Abbiamo deciso di suggellare la fine di questo anno solare con un’inconsueta classifica, la nostra classifica, dedicata all’italianità a tavola per antonomasia: la pasta. Per risvegliare il senso di appartenenza e, se non proprio l’amor patrio, quantomeno il gusto di essere italiani e così introdurvi, piatto dopo piatto, forchettata dopo forchettata, uno dei nostri progetti più ambiziosi di questo imminente 2020.
Cappelletti alla genovese, zuppa forte di piccione, yogurt acido, lampone e funghi di Antonino Cannavacciuolo
La pasta ripiena è spesso utilizzata dallo chef partenopeo per perseguire il suo credo legato alle contaminazione tra Nord e Sud, tra la sua terra adottiva e la sua terra d’origine. Una commistione realizzata con classe ed eleganza estrema, come in questa pasta in cui la genovese del ripieno, dolce e sugosa, si amalgama incredibilmente con il dolceforte di piccione. Chiudono il cerchio le acidità di yogurt e cristalli gelati di lampone, la terrosità del brodo di funghi e il piccione, dalla nota ematico-piccante: un piatto tanto classico, tanto italiano, tanto sottile ed elegante, oltre che profondo e contrastato. Un inno alla pasta italiana.
Cacio e 7 pepi alla brace di Errico Recanati
Sulla base dello stile narrativo di Errico Recanati che triangola spiedo, griglia e fumo ecco una Cacio e Pepe che parte dalla cottura della pasta alla brace, ovviamente dopo pre-cottura in acqua bollente prima e passiva poi. La brace quindi interviene in ripasso (per 5/6 minuti) con tecnica del cappello. Così si ottiene una sorta di breve affumicatura a caldo. Il cacio si sdoppia tra la classicità del Parmigiano e il genius loci del Formaggio di Fossa che moltiplica peraltro l’idea di affumicatura. La base casearia è pronta per essere innervata dai 7 pepi mixati ad hoc: Timut, Lungo, Selvatico del Madagascar, Verde naturale della giungla, Bianco, Sichuan, Nero di Sarawak. L’affumicato precede il boccone, l’amido dello Spaghettone Benedetto Cavalieri si diffonde sul cacio, il pepe riverbera e punteggia.
Pasta agli anemoni di mare di Antonio Guida
Il mare nel piatto in un’interpretazione tanto personale – quella di Antonio Guida – quanto universale, nei colori, nei profumi, nei sapori e nelle consistenze. Un piatto dall’equilibrio perfetto.
Le tagliatelle di patate con tartufo bianco d’Alba di Matteo Baronetto
Tanto semplice quanto straordinariamente buono: la consistenza incredibile della pasta di patate con cui sono realizzate le tagliatelle e lo spessore perfetto con cui sono tirate ne fanno il piatto di pasta antonomastico dell’anno appena trascorso. Un mix di sapori, consistenze ed emozioni che rimandano all’ infanzia ma, al tempo stesso, alla contemporaneità e al grande carattere, oltre che alla filosofia, di questo grande chef italiano.
La Lasagna alla Bolognese di Luigi Taglienti
Un piatto realmente popolare, di cui è difficile – per non voler utilizzare il termine “impossibile” – trovare due versioni uguali in due case diverse. Nella versione proposta da Luigi Taglienti esso viene preso e, senza snaturarne né l’idea, né la forma né tantomeno l’esecuzione, viene sparato nell’iperspazio dell’alta cucina: gusto, finezza, golosità e italianità all’ennesima potenza. Un piatto in grado di posizionarsi, con pari spessore e dignità, tanto in una proposta alla carta quanto in un menù degustazione. Sublime.
Il tagliolino al tartufo di Diego Rossi
Come può un piatto di pasta arginare l’idea di un cibo popolare? Basta mettere molti tuorli e tirare un tagliolino di callosità ed elasticità inappuntabili, unire brodo di pollo con tanto Parmigiano Reggiano e tantissimo burro, mantecare il tutto e, dulcis in fundo, affettarci sopra qualche fetta di tartufo bianco. Solo già la salsa che ne sortisce ha un equilibrio raro, che già parla per sé, ma l’allungo irresistibile del tubero lo rende magico. È la magia di un piatto semplice che si veste d’opulenza, in trattoria, lì dove alta cucina e tradizioni danzano senza soluzione di continuità.
