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La Nunziadeina

La cucina della provincia modenese

Fare tradizione presenta i suoi rischi. Rischi che possono sembrare certamente meno numerosi ma che sono invero molto più insidiosi rispetto a quelli che corre, invece, chi sposa l’avanguardia e, dunque, una certa libertà in termini enciclopedici ed esecutivi. Il classico, per dirla meglio, si consuma sempre sulla spalle dei giganti, ed è con questi che, indefessamente, si confronta. Nel piccolo borgo medievale di Nonantola, già famoso per la splendida abbazia e per aver dato i natali, in cucina, a Massimo Bottura, da qualche tempo va in scena una cucina che, negli anni, è diventata estensione di questo classicismo e di una domenica metaforica e sempiterna che, peraltro, va in scena in un bell’edificio, situato proprio appena al di fuori delle mura della cinta dell’abbazia: La Nunziadêina.

Nunziadêina come vezzeggiativo dialettale del nome di nonna Annunciata, il cui ricettario è alla base di questa bella storia familiare portata avanti dall’oste Luca Stramaccioni e dalla cuoca Rina Mattioli. Qui, in una sala elegante con travi a vista e il magnifico camino, sempre acceso e a cui si aggiunge, in estate, l’incantevole giardino, va in scena una cucina domestica e borghese, magnificata dal carrello dei bolliti e da quello dei dolci, che trova però nello straordinario brodo di cappone e nei tortellini uno dei suoi vertici assoluti. La pasta all’uovo, del resto, è sapientemente tirata al mattarello da Mattioli, che di questa storia di famiglia è il perfetto prosieguo e che continua anche dietro alle braci su cui sfrigolano un’ampia varietà di carni e, in stagione, i funghi porcini.

La sala è arredata con gusto altrettanto borghese, con tovaglie di lino e cotone ricamato e ben inamidato, che riportano alla mente il corredo delle spose di un tempo.

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La cucina personale e promettente di Mattia Trabetti da Alto

Nel sempiterno conflitto tra classicismo e avanguardia chi soccombe e chi trionfa è sempre l’uomo, schiacciato oppure fortificato nella tempra da questo agone. Sempre tra gli uomini, poi, c’è chi invece vi si abbevera, beandosi degli esiti di un conflitto secolare che, se preso con la giusta distanza, può esser decisamente prolifico. È il caso di Mattia Trabetti da Alto, il ristorante fine-dining dell’hotel Executive a Fiorano Modenese.

Un curriculum importante, il suo, visto che dopo gli studi all’Alma La Scuola Internazionale di Cucina di Colorno, Trabetti affronta un periodo di formazione all’Antica Corona Reale dove resta due anni e, quindi, da Heinz Beck a Londra e, ancora, all’F12 di Stoccolma, allo Zilte di Anversa e, dopo un ritorno in Alma come Sous Chef di Leonardo Marongiu, va con lui al Portopiccolo di Trieste e, infine, al The Craftsman, nella vicina Reggio Emilia. 

Un peregrinare fecondo, visto che Trabetti ha oggi sviluppato una personalità assai definita, per certi aspetti avveniristica e certamente non tacitabile, che si magnifica in piatti molto eloquenti e perfettamente congegnati. È il caso dell’autunnale tagliatella di castagne, mirtilli fermentati, ginepro e trombette dei mortiuna deflagrazione molto ben calibrata di aromi e modulazioni, tutte nel segno dell’umami, così come accade nella lepre, che inverte i canoni della ricetta alla “Royale” cercando la masticazione multipla rispetto la  cremosità a cui si accostano ingredienti insoliti e molto evocativi come la scorzonera e la galanga. Altrettanto interessante, nonché condita di irresistibile nostalgia, la scelta di servire un corroborante brodo – miso di pane e sedano rapa – a inizio pasto, per propiziare l’appetito e detergere le papille.

Dolci che dimostrano, peraltro, la capacità dello Chef di trascendere il cerebralismo e di farsi anche golosi, vivaddio, come accade nella giustapposizione edotta di gelato al tabacco, caramello di peperone arrosto, granita di foglie di fico tostate e mandarino in salamoia, la cui parte più interessante, oltre alla salamoia, è senz’altro la caramellizzazione data dall’arrosto del peperone. 

Una carrellata, insomma, di piatti perfettamente a fuoco sia nell’ispirazione che nelle proporzioni, che lasciano presagire l’ascesa, sempre più in Alto, appunto, di Mattia Trabetti

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Champagne da ricordare, per dimenticare

Una fiera internazionale, una manifestazione, un evento, cioè un luogo dove incontrarsi di nuovo e vivere in presenza un’esperienza condivisa; e se può essere sul vino, allora è la perfezione. Se poi è sullo Champagne, allora per tantissimi può essere l’apoteosi. Ci ritroviamo così alla quarta edizione di Champagne Experience.

Il tempo vola, dalla prima edizione sold out al Forum Monzani, all’attuale area di Modena Fiere, con uno spazio che oggi si presenta accogliente e perfettamente organizzato in banchetti divisi per 5 aree tematiche: Aube-Côte des Bar, Côte des Blancs, Maison classiche, Montagne de Reims e Vallée de la Marne. Tutte distinte da un colore, con la piantina numerata all’interno della guida che riporta la presentazione sintetica delle Maison, il distributore e le bottiglie in degustazione, tutte descritte dal nome in etichetta e dai principali dati (uvaggio, dosaggio e mesi sui lieviti).

Il risultato è una guida che sembra un libro e un luogo che appare come una sorta di parco giochi per adulti, dove in effetti i non addetti ai lavori si possono scatenare, il tutto sotto la guida organizzativa della Società Excellence che raccoglie 18 distributori a loro volta presenti con 121 nomi del mondo dello Champagne e il suo Direttore, Lorenzo Righi, che guarda a questa edizione post-Covid forte di un numero di prenotazioni certamente molto lusinghiero.

Non solo. Ci sono anche le Masterclass dedicate. Nei due giorni di apertura dell’evento, domenica 10 ottobre sono intervenuti Alessandro Scorsone, Alberto Lupetti e Sandro Sangiorgi, lunedì 11 Gabriele Gorelli.

Infine, si sono svolte anche le Sponsor Class a ingresso gratuito. La mia scelta è caduta sul tema «Lunghe, lunghissime maturazioni sui lieviti» di Alberto Lupetti, dove è stato possibile degustare lo Champagne De Sousa Cuvée des Caudalies Grand Cru Extra Brut dal caratteristico assemblaggio al 50% delle uve d’annata e al restante 50% di altre 22 annate dalla Réserve perpétuelle dal 1995; Canard-Duchêne Cuvée V 2010; Ayala Brut Collection n° 7 Millesimato 2007; Charles Heidsieck Blanc de Millénaires Brut Millesimato 2006; Louis Roederer Cristal Brut Millesimato 2013; Bruno Paillard N.P.U. Extra Brut Millesimato 2008; Pannier Egerie Extra Brut 2006.

Fra questi, nell’eccellenza, per quanto possa avere un senso esprimere un giudizio per dei fuoriclasse, si può tuttavia mettere in evidenza il Cristal 2013, sulla scia di annate molto ben riuscite, come l’eccellente 2008 e la più recente 2012. Lo champagne di De Sousa è poi certamente un riferimento, mentre l’N.P.U. (Non Plus Ultra) di Bruno Paillard, anteprima in degustazione, si è rivelato essere a tratti persino commovente.

Secondo Alberto Lupetti, soffermandoci sulle migliori annate più recenti della Champagne, la 2008 si può definire come “vecchio stile”, basata sull’acidità, con risultati di grande rilievo sostanzialmente da parte di tutti i produttori, mentre la 2012 apre al futuro; basata sul suolo, sulla maturazione, mette più in evidenza le differenze fra le Maison, non solo per il calo della produzione di quell’anno. Certamente l’aumento delle temperature mondiali attribuibili al surriscaldamento globale, giova a favore delle zone vitivinicole più a nord, per la perfetta maturazione delle uve, rivoluzionando in parte anche le esigenze dei dosaggi.

Potremmo dire che se è vero che il gusto nei confronti dello champagne stia cambiando, di pari passo è lo stesso vino che a sua volta porta il pubblico verso altre mete.

Dunque un’annata 2012 da esplorare per crearsi una memoria olfattiva. Allora uno dei metodi per affrontare le 121 Maison presenti a questa edizione di Champagne Experience, può proprio essere quello di andare alla ricerca di questo millesimo fra chi lo ha portato in degustazione. 

È certamente un metodo selettivo, d’altra parte, soprattutto per il mondo dei consumatori non professionisti, può tracciare una strada per non dover assaggiare centinaia di vini in un giorno solo, con il probabile risultato di mandare rapidamente naso e palato in confusione. In questo percorso, dopo aver messo a confronto tutti i 2012 presenti in rassegna, si mettono in evidenza: L&R Legras Presidence Grand Cru, 100% Chardonnay; Piper-Heidsieck Vintage 2012 con all’incirca 50% Pinot Noir e 50% Chardonnay; Thiénot Brut Vintage 2012 con maggioranza di Pinot Noir, 25% di Chardonnay e un 10% di Pinot Meunier. Fra l’altro, questa Maison aveva in degustazione anche il Cuvée Alain Thiénot 2008, significativo esempio di questo millesimo.

Si poteva trovare anche qualche annata più remota, fra cui la 2004, piaciuta a tanti, ad esempio Tarlant con due etichette, Cuvée Luis, 50% Chardonnay e 50% Pinot Noir e la particolare La Vigne D’Or Blanc de Meuniers, 100% Pinot Meunier. C’era anche Jean Michel con la Cuvée Speciale 2002, taglio di 50% Pinot Meunier e 50% Chardonnay.

Infine, da rilevare l’interessante Masterclass «Extravagance in Champagne» di Sandro Sangiorgi, il guru del vino naturale, un’eclettica esposizione di produttori che rappresentano al meglio la declinazione di questo modo di fare vino in Champagne. In degustazione Tarlant Bam! Blanc de Blancs Brut Nature, Pierre Gerbais L’Originale Pas Dosé Extra Brut, Apollonis-Michel Loriot Monodie Meunier Vieilles Vignes Extra Brut Millesimato 2010, Georges Vesselle Bouzy Rouge Côteaux Champenois Millesimato 2009 e Leclerc Briant Blanc de Meuniers Premier Cru Millesimato 2015. Lo stile di Sangiorgi è quello di compenetrare le degustazioni con la filosofia e i sentimenti, fuori dagli schemi talvolta nozionistici, introducendo il fattore tempo che ci può dare momenti sempre diversi nell’assaggiare il vino, a sua volta generoso di rivelarsi, o poco propenso a raccontare di sé.

Si chiude dunque all’insegna dell’ottimismo la quarta edizione di Modena Champagne Experience, confermando certamente tanto interesse per il mondo delle bollicine francesi per eccellenza. Lasciandoci poi nella curiosità di tornare, l’anno prossimo, per andare alla ricerca di una nuova annata che possa raccontarci tanto, come è stato per il 2004, ma soprattutto per il 2008 e il 2012, certi che il fermento di un grande vino non si ferma mai. Evolve sempre.

Il nuovo capitolo di Massimo Bottura 

Tanto si è scritto su quest’ultimo menù di Massimo Bottura all’Osteria Francescana. Fiumi di parole legate all’omaggio che il cuoco modenese fa a molti suoi colleghi, contemporanei e non e, più in generale, alla cucina italiana. Un percorso storico-filologico che si snoda lungo tutto il periodo e i protagonisti della rinascita e ancor di più della costruzione del modello di alta cucina contemporanea che possediamo, oggi, in Italia.

E, da buon ambasciatore, il leader Maximo ripercorre, in 18 atti, questo fil rouge storico con maestria, imprimendo il suo sigillo, la sua maturità palatale e filosofica nonché culturale alle preparazioni. Cosa che fa in maniera rispettosa ma, al contempo, provocatoria, traslando su un piano differente le preparazioni, trasformandole, trasfigurandole e rendendole contemporanee, aggiungendo e incorporando tutto il suo sapere maturato in giro per il mondo e costruito su una sensibilità culturale e palatale davvero unica.

Tutte le ricette sono sostanzialmente un pretesto da cui partire, una libera ispirazione, finanche una licenza poetica che viene presa e di prepotenza traslata in una dimensione completamente diversa, trasfigurando l’originale. Non in forma caricaturale, sia inteso, ma aggiungendo punti di vista, proiezioni e in qualche caso lenti di ingrandimento che focalizzano l’attenzione sui dettagli, spesso trascurati, ma qui invece elevati al massimo grado di potenza.

L’emblema di questo concetto è, senza dubbio, la Zuppa fredda di carbonara di Gianfranco Vissani ma, per certi versi, anche l’insalata di spaghetti freddi di Gualtiero Marchesi. Il primo di cui sono enfatizzate le note dolci-salate, è contestualizzato proprio nel ruolo di passaggio tra il salato e il dolce: qui la crema inglese al pepe unita al caviale e al gelato al pecorino è una esplosione totale tanto più che proporzioni e dosaggio rendono questo piatto davvero indimenticabile, nonché stimolante per chi sa riconoscere la doppia citazione del cono rovesciato: una sfoglia di buccia di banana che, nella sua complessa lavorazione, ricorda il guanciale e in cui si assommano i concetti cari a Massimo Bottura di lotta allo spreco e di citazione del piatto Oops mi è caduta la crostatina al limone, ribaltando la prospettiva della presentazione.

Il secondo, invece, proiettato in una dimensione totalmente differente, con il miso di spaghetti, la pasta di seppia e i gomitoli di verdure a ricreare un paesaggio surreale e un rimando ancestrale davvero formidabile.

E ancora la cipolla di Salvatore Tassa da grasso-fondente-casearia si trasforma in un biscotto sfoglia di Parmigiano Reggiano e cipolla, in cui ciò che più stupisce è il contrasto tra la versione originale e questa, asciutta, astringente, quasi biscottata. E poi le capesante ripiene di mortadella di Fulvio Pierangelini vengono ribaltate, dalla versione originale, e diventano dei ravioli, peraltro piatto simbolo del cuoco di San Vincenzo in doppia citazione, il cui ripieno è proprio la capasanta. Piatto a geometria fissa, con le proporzioni e il connubio degli ingredienti dosati al millimetro che rendono la capasanta molto più protagonista del piatto originale, ribaltando con il fantastico chowder di finocchio sul fondo tutti i pensieri e le priorità gustative della versione nativa, proiettandolo nello spazio iper gustativo.

L’opera omnia della cucina italiana: una riflessione sul gusto e sulla leggerezza

Ma potremmo continuare all’infinito nell’analisi – grammatica, semantica – di queste trasfigurazioni dove ciò che più ci preme osservare è come questo insieme di piatti assurga a vero e proprio menù, anzi meglio a una partitura come già abbiamo avuto modo di constatare in passato, in cui ogni elemento non è fine e grande al contempo da solo, ma fa parte appunto di un’opera che ha un inizio, una fine e, soprattutto, una sua ritmica nella scansione, dove la scelta e la collocazione di ciascun piatto e la concatenazione col precedente e col successivo è frutto di un pensiero d’insieme profondo e articolato.

Un altro aspetto che ci preme sottolineare è, poi, l’estrema leggerezza e ariosità di queste preparazioni. Mai, finora, la leggerezza s’era manifestata con tale efficacia nel repertorio di Massimo Bottura. Ma questa volta il cuoco modenese si è superato ancora una volta rendendo tanto lievi quanto più incisive, al gusto, le sue preparazioni. E proprio il gusto è un altro aspetto su cui riflettere perché in tutti, o quasi, i piatti s’è svolta un’analisi gustativa atta a valorizzare il gusto, le sue derivate e le sue componenti di allungo con una perizia mai incontrata, finora, in un menù degustazione. Qui scomposizione e ricomposizione gustativa raggiungono vertici impensabili soprattutto con il germano ripieno di Anguilla di Igles Corelli, che ricorda un viaggio in Oriente, in Giappone, nella fattispecie, tanto è trasfigurato e innalzato. 

Partendo da quest’ultimo piatto un cenno è d’uopo sulla faraona, piatto che ci ha davvero impressionato. E che apre lo spiraglio all’ennesimo ragionamento su questo percorso, ovvero il sottile e trasversale gioco sulle consistenze. Siamo, difatti, al cospetto di un menù in cui la quasi totale assenza di consistenza domina prepotentemente. Abbiamo passato gli ultimi dieci anni, almeno, a sentirci ripetere che la parte croccante di un piatto, la sua compostezza e struttura, fossero fondamentali. E che senza una componente croccante o, in qualche modo, tenace il piatto sarebbe risultato incompleto. Ebbene questo paradigma è stato completamente annientato da un menù che è quasi privo di consistenze eppure totalmente armonico, lieve e morbido, tenue nel morso e nella masticabilità e che pertanto dimostra, ancora una volta, che ogni dogma è fatto per essere demolito. 

Perché la filosofia di cucina e del lavoro sulle consistenze è indiscutibilmente un percorso elevato e, a nostro avviso, centrato, ma ciò non mortifica o sminuisce il suo opposto, se saputo amministrare, ovvero il lavoro sull’assenza o, meglio, sulla inconsistenza delle consistenze. Appunto.

Chiudiamo questa nostra scheda, ora, con un plauso a Beppe Palmieri e a tutta la squadra della Francescana per aver pensato un percorso di abbinamento, qui descritto nelle didascalie, tanto originale quanto mai centrato e preciso. Segno che il talento non alberga solo nel Grande Capo ma in ogni singola individualità che anima il numero 22 di Via Stella.

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L’Osteria Francescana nella campagna modenese

Che l’Osteria Francescana abbia un posto nell’empireo della gastronomia contemporanea è indubbio, ma non è scontata la maniera in cui questo primato venga difeso anno dopo anno anche in seguito alle chiusure forzate. Alla corte di Massimo Bottura, invece, la prima impressione è stata quella di trovarsi in un luogo perfetto, come se tutto fosse a regime, collaudato già da molto tempo. Eppure, era tutto o quasi una novità, a cominciare dalla location: l’Osteria Francescana si è infatti trasferita, per il mese di maggio, in campagna da Luigina, la “polisportiva” di Casa Maria Luigia, come ama definirla il suo creatore.

Degli ex fienili restaurati e arredati con le museali opere d’arte della collezione personale dello chef e con le auto che hanno fatto la storia dell’automobilismo. Tutto ciò generalmente fa da cornice a una palestra, al biliardo e al calcio balilla, ma per qualche settimana si sono aggiunti i tavoli dell’Osteria con vista sulla campagna Modenese.

With a little help from my friends en plain air

Il menù With a little help from my friends si ispira alla musica e riprende il percorso proposto prima della chiusura, ma si arricchisce di nuove creazioni e di qualche classico rimaneggiato (come l’Aulla in carpione e Chicken Chicken Where Are You?): una degustazione studiata nei dettagli, con le giuste pause, proprio come in uno spartito musicale, dove colpisce per intensità Autumn in New York, una morbidissima anguilla arrosto abbinata al cetriolo e al caviale, mentre Strawberry Fields spiazza il palato col celeberrimo contrasto del risotto alle fragole, fresco e acido, amplificato dalla nota dolce del gambero rosso e dal sentore fumé dato dalla salsa di mozzarella.

Il merluzzo in salsa di curry è, invece, un viaggio vero e proprio nel Sud-Est Asiatico, fortemente evocativo, qui curry, cocco, basilico e coriandolo si alternano armonicamente senza oscurare l’eccezionale merluzzo. Ma nel percorso c’è anche spazio per l’opulenza di una zuppa di piselli e fave con lumache e royale di foie gras ricoperta da una millefoglie di Parmigiano Reggiano: un omaggio a Paul Bocuse a all’Emilia, come a farci presagire il menù che lo chef dedicherà, di qui a poco, ai grandi cuochi della sua vita.

Tra le portate dolci, ci limitiamo a dire che la nuova versione della Vignola rasenta semplicemente la perfezione col suo intenso gelato di amarene e l’eccelsa ciliegia di cioccolato.

Un’esperienza sublimata dal servizio e dalla sala, diretta da Beppe Palmieri, e composta da ragazzi con una genuina passione per l’accoglienza che si alternano ai tavoli con i giusti tempi, instaurando abilmente un rapporto empatico col commensale. Un’esperienza a tutto tondo per i cinque i sensi e per l’intelligenza emotiva che abita ciascuno di noi.

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