Passione Gourmet Napoli Archivi - Pagina 5 di 12 - Passione Gourmet

George

La persona giusta, nel posto giusto, al momento giusto

Uno slogan che  può davvero riassumere la scommessa intrapresa al George dell’Hotel Parkers, il 5 stelle lusso della famiglia Avallone, già conosciuta a molti per la bella avventura con la cantina Villa Matilde Avallone di Cellole, produttrice di una ampia scelta di etichette per differenti gusti, affinità e tasche.

L’arrivo al panoramicissimo sesto piano dello chef Domenico Candela, preceduto da un restyling totale della sala e della cucina, ha in sé una connotazione di diversità dalla proposta imperante che connota la ristorazione di qualità, ancora sottotono, nella città di Napoli. Qui, per una volta, non si parla di tradizione rivisitata né di assemblaggi di ingredienti in fotocopie di immagini, ma di piatti molto complessi, cucinati, con gli inevitabili rimandi territoriali ma senza il timore di abbinamenti coraggiosi e molteplici, e con salse di mestiere a legare il tutto. 

Intanto, una sala elegante avvolta nei toni scuri e la grande parete di vetro con gli abbagli dell’acciaio e del bianco della cucina, ad illuminarla; un servizio impostato rigorosamente sugli standard internazionali, qualificato, con molte presenze invisibili che appaiono prontamente quando necessario e una proposta gastronomica da rintracciare attraverso quattro menù degustazione, da cui prelevare i piatti anche singolarmente, incrociandoli in libertà. Leggendo il menù del George, immediato appare il riferimento alla cucina francese dove lo chef ha imparato a fondo – negli anni trascorsi lontano da casa – la grammatica universale della gastronomia, i suoi termini, le sue tecniche e dunque le sue possibili variazioni.

Dopo una piacevole batteria di appetizer di ottima fattura appaiono da subito idee e contaminazioni che evidenziano la curiosità, il gioco e la tecnica e che fanno rintracciare alcuni temi che percorreranno qualsiasi viaggio possibile: la pasta e fagioli, dove i tubetti sono ottenuti addensando l’acqua dei legumi e poi trafilata o quella maniacale composizione di erbe e verdure nelle loro semplici variazioni di preparazione, son lì ad esemplificare la potenza dell’assoluto. Poi l’esaltazione del gusto attraverso il fumo che prima segna l’anguilla nei tagliolini, poi l’astice, nell’ulteriore allungo del vino; si nota poi ancora l’utilizzo dell’estrazione per concentrare i sapori nella cottura delle linguine di mare prima e dei ravioli di carne poi. Ecco, qui la tradizione si svela sussurrata nelle sue forme e nei suoi modi come le carni e i pesci spesso in più servizi, con la composizione del piatto sul carrello affiancato al tavolo, e nella giusta conclusione del dessert con un tarte tatin ineccepibile nella sua classicità o nella cura della composizione dei piatti, tutti, sempre di grande effetto e incorniciati da una grande hôtellerie.

Al George c’è aria nuova e tanta speranza davvero, con qualche plus. Ad esempio? Con qualche accortezza nella scelta delle bottiglie, l’esperienza completa la si può praticare a un costo molto competitivo, e scusate se è poco.   

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A nord di Napoli, il regno di Marianna Vitale

È passato qualche anno ormai da quando Marianna Vitale, giovane cuoca di talento e dal carattere di ferro, decise di sparigliare le carte in quel di Quarto, non troppo amena località immediatamente a nord di Napoli, dove imperversava una gastronomia fatta di “banchettifici”, realtà difficile per un ristorante come voleva essere Sud.

Piccolo e grazioso, conviviale e non pretenzioso, ma con l’intenzione di proporre qualcosa di completamente diverso per la zona. Scommessa difficile, ma che può dirsi vinta, ormai, grazie anche all’aiuto di Pino Esposito che si occupa, con professionalità, della sala, al servizio di una cucina di buona tecnica, sincera e modernamente in grado di applicare una buona dose di creatività ai sapori del territorio.

Mancavamo da un po’ e abbiamo trovato tutto come ricordavamo. La piccola cucina a vista dove Marianna e i suoi ragazzi si muovono vorticosamente, il bravo Pino che coordina la sala con garbo e grande padronanza. Il ristorante ha un buon successo, è sano e vitale come si evince dalla clientela, per lo più abituale, che già conosce i piatti della chef e torna con la voglia precisa di assaggiare questa o quella preparazione. Il ristorante ha trovato una sua dimensione, insomma, per cui tanto di cappello, soprattutto considerato il contesto non facilissimo.

