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Spazio Milano

Un grande ristorante travestito da bistrot

Spazio è l’antitesi del bistrot “griffato” dei cuochi stellati. Anzi, forse è più corretto qualificarlo come un grande ristorante travestito da “bistrot”. Contiene moltitudini partendo dalla triade ambiente-sala-cucina che si stagliano tutti su un livello di elevato standard qualitativo. Niko Romito ha lasciato spazio creativo alla bravissima Gaia Giordano, alla quale va il merito di aver plasmato una cucina affine allo stile del suo mentore, ma connotata di una propria personalità. Un microcosmo tanto riconoscibile quanto unico. Essenzialità e profondità gustativa restano il fil rouge di preparazioni in cui ogni ingrediente si percepisce con nitidezza al gusto ma, ancor prima, all’olfatto.

Condivisione vegetale

Pulizia di sapori, questa, che raggiunge l’apoteosi nel nuovo percorso di degustazione chiamato “Spazio in Condivisione“, attraverso il quale si esplora esclusivamente la cucina di Gaia Giordano qui “votata al vegetale”. È il menù che somiglia di più al pensiero di Romito, che parla del lavoro fatto nel corso degli anni, anche con la consapevolezza che possa risultare ostico per alcuni palati. Gli equilibri, dominanti sulle sapidità, sono retti da un’equazione gustativa in cui amaro dolce e acido si susseguono e si rincorrono ma sempre all’interno di un recinto gustativo armonico. Piatti come Indivia e arachidi, i Capellini, limone, zafferano, lo strepitosa Verza e mela o l’Assoluto di agrumi sono tra le migliori espressioni vegetali in cui ci siamo imbattuti quest’anno.

Non è una cucina per tutti, diciamolo, ma i rischi qui vengono assunti con consapevolezza e autorità, anche con il fine di trasmettere sapori più stimolanti rivolgendosi a una variegata clientela, locale e straniera. La proteina animale è ancora presente in carta dove, invece, sfilano piatti più rassicuranti ma dal medesimo costrutto tecnico e autoriale. Del resto l’ubicazione del ristorante aiuta, e tanto, anche a predisporre al meglio l’ospite, qui capace di approcciarsi a una cucina tutt’altro che turistica, benché a vista sulla Madonnina. La regia del servizio di sala è affidata, con rassicuranti risultati, al bravissimo Francesco Spina, uno della vecchia guardia del Reale.

IL PIATTO MIGLIORE: Verza e mela.

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Memoria lombarda

Questa ormai celebre insegna nel proscenio della ristorazione nazionale porta il soprannome di Don Giuseppe Gervasini, “el pret de Ratanà” e taumaturgo, che ebbe i suoi natali proprio nel quartiere “Isola” e che curava gli afflitti con l’impiego di erbe medicamentose coltivate nel suo brolo. Dal giorno del suo avvio, nel 2009, il Ratanà dimora al piano terra della sede della Fondazione Riccardo Catella, in un affascinante villa Liberty ove, all’ingresso, si palesa un mirabile bancone realizzato con il marmo del Duomo di Milano recuperato nell’atelier di un artigiano della città. Cesare Battisti, cuoco e anima di questo luogo, dal lontano 2009 persegue l’intento di fare conoscere e apprezzare la sua attività che di lì a poco diviene uno dei punti cardinali degli “ultras” di cucina tradizionale milanese che interpreta, in chiave contemporanea e tocco schietto, i piatti della memoria lombarda con il rigoroso impiego di selezionate materie prime di estrazione stagionale e coadiuvato in sala, dal 2012 a oggi, dalla sommelier Federica Fabi.

Un’osteria moderna

Iniziamo la nostra visita alla tavola di Cesare Battisti “senza pensarci troppo”- come in modo confacentemente suggerito sul menù – con dei classici Mondeghili serviti, in perfetto stile rustico, in un simpatico cono di carta paglia dal cuore umido e morbido connotati da un esotico zing di spezie, accompagnati da un’Insalata russa croccante e casereccia comme il faut, mentre lietamente si rivivifica al palato la raffinata e acidamente guizzante Trota di montagna marinata con finocchietto e arancia, crostini di pane nero e coleslaw. Assaporiamo i Culurgiones farciti di carne di ossobuco con accanto il suo osso e il suo midollo: piatto decisamente interessante per l’intento “fusion” dato da Battisti, che compenetra l’anima di Sardegna della pasta col cuore di ripieno di carne di matrice meneghina, nociuto però dalla impossibile fruizione del midollo in quanto forse non cotto a sufficienza per essere adeguatamente estratto dal suo involucro; segue l’Anguilla in tecia consistente in un filetto di anguilla laccato al balsamico e alloro, col pomodoro proposto in due versioni, sia ristretto sia arrosto, in un corretto esercizio stilistico permeato da contrasti, consistenze e acidità non troppo osée. Terminiamo il pasto con un’esaltante Pera e polline composto da una pera cotta speziata e il suo sorbetto, sbrisolona al polline, cremoso di yogurt e pralinato di nocciole il cui risultato esecutivo ha rasentato, semplicemente, la perfezione.

IL PIATTO MIGLIORE: Pera e polline.

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La tradizione kaiseki in un “ryokan” milanese

Satoshi Hazama sperimenta una cucina kaiseki delicata ed essenziale dove la tradizione nipponica dei piccoli assaggi incontra la qualità delle materie prime italiane. La formazione di Hazama parte da Yokohama, Giappone, passa per le Langhe e Firenze, e approda a Milano, da Sol Levante e Yoshinobu. Nel 2020 apre il suo locale nel cuore del “Tortona design district”, in cui atmosfera rilassante e cura dei dettagli sono parte inscindibile dell’esperienza, votata al culto dell’ospitalità: poltrone di design convivono con pareti bianche e tasselli in legno che ricordano i ryokan di