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Relais Blu

Una terrazza sul Paradiso

Il luogo è un incanto assoluto. Una terrazza sul Paradiso. Capri è così vicina che ci sembra di poterla toccare: impagabile, insomma, è il panorama che è possibile godere dal Relais Blu. Il consiglio? Quello di venirci a pranzo o al tramonto per godere di uno spettacolo di struggente bellezza: una location che, da sola, vale il viaggio.

Quanto alla cucina, dal 2020 essa è sotto l’egida di Alberto Annarumma. Tante esperienze in cucine prestigiose, dall’Arpége di Alain Passard, al George V di Parigi, dall’Intercontinental di Tokyo, al Casino de Madrid di Paco Roncero fino ad arrivare presso un unico maestro riconosciuto: Anthony Genovese. Cucina di mare, in prevalenza – ma non solo, c’è anche un percorso di degustazione senza pesce – e in questo contesto non potrebbe essere diversamente. Semplice, immediata, cucina di materia prima, delicata, adatta ad una clientela in larga parte internazionale. Cotture brevi, rispettose del pescato. Un omaggio al mare di quella Cala di Mitigliano che si apre sotto al ristorante e a cui è intitolato il nostro percorso di degustazione, e non è un caso che la cucina accompagni egregiamente il panorama, senza provare neanche a rubargli la scena: a tratti sussurrata, in più di un passaggio didascalica, senza particolari cadute, ma anche senza grandi sussulti.

Sapori essenziali che raccontano il mare

All’inizio i due piatti più interessanti: Insalata di astice, la sua bisque, raviolo ripieno di foie gras, in cui si apprezza la freschezza della materia prima e le capacità tecniche di Annarumma magnificate da una bisque eccellente, che arricchisce ma non copre; interessante, poi, l’abbinamento col foie gras. Quanto al Calamaro in inchiostro rosso con ricotta agli agrumi e salsa al passion fruit, è il signature dish di Annarumma, un piatto interessante anche cromaticamente e nell’impatto visivo: l’inchiostro rosso è barbabietola in cui il calamaro è lasciato in infusione prima di essere grigliato, poi c’è il suo nero e la ricotta mentre il frutto della passione, con la sua acidità, contrasta la dolcezza del calamaro. Buoni e golosi i cappellacci farciti di coda di rospo con crema di zucchine e vongole veraci, a differenza dei Mezzi paccheri con tartare di Cernia, salsa alle patate, olio al prezzemolo, salicornia e crouton di pane, in cui la cottura della pasta più che al chiodo – ci chiediamo quanto volutamente…. –  fa sì che il piatto risulti inevitabilmente slegato. Rivedibile il dessert, una non originalissima  variazione, un po’ stucchevole, del connubio tra cioccolato bianco (di gran moda ormai, ahinoi!) e agrumi della Costiera.

Un plauso al servizio, cordiale e inappuntabile, e alla carta dei vini ben strutturata e dotata di una buona profondità, e con ricarichi tutto sommato non eccessivi.

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Una tavola borghese nel cuore di Napoli

Da Aria Restaurant siamo difronte a una tavola borghese, nel centro di Napoli, in cui viene proposta una cucina solida, tecnicamente ineccepibile, con parecchi rimandi alla cucina tradizionale partenopea. A questa rotondità dei sapori si contrappongono geometrie e atmosfere essenziali, quasi nipponiche; tre sale non molto grandi con comode sedute, ampi tavoli tondi e un’impostazione luminosa, che mira a mettere al centro della scena la cucina dello Chef, Paolo Barrale.

Colpisce sicuramente la schiettezza dei sapori e l’eleganza delle portate, perfettamente centrate sia nell’alternanza di consistenze che nell’equilibrio dei sapori. Qui da Aria non si esalta l’acido o l’amaro ma si trovano piatti buoni, appaganti e, al tempo stesso, equilibrati.

Una cucina appagante ed elegante

La cena inizia con un punch homemade che accompagna una carrellata di appetizer divertenti come la Pizza fritta liquida o la Scapece di melanzane proposta sotto forma di oliva. Ben eseguito il Carciofo con alici crude e una salsa a base di mandorle, in cui la nota dolce rincorre e smorza la sensazione amaricante del vegetale, un piacevole contrappunto che si ripete ad ogni boccone. Eccellente l’interpretazione dello Sgombro, in cui il pescato è proposto crudo e abbinato a una delicata salsa di arance e finocchi.

Tanta centrata la salsa fumé che accompagna la Spigola arrosto con mitili e misticanza. Meno comprensibile invece il boccone di Salmone alla brace, con cui si invita a chiudere la portata, buono, sì, ma leggermente scollegato dal resto. Il Petto di faraona, invece, succoso al punto giusto, trova nella scorzonera e nella salsa al caffè un abbinamento classico ma ben riuscito. Si resta ad alti livelli anche con i dolci, dove le nuance fresche prevalgono su quelle zuccherine: ne è un esempio l’originale Gelato di bufala con fragole e piselli.

Il servizio è giovane, spigliato e molto preparato, e mette a proprio agio la variegata clientela. Originale la carta dei vini, pensata per accontentare tutti ma con poca profondità di annate. 

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La cucina nippo-campana di Giuseppe Molaro

Giuseppe Molaro è un giovane chef con una brillante carriera internazionale. Toccando l’Irlanda, Barcellona, per prendere poi il volo sotto l’ala di Heinz Beck, prima a Roma, poi in Portogallo, Dubai e Tokyo, dopo essere diventato l’executive chef del Sensi, decide di tornare a casa, a Somma Vesuviana e, con il supporto dei genitori, già dediti alla ristorazione, ha creato un concept di multi ristorazione che si dipana all’interno di un edifico, creato ad hoc, con un bistrot, una panineria e, sopra, la punta di diamante, Contaminazioni, appunto.

Le contaminazioni sono sia mentali che palatali: la Campania incrocia l’Oriente in un gioco di equilibrio, grazia, bellezza e particolarità di gusto. C’è una gentilezza di fondo, molto orientale che affronta l’irruenza italica e ne escono piatti, talvolta, davvero sorprendenti.

Da Contaminazioni non esiste un menù alla carta, si può scegliere tra tre menù degustazione e il più completo è quello Omakase, dove ci si affida completamente allo chef. Molto particolare il cocktail di benvenuto con aceto di aglio nero, kombucha ai gambi di prezzemolo, olio al peperoncino e noci, preludio agli amuse bouche, un po’ altalenanti in termini di incisività.

Il giardino Zen del palato

Spiccano la friabile e gustosa meringa di zucca con mousse di parmigiano reggiano e il piatto con i friarielli in molteplici versioni, scottati con aceto di mele, in crema, con il vegetale fermentato proposto sia nella sua acqua che come polvere, accompagnati da quinoa. Ogni piatto del menù degustazione presenta un certo livello di complessità di ingredienti e di preparazioni sempre equilibrate.

Piccolo capolavoro l’anguilla, marinata in sakè e vino rosso, crema di arachidi e funghi, puntarelle, aceto e crema di cachi: ha l’unico difetto di essere una porzione troppo piccola. Si alternano piatti in cui si spinge di più sulle acidità e altri più rotondi, più goduriosi e piacioni, probabilmente per non destabilizzare troppo una clientela, già non molto avvezza a non poter scegliere da un menù alla carta. Particolarmente apprezzati per lo spunto di acidità gli gnocchetti di Zita, cotti in brodo di pesce, crema di mela annurca, cipolla cotta con dashi, zest e crema di limone, aceto di pane e kamobushi, un katsuobushi fatto con il petto d’anatra, olio allo zenzero e alla maggiorana, sia ossidata sia fritta.

Siamo rimasti poi molto colpiti dalla parte dei dolci, dove lo chef si è davvero spinto con coraggio nel territorio dei contrasti con la sapidità, con un piccolo gioiello di equilibrio nel crumble alla nocciola, namelaka e gelato al the matcha, malto alle alici del Cantabrico e suoi pezzetti, con aceto di vino rosé. Una piccola pasticceria davvero intrigante, nella quale ci si inoltra in mousse alla noci e gorgonzola e sfere al caramello di cipolla.

In conclusione un indirizzo fra i più innovativi e particolari in terra campana, uno chef con un importante bagaglio di esperienze e un approccio molto zen che si riflette nella sua filosofia di cucina, di grande equilibrio, grazia e gentilezza.

Se però, da una parte, siamo consapevoli dell’esigenza di avere delle proposte non troppo destabilizzanti, auspichiamo e suggeriamo, soprattutto nel menù Omakase, di alzare ulteriormente l’asticella, esplorando ed estremizzando sempre più il terreno delle contaminazioni, alla ricerca di sensazioni palatali inesplorate. Del resto, la testa, il palato e la maestria nel gestire vari spettri di acidità e sapidità ci sono e, di conseguenza, la potenzialità per raggiungere risultati sempre più importanti.

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La migliore pizza a Melegnano

Non ci vuole poi molto, direte voi. E invece a Melegnano da 081 Pizzeria non trovate solo la migliore pizza dei dintorni ma anche una pizza che non sfigurerebbe a Milano città, dove la competizione è molto più serrata, e addirittura sarebbe dignitosamente in alta classifica anche a Napoli.

Cottura perfetta, Neapolitan style, cornicione fragrante, morbido e scioglievole l’impasto fondente; il trancio, perfettamente integro, non cede al centro anche se il peso degli ingredienti si fa sentire e, infine, le materie prime: di grandissima qualità.

Peraltro si tratta di un format intelligente nel proporre una carta stringata – a prezzi da encomio (Margherita a 9€) a queste latitudini – e un fuori carta giornaliero di almeno 3 o 4 pizze creative che strizzano l’occhio all’avventore gourmet. Lievitazioni lunghe, almeno 24 ma ci si spinge anche oltre, selezione di farine e di ingredienti, appunto, che sono l’eccellenza dell’italico Stivale, non solo limitati alla Campania, terra di origine della proprietà e dell’iniziativa.

Locale giustamente affollato, servizio attento, veloce e preciso e una offerta stringata di accompagnamenti, con le montanare in testa per iniziare e buone birre artigianali. Noi abbiamo degustato una ottima pizza Margherita, una splendida bufala con prosciutto crudo e una ottima salsiccia e friarielli. Durante la bella stagione, ma opportunamente attrezzata anche nelle mezze stagioni, il dehor all’aperto è un bel plus per 081.

Vi consigliamo vivamente il passaggio, e forse anche il viaggio, dai dintorni, per assaggiare una pizza davvero fragrante, ben fatta, correttamente condita, con ingredienti di grande qualità.

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Prodotto, ricerca e accoglienza: Pepe in grani è il tempio della pizza

A Franco Pepe va riconosciuto il merito, al Sud, di aver rilanciato il concetto di pizza in un universo multi-settoriale che, pur evitando una mera gentrificazione del concetto popolare di “pizzeria”, ha coinvolto artigiani e turismo ponendo sotto riflettori più luminosi tutto ciò che ruota intorno a uno dei cibi più famosi al mondo. La sua pizza è diventata un vero e proprio benchmark su scala mondiale e, da questo punto di forza, si è arrivati a quello che, oggi, è uno dei gioielli gastronomici della Campania: Pepe in Grani, non una semplice pizzeria, bensì luogo di ricerca e accoglienza a qualche chilometro dalla Reggia di Caserta.

Una pizzeria per tutti i gusti e molteplici esigenze

Pizzeria, appunto, ma anche luogo di ospitalità al passo coi tempi, che riesce a incontrare le diverse esigenze dei clienti che popolano Caiazzo per una serata in comitiva o per un’esperienza più contemplativa, presso una delle sale degustazione. Un’esperienza decisamente diversa dal solito, sebbene le pizzeria di qualità sparse in giro per lo Stivale abbiano portato l’asticella sul punto più alto del montante. Certamente Franco Pepe è stato tra i primi ad ampliare il discorso cibo fino a contemplare l’accoglienza e altri servizi: da Pepe in Grani ci sono, infatti, vere e proprie “stanze del gusto”, con differenti proposte e alcune camere di design, ideali per una sosta a spezzare, magari, un lungo viaggio.

I prezzi sono leggermente sopra la media pur restando, data la qualità del prodotto, popolari, ma la scelta di offrire un servizio più professionale, una carta dei vini che vede una interessantissima e fornita selezione di Champagne e tanto altro, scontano il dazio di dover sovraccaricare il conto finale con il costo del servizio (15%), certamente discutibile, ma non condannabile a prescindere. Ben oltre le critiche di contorno va la sua pizza di cui si è tanto parlato e scritto negli ultimi anni. Dalla nostra ultima esperienza, però, ci ha maggiormente soddisfatto la versione fritta del Maestro, forse ciò per cui vale realmente la pena spingersi fino a Caiazzo, ancora oggi. Pepe è riuscito a trovare una quadra perfetta con l’impasto che funge da struttura portante e principale per la sua vena creativa per un risultato finale etereo e goloso allo stesso tempo.

Oggi nelle cucine e al forno troviamo, a dar manforte al parte, il figlio Stefano, autore anche di alcuni nuove signature come la Cerasella, ossia pizza fritta farcita con Falernum, sfoglia fredda di fior di latte aromatizzata all’arancia, cioccolato fondente fuso, foglia di menta, fior di sale, zest d’arancia accompagnata da ciliegia sotto spirito, un trancio complesso che denota un grande entusiasmo ed inventiva del promettente figlio d’arte.

Il servizio è molto professionale e cerca di aiutare il commensale nell’ardua scelta delle pizze, specie se non si è in una comitiva numerosa. Fantastica anche la carta di vini e birre, tanto essenziale quanto fornita, ed anche in questo caso ce n’è per tutti i gusti e per tutte le tasche.

Pepe in Grani, nonostante il grandissimo livello di pizzerie sparse tra Caserta, Napoli e tutto lo Stivale, a nostro avviso, resta ancora oggi, più che mai, un santuario della pizza da visitare almeno una volta nella vita.

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