Sud: cucina generosa e di sostanza

Verremmo però meno al nostro lavoro se ci facessimo condizionare da elementi esogeni rispetto al piatto. E, dunque, non possiamo negare che dalla cucina di Sud sarebbe lecito aspettarsi qualcosa di più: una crescita, un’evoluzione rispetto al passato, che non abbiamo riscontrato. Restiamo convinti che la chef abbia del talento e buone qualità ma la sua proposta ci è sembrata un po’ immobile e, peraltro, indecisa ancora su quale campionato intenda giocare.

Le Alici in purgatorio sono alici ma potrebbero essere qualsiasi altra cosa in quanto risultano gustativamente seppellite da una generosa dose di crema olandese, alla fine, unica protagonista del piatto. La Minestra di mare con frutta e verdura di stagione – una sorta di rilettura in chiave marinara di un antico classico napoletano, la Minestra Maritata – non ci ha entusiasmato, ci è parsa una mera accumulazione di (tanti) ingredienti senza che dall’insieme emergesse alcun valore aggiunto.

Certo, Anemoni resta un grande piatto di pasta e il Baccalà si fa apprezzare, nella sua semplicità, per la qualità della materia prima e la pulizia dell’esecuzione, ma il Risotto con latte, pesce spada affumicato, anice e melanzane risulta ridondante e di gusto un po’ monocorde. L’impressione è che ci sia difficoltà da parte della chef a concepire, in questa fase, una formula trasversale che possa piacere tanto ai gourmet dai palati più esigenti quanto ai clienti comuni. Una cucina in cui prevalgono toni rustici, che difetta un filo di eleganza e che è figlia, forse, di un approccio non troppo libero da “condizionamenti ambientali” derivanti dal tipo di clientela. A tal proposito è emblematica la risposta del personale di sala al nostro appunto circa le (davvero!) eccessive porzioni del percorso di degustazione: “È uno dei nostri punti di forza – viene ammesso – i clienti sono contenti.”

E, quindi, a noi non resta che ritirarci in buon ordine, facendo nostra l’espressione perplessa dell’ispettore Zenigata, che giganteggia sulla sala.

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La rivoluzione comincia dal Rione Sanità

Ciro Oliva sta riscrivendo il codice genetico del pizzaiolo. La sua ricerca sugli ingredienti, le speculazioni intorno allo scibile commestibile e soprattutto intorno al mondo dei lievitati – non solo pizza, dunque – è il lavoro di uno chef, più che di un pizzaiolo, nonché la simbiosi finalmente realizzata tra pizza napoletana e ambizioni gourmet, che amministra mediante concentrazioni ben gestite, accostamenti estrosi ma sempre pertinenti, ingredienti di qualità altissima che spaziano a 360° sul territorio campano, più qualche intelligente forestierismo. Tutto questo, nel religioso rispetto della tradizione, tant’è che la sua pizza “normale” – quella scelta in carta – può legittimamente considerarsi uno degli emblemi più rappresentativi della pizza napoletana tout court.

Una pizzeria che occhieggia a un ristorante…

Qui, è proprio il menu degustazione, ovvero la sintassi o, se preferite, la successione delle portate, ad acquisire una dimensione semantica particolare, a consegnare all’ospite una chiave di lettura – in estrema sintesi la sensazione di trovarsi in un ristorante di alta cucina, più che in una pizzeria – che, altrimenti non avrebbe. Per tutti questi motivi, ed esclusivamente per questo menu, ci sembrano decisamente più appropriati i parametri di valutazione della tavola di cucina classica, più che della pizzeria, di cui vi abbiamo già raccontato. 

A concorrere a questo disegno, l’ambiente, che è sì accogliente e giustamente verace come ci si aspetta da quella che resta, comunque, una pizzeria di Napoli, ma anche il gusto ricercato della mise en place, i poggiaposate, i piatti decorati a mano e i calici per la degustazione. E se il livello dell’esperienza in sala si innalza è anche grazie al sommelier Emanuele Labagnara, talentuoso e smaliziato nell’approccio con il cliente, e grazie alla sua carta dei vini – molto interessante non solo se parametrata al livello di una pizzeria – ove è possibile trovare svariate etichette di pregio o di nicchia.

…uno dei migliori di Napoli, per giunta.