Garganelli con astice, porcini e tartufo nero di Nicola Portinari
Il piatto “inclusivo”: capace di unire invece che dividere, che mette d’accordo tanto il gourmet quanto il gourmand, il seguace della creatività così come il fedele alla classicità estrema. Perché è semplicemente perfetto, per gusto, tecnica e precisione stilistica. Un grande classico de La Peca, un piatto da grandissimo ristorante.
Proprio un piatto di pasta consacra Moreno Cedroni al rango del fuoriclasse: un piatto assoluto dove la carica gustativa della capasanta è amplificata grazie all’uso della liofilizzazione, cui si unisce il vigore delle erbe selvatiche essiccate e poi passate sulla brace e la seppia appena scottata. La nota empireumatica del fuoco impressa sulle erbe si sposa con la dolcezza del riccio regalando sentori e ricordi di una grigliata di pesce sul mare del litorale di Marzocca.
Più che un piatto di pasta “il” piatto di pasta, tale da rappresentare, iconograficamente, il manifesto del corso nobile del celebre carboidrato italico. Innanzitutto al posto della posata classica è sagacemente imposto all’ospite l’uso di una pinza, che costringe a gustare le penne una ad una: il ritmo “lento” va a nobilitare l’elemento nazional-popolare. Poi, la mano del maestro fa il resto: il burro ai ricci di mare insieme alla polvere di capesante dona sapidità, l’ortica e le seppie ai carboni l’amaricante e una textura da manuale, per un equilibrio d’insieme di ingredienti apparentemente antitetici davvero superlativo. La stellina composta di ricci di mare liofilizzati, da sbriciolare tra le dita sulle penne completa il servizio, confermando una tecnica all’avanguardia ma anche quella componente ludica tanto caratteristica di Moreno Cedroni. Un piatto che, a distanza di mesi, è ancora ben impresso nella memoria.
Pasta e cipolla di Andrea Leali
Un grande piatto di pasta che con maestria e solo apparente semplicità si anima degli ingredienti che lo compongono, in questo caso differenti tipologie e cotture di cipolla, tirandone fuori un concerto di sapori con gradazioni che si avvicendano in modo sorprendente e definito.
Spaghetto mantecato al burro di genziana, caciotta di capra, scorzetta di bergamotto candito di Gianluca Gorini
Servito alla fine del menù degustazione, una deflagrazione: un ko dei sensi. L’onda d’urto è spaventosa e somiglia alla carica, sia metaforica che letterale, di una capra appena uscita dal bosco: una capra che ha fatto incetta, per la precisione, di radici, cortecce e d’altre forme, tutte boschive, di amarezza. L’amaro purissimo della genziana e quello agrumato del bergamotto proiettano la percezione in una dimensione di gusto praticamente infinita: avanguardia pastorale.
Spaghetti freddi alla carbonara con uova di salmone e caviale di Massimiliano Alajmo
O di come semplificare la complessità con una profondità di pensiero impressionante. Dissimulazione e reinvenzione; nello specifico: la sapidità delle uova di pesce, in sostituzione del guanciale, e la base all’uovo a garantire quella rotondità capace di legare gli ingredienti, senza nostalgia, in un servizio a bassa temperatura. Una scelta straniante che permette tuttavia alla componente ittica di sprigionare tutta la propria potenza, facendo spiccare un salto vertiginoso, tanto immediato quanto ragionato.
Pasta mista in zuppa di crapiata, bisque di gamberi agli agrumi, crema di foie gras al Cardenal Mendoza, pesto di prezzemolo e tartare di gamberi di Vitantonio Lombardo
È un piatto visivamente ed emotivamente di impatto: è l’omaggio più bello e buono a Frank Rizzuti, compianto chef e prima stella Michelin in Basilicata. Gusto deciso, sapori netti, definiti e bilanciati caratterizzano una vecchia ricetta della tradizione materana, arricchita e nobilitata dal foie gras e dalla quenelle di tartarre di gambero. Il risultato è strepitoso… e commovente!
A Senigallia, ormai piccola capitale dell’Italia centrale gourmet, nella gradevole piazza Saffi Anikò si erge come un parallelepipedo di design, caratterizzato dal felice connubio marinario di legno, vetro, e acciaio, e da bianchi tavoli e sedute all’aperto. Tra le creature dell’istrionico chef Moreno Cedroni, Anikò (che in dialetto locale si traduce letteralmente con “tutte le cose”) costituisce sicuramente la linea prêt-à–porter rispetto alla haute-couture della Madonnina del Pescatore e dello stiloso Clandestino, in cui vengono sperimentate le creazioni della casa madre.
La formula vincente, anche se difficilmente categorizzabile, ci ha indotto a considerare questo delizioso chiosco nel novero delle trattorie, benché d’autore, e dal taglio squisitamente contemporaneo. E difatti, durante la bella stagione si registra il tutto esaurito, ogni sera. Merito della poliedricità dell’offerta: efficace per un aperitivo, per una cena informale, per un cocktail su uno sgabello al bancone così come per l’asporto di un paio di panini, con salse in accompagnamento, da consumare in spiaggia. “Ogni momento è quello giusto” diremmo, facendo il verso a un celebre spot.
In questi anni, quindici ne sono trascorsi dalla prima volta, da Anikò abbiamo incontrato avventori di tutti i tipi: giovani e, all’apparenza, poco avvezzi a tavole come quella di Cedroni, così come panciuti e navigati gourmet che, accomodatisi magari per un aperitivo, stazionavano per ore trasformando la “visita” in una cena, di assaggio in assaggio. La proposta era, ed è ancora oggi, calibrata attorno all’idea di servire un eccellente – e originale – street food gourmet, quando ancora nessuno lo chiamava così, come accadeva con l’iconico happy toast (salmone, provola, zucchine), panino gourmet ante litteram. Oggi, l’offerta di questa eaterie ha saputo diversificarsi ulteriormente, e nessuno dei nostri assaggi, nemmeno stavolta, ci ha deluso.
Se il tataki e la bresaola di tonno, con la loro delicata freschezza, costituiscono un’ottima partenza, il prosieguo ideale si troverà nel ghiotto hot dog di gamberi, con salsa barbeque a regalare la sapidità, e nel panino con tonno bianco tataki e mousse di parmigiano. Piatto del viaggio, il polpo fritto leggero e dalla gommosità suadente; robusto ma ben eseguito il fish e chips a base di spigola con salsa rinfrescante al mandarino.
Ma qui regalano soddisfazione anche i dolci: noi abbiamo optato per un’originale cassata all’italiana e una mousse al cioccolato con sale e olio.
Il servizio giovane e accogliente completa il quadro per un paio d’ore di puro godimento, in quel di Senigallia.
Un luogo magico, aperto da Moreno Cedroni ben 19 anni or sono. Al Clandestino Sushi Bar si fondono natura, territorio e modernità; varrebbe già il viaggio, anche se si mangiasse solo bene. E in realtà, pur con numeri da capogiro che, durante la stagione estiva, ingolfano non poco il litorale intero e quest’angolo di paradiso, e pur con una cucina decisamente minuscola di dimensioni, il buon Moreno fa letteralmente miracoli.
Una cucina che osa maggiormente rispetto alla casa madre, bistellata e più tranquilla per necessità, seppur stimolante, originale e intrigante come Cedroni e la sua cucina sanno essere. Qui, pur con i limiti di un servizio – e di strutture – un pò sacrificate, lo Chef sperimenta e imprime una accelerazione al suo talento culinario, alla sua sensibilità palatale. Colpi come le capesante, di cui non ci scorderemo facilmente, la ricciola di apertura e il baccalà sono entrati di diritto nella memoria, e nel novero di quella cucina leggera, sana, invitante, avanguardista, creativa che è il ritratto inconfondibile dello chef di Senigallia. Le capesante, un piatto assoluto che non sfigurerebbe alla casa madre, ci hanno davvero fatto godere molto.
Ogni anno, a fianco dei piatti alla carta, utili per uno spuntino a tutte le ore e in grado di accontentare una largo spettro di clientela, Moreno pensa e realizza un menù a tema, quest’anno dedicato al Mediterraneo, che fa volare alta la sua cucina: creativa, ricca di ingredienti, quasi barocca, ma affilata e pungente e con tutti gli elementi al posto giusto. Completano il quadro un servizio di prim’ordine, attento, veloce, preparato e presente, e un posizionamento che parla da sé.
Il Clandestino Sushi Bar è un luogo ricco di magia e fascino, non fatevelo mancare!
Difficile rimanere sulla cresta dell’onda più di 30 anni. È possibile passare periodi di difficoltà e di crisi creativa. Eppure a Moreno Cedroni e alla sua Madonnina del Pescatore non sono mai mancate idee, spunti, originalità gustativa. Forse, ciò che è successo talvolta è semplicemente il fatto che queste idee non trovassero una corrispondenza gustativa precisa. Nel percorso di Moreno ci sono sempre azzardi e il coefficiente di difficoltà a cui sottopone la sua cucina, per numero e tipologia di ingredienti adottati, è sempre molto elevato.
Questa volta crediamo che, con la maturità, questo eterno e scintillante Peter Pan abbia trovato una posizione più centrata e concreta nella sua cucina immaginifica. Ha ridotto gli impegni, ha concentrato le sue energie. Energie, che a dire il vero, ha sempre costantemente orientato verso l’innovazione. Il primo a proporre il susci all’italiana, il primo a guardare con occhio curioso allo street food, rendendolo gourmet, il primo a lavorare i salumi di mare, il primo a inscatolare le sue creazioni ittiche. Insomma, sempre il primo, forse, quasi sempre troppo in anticipo sui tempi. Un visionario Moreno che ha sopperito a una tecnica da autodidatta con tante idee e tanta immaginazione. Oggi il suo percorso a noi pare molto più compiuto e completo.
Tutti i piatti degustati nel nostro percorso sono stati, oltre che riconoscibilissimi, anche piacevoli e molto interessanti e spiazzanti come questo piatto, tra i più riusciti, il ramen tiepido di pesce:
Un piatto decisamente intrigante e, come fu per il susci, assolutamente personalizzato dal Moreno Style. Spuma di friggitelli, spaghetti felicetti su fondo, uovo cotto nella soia, ricciola affumicata et voilà, il ramen secondo Moreno Cedroni, riuscitissimo, sottraendo leggera importanza all’ananas, forse troppo in evidenza in questa preparazione. Stupendo il Piccione con salsa masala, ottimo il Moro oceanico così come le Mazzancolle turgide.
Completa il quadro un ottimo servizio, gestito amabilmente da Mariella, compagna nella vita e di avventura e degno contraltare del marito. Di Mariella si parla sempre troppo poco, una classe, eleganza e discrezione veramente uniche che hanno fatto la fortuna della Madonnina alla pari di Moreno. E che noi consideriamo un pochino la nostra casa, da sempre.
Dal 1984 quando, ventenne o poco più, aprì il suo locale a Senigallia, Moreno Cedroni ha contribuito, con il proprio approccio all’alta cucina, ad accorciare le distanze da una clientela via via sempre più varia e affezionata, attratta dal suo stile mai serioso, persino ludico in certi aspetti.
Il suo stesso physique du rôle, bandana multicolore compresa, era assolutamente propedeutico a questo scopo e l’utilizzo del pesce crudo, destinatario di una geniale caratterizzazione tramite il termine italianizzato “susci”, ne ha rappresentato un originale biglietto da visita, destinato successivamente ad alimentare sagge operazioni di marketing.
E noi, che seguiamo con interesse e attenzione la grande cucina, non possiamo astenerci dall’apprezzare questo pioneristico e pluriennale processo di avvicinamento della liturgia della grande tavola a un pubblico eterogeneo.
Ora il ristorante, visto e considerato il pienone in un infrasettimanale qualunque, naviga a velocità di crociera, godendo appieno dei frutti di questa lunga evoluzione, testimoniando ancora una volta che la grandezza viene raggiunta non solo quando ci si avvale dell’opera di un grande solista ai fornelli ma anche, e forse soprattutto, quando si riesce a coniugare qualità dell’offerta e quantità degli avventori.
Sotto questo aspetto La Madonnina da tempo, ormai, fa parte della cerchia dei grandi locali italiani. Questo orientamento decisamente easy ha trasformato lo chef in un vero e proprio marchio, che ha contribuito ad affermare e consolidare il lavoro svolto anche attraverso la diversificazione delle offerte, siano esse la salumeria di pesce, il susci bar di Portonovo e altro.
Qui alla casa madre di Senigallia il mare è saldamente protagonista dei piatti, in una perfetta comunione con la vista che, dalle vetrate della bella e luminosa sala, piacevolmente si perde fino alla battigia e all’orizzonte.
Le pietanze, arricchendosi ogni anno di new entry e contrassegnate rigorosamente dal millesimo di ideazione, mantengono quel che promettono: una cucina vivacemente golosa, solida e impeccabilmente eseguita che ha però lasciato intravedere, in qualche passaggio, una marcata indulgenza verso certe rotondità che avrebbero senz’altro beneficiato di più incisive rifiniture.
E’ il caso dell’ostrica con foie, in cui l’aceto di lamponi e la confettura di ciliegia fanno virare troppo sul dolce quello che poteva essere uno spunto interessante, o ancora il tonno, ove la salsa tonnata e l’uovo in camicia creano un corto circuito lipidico che le rape rosse e la giardiniera non riescono ad arginare.
Il blasone viene prontamente ristabilito con piatti come la ricciola, esaltata a dovere da una squisita salsa di porro e lemongrass o altri dall’ottima fattura, come il petto di piccione servito con le lumache locali e la pluma di maiale -cotta alla perfezione- e accompagnata da diversi e convincenti contrappunti.
Ugualmente altalenante il risultato per quanto riguarda i dessert: ottimo appare infatti il gelato al rum su confettura di ananas e lime, mentre decisamente rivedibile è la millefoglie con pan di spagna alle alghe, crema all’aglio nero e granita di sakè, infelice sia per la discordanza tra le temperature che per la mancata armonia dei sapori.
Il percorso è stato più alterno questa volta rispetto al passato, ma la sensazione di piacevolezza generale è stata tale da immaginare gli impasse in cui siamo incorsi come effetti di una fisiologica e temporanea fase di assestamento di un ristorante che certamente avrà ancora molto da dire nel panorama gastronomico nazionale.
Mise en place.
Gelato al Parmigiano.
Pani fatti con lievito madre, molto buoni.
Margarita: tequila, lime, sale e peperoncino.
Crudo di ricciola con salsa di porro e lemongrass, gommoso di basilico e amaranto fritto, viola del pensiero.
Ostrica su caramello di aceto di lamponi, confettura di ciliegia, foie arrostito, granita di ostriche e ciliegie, perle di tè Lapsang Souchong.
Zuppa di vongole e mandorle, broccoli, frutti di mare.
Tonno su salsa tonnata, salsa di rape rosse, giardiniera di verdure, uovo in camicia.
“Cassoeula” di pesce: zuppa di fagioli, spigola, trippa di coda di rospo, salsiccia di calamaro e verza.
Tortellini ripieni di parmigiano liquido con battuto di marchigiana al coltello su riduzione di aceto balsamico e salsa di pomodoro, gelatina di basilico.
Petto di piccione con raguse, misticanza e sedano rapa.
Pluma di maiale iberico, salsa di finocchio e arancia candita, crescione, finocchio, aglio nero e cioccolato.
Gelato di topinambour col suo croccante.
Tiramisù scomposto, versione non memorabile di un classico nazionale: cremoso di uova e mascarpone, pane del giorno prima bagnato nel caffè, gelato al caffè, gelatina di caffè.
Gelato al rum zacapa, su confettura di ananas e lime, gelatine di rum, streusel al cocco, granita alla batida de cocco.
Millefoglie con pan di spagna alle alghe, alga caramellizzata, base all’arancia, crema inglese all’aglio nero, granita di sakè.
I vulcani nel mondo: wasabi e yuzu, fagiolo nero e peperoncino, basilico e pomodoro liofilizzato, banana, tapioca e curry, olio extravergine, mastice( resina degli alberi e ambra) e olive nere.
Dalla cote des Blancs…
Ingresso.
La spiaggia.