bibita e patatine fritte, si spendono circa 15 dollari. Non si può prenotare ed è praticamente impossibile evitare la coda per entrare.
Ma restando in tema hamburger, uno dei migliori viene preparato e servito in uno degli storici locali di Manhattan, rimasto intatto nel tempo dal 1937. La quintessenza delle taverne newyorkesi.
Siamo nel Greenwich Village, in quella che era una steakhouse frequentata da scrittori come Hemingway o Dylan Thomas. Una delle specialità della casa? Appunto, il Black Label Burger (a 32 dollari) che nel menù viene spiegata come segue “selection of prime dry-aged beef cuts with caramelized onions and pommes frites”. Senza alcun dubbio, uno straordinario hamburger.
Ma abbiamo già detto che questa città non ha confini gastronomici. A maggior ragione se si parla di cucina italiana.
Nel distretto finanziario di Manhattan, lì dove sorge l’imponente ed emozionante Memoriale dell’11 Settembre, gli italiani di New York potrebbero trovare la loro seconda casa.
Per chi è alla ricerca del comfort food perduto, ha da poco aperto, all’interno dell’imponente Eataly Downtown, l’eccellente Osteria della Pace, guidata dal giovane e bravissimo Riccardo Orfino, scuola Aimo e Nadia. La sua è una cucina autentica che ripercorre la tradizione delle regioni italiche, integrando ai sapori nostrani i migliori prodotti made in USA come le carni, i prodotti ittici del mercato di New York e le ottime verdure locali.
Un gran bel posto e una importante vetrina per il Bel Paese cui auguriamo un grande successo.
Ecco alcuni dei piatti degustati. Sarde alla griglia e genovese di cipolle, melanzana marinata al miele e cipolla di Tropea in saor.
Burrata, peperoni gialli, olive infornate di Matera e peperone crusco di Senise.
Linguine ai ricci di mare. Superclassici con un prodotto di alta qualità.
Copertina di black angus, carciofi, pecorino Brigantaccio e marmellata di bergamotto (by Caffè Sicilia).
E dopo un pranzo all’Osteria della Pace potrete fare due passi verso la vicina Brooklyn e godervi scorci come quello di Dumbo del Manhattan Bridge, reso celebre da Sergio Leone in C’era una volta in America…
…oppure potrete godervi il tramonto su Manhattan dalla spiaggetta a ridosso del Brooklyn Bridge.