Quanto alla cucina, essa rappresenta la conciliazione fecondissima tra il popolare e il nobile, l’alto e il basso, l’aristocratico e il volgare. Ne è un esempio la Pizza fritta con ricotta di bufala, alga disidratata, ricciola affumicata, pepe nero e zeste di arancia e, con la sua anima, tanto verace e gustosa quanto colta e fine, somiglia in tutto e per tutto al personale che popola questa sala, giovanissima ma erudita, zelante nonché esclusivamente composta da abitanti del quartiere. 

Perché un ristorante come questo, ops, scusate, una pizzeria, Ciro Oliva l’ha fatto diventare anche un’occasione di riscatto sociale, nonché una formula di riqualificazione che, come un circolo virtuoso,  sta dilagando su tutto il tessuto urbano del Rione Sanità. E scusate se è poco.
La valutazione è dunque parimenti mutuata dai ristoranti – ed è elevata – anche e soprattutto perché abbiamo in passato premiato il miglior taglio di Kobe, la miglior fritturail miglior Cheviche e quindi, perché mai non farlo con la Pizza, nostro patrimonio indiscutibile?

In alto i calici, dunque, a questa irriverente, teatrale e coltissima rivoluzione!

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Gennaro Esposito è grande uomo e chef

La sua cucina “retro innovativa” è matura, un invito a lasciarsi coccolare dalla migliore tradizione napoletana proiettati verso una dimensione culinaria più moderna e contemporanea.

Vico Equense è Gennaro Esposito, Gennaro Esposito è Vico Equense. Il legame viscerale dello chef con la sua terra ha radici antiche e va indietro al 1992, quando, a Seiano, un giovanissimo Gennaro apre con non pochi sacrifici il suo ristorante credendo fortemente in un progetto di vita: fare grande la sua cittadina. Festa a Vico è la naturale evoluzione del Gennarino-pensiero: una grande intuizione di sedici anni fa, un’occasione d’incontro di tanti amici, tantissimi chef stellati ed emergenti, artigiani del gusto, nonché un aiuto concreto a sostegno di progetti benefici.

Gennarino è uomo grande: un generoso, un buono, “uno di cuore”, si direbbe al Sud, ma anche e soprattutto un grande chef: una gavetta fatta di tanti sacrifici che trova compimento in una location fantastica sul mare della costiera sorrentina e in una filosofia di cucina ormai matura e definita: retrò quando guarda alla cucina tradizionale napoletana e a ricette e piatti di un tempo, innovativa e moderna quando le contaminazioni donano un nuovo equilibrio al piatto, le cotture alleggeriscono le preparazioni, l’eleganza definisce la presentazione.

La Torre del Saracino suscita, fin da subito, un ventaglio di emozioni: arrivati al porticciolo di Marina d’Aequa, si erge, a memoria delle scorribande saracene, la torre di avvistamento di Capo Rivo del VII° secolo d.C. La storia, anche in questo caso, è integrata in un quadro di insieme rinnovato: si accede al ristorante dalla torre, si passa per la magnifica cantina scavata nella roccia che ospita tantissime etichette italiane e internazionali, e si giunge in una sala bianca, elegante, con bellissime vetrate che danno sul mare e sul golfo di Napoli, con il Vesuvio a fare da sfondo.

A proposito di scenografia, diciamo subito che il servizio di sala, qui, ha pochi eguali in Italia. Ciro, Vincenzo e Gianni hanno la sala nel DNA: discreti, garbati e precisi all’inverosimile, ma al tempo stesso portatori sani di buon umore e sorriso, naturalmente portati all’empatia, al racconto del piatto come fosse una loro creatura, alla risposta scherzosa per alleggerire il servizio.

In otto piatti, la storia di un territorio e di uno chef

Un percorso ricco di colori vivi e profumi, una giostra per il palato, una cucina di mare autentica e deliziosa. L’apertura è affidata ad un aperitivo servito nella torre: tra gli amuse-bouche spiccano una quasi “classica” e golosa Crocché napoletana con patate e stocafisso, crema di capperi e olive e un Panino cotto al vapore con coniglio all’ischitana e scarola maritata. Tre piatti ci introducono alla filosofia di Gennarino: mare e territorio, materie prime comuni, piatti con una base tradizionalmente sapida che scaldano il cuore. Le alici, fichi bianchi del Cilento, salsa verde e noci sono un invito a provare i diversi accostamenti: diverte il crunchy della lisca fritta. Il fagottino di pomodoro del piennolo, seppia, inchiostro ed emulsione del suo fegato ha cuore caldo e una delicata dolcezza, ben equilibrata dagli altri elementi del piatto. La Triglia fritta, non fritta è un gioco di consistenze, ben riuscito anche grazie al contributo di una superba trippa di baccalà. Il Risotto anni ’80-’90, coi frutti di mare e il finocchietto, rappresenta invece una sfida personale dello chef alla diffusa usanza nazionale di mortificare due grandi classici: il risotto ai frutti di mare e quello allo champagne, qui combinati in un’unica portata, alquanto audace! Quindi le Fettuccelle con ragù di anguilla, pesto di prezzemolo e pinoli tostati, un piatto bellissimo (supporto compreso!): equilibrato, nato “grasso”, ma alleggerito da evidenti contaminazioni orientali. Un elegante Filetto di lucerna, zuppetta di scampi, mandarino e zafferano chiude la parte di mare del menu e introduce, anche grazie al contributo dei funghi, la successiva portata, che guarda più al lato montagna della costiera: la variazione di maialino nero, involtino di verza, papaccelle e salsa di senape.

Da questo momento in poi entra in scena Carmine di Donna, pastry chef di Torre del Saracino, maestro pasticcere di grande esperienza, appassionato di lievitati, fine ricercatore di gusto. Il pre-dessert sorprende perché protagonista è il locale Provolone del Monaco accompagnato da una crème brûlé di cedro e liquirizia, noci e fonduta di provolone stesso: un dolce – salato che prepara il palato ai dessert veri e propri. Degno di nota è il Mango confit con soffice al finocchietto, spuma di cocco e gelato al curry: sapori d’oriente e freschezza dei paesi tropicali in un delizioso dessert. La chiusura è affidata alla migliore tradizione napoletana con una egregia pastiera e l’incursione meneghina di un goloso panettone.

Ancora dubbi, o Gennarino è entrato anche nel vostro cuore?

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Tradizione e innovazione convivono, passando attraverso tre generazioni, in un luogo cult campano

Ernesto Iaccarino ha saputo plasmare l’ennesima storia di successo del Don Alfonso 1890, costruendo nel solco della tradizione una sua impronta personale e stilisticamente originale. È interessante vedere come fra il tripudio di piatti della tradizione si insinui qualche piccola, e anche più importante, provocazione moderna. Tutto quanto è frutto di talento, sensibilità, ricerca e viaggi; quelli compiuti da Ernesto in tutto il mondo per curare le consulenze di un’azienda oramai multinazionale del gusto. Crediamo di non sbagliare dicendo che, assieme ai grandi potenti francesi, la famiglia Iaccarino sia l’unica a vantare ristoranti in ognuno dei 5 continenti del globo. Un bel successo, davvero.

I grandi piatti della tradizione di questa famiglia, che ha segnato la storia della cucina italiana e non solo, sono ancora lì a far bella mostra di sé, inossidabili nel tempo. Come una grande scarpa di Berluti o un vestito di Chanel non tramonteranno mai, anzi, ma continueranno ad appassionare fiumi di clienti che passano da Sant’Agata sui Due Golfi nel desiderio continuo di poterli trovare e degustare.

In questo tripudio di ospitalità come non ricordare una delle donne più affascinanti e profondamente importanti dell’enogastronomia, l’immensa Livia Iaccarino? Sempre lì, presente, orgogliosa dei suoi ragazzi, Mario ed Ernesto, dispensatrice di attenzioni, con una passione infinita ed instancabile. Il vero gioiello di Sant’Agata sui due Golfi.

Origini salde e tradizione, ma con un occhio verso il futuro

Il Don Alfonso 1890 è un luogo d’elezione che affianca ad un costante fully booked con fiumi di stranieri che inondano le sue splendide sale, una cucina tutt’altro che ferma ed immobile. Una cucina fatta di sussurri eleganti, molto femminile nel senso più nobile del termine, e che ci ha sorpreso per spunti di originalità e carattere davvero unici. Forse, l’unico appunto che potremmo fargli è che manca lievemente di lucentezza, freschezza visiva, e che si insinua una lieve ossidazione d’impatto. Ma sono virgole, quasi impercettibili, di fronte alle Tagliatelle di rosa canina con gelato di anguilla e caviale, un piatto di personalità e gusto davvero unici, o all’interpretazione del ceviche, un tripudio di ingredienti centrati e millimetricamente bilanciati. Ottimi e super classici i dolci, che gioverebbero di qualche inserimento moderno maggiore, a fianco della decantata tradizione.

Un luogo della vita e per la vita, un luogo magico: il Don Alfonso 1890.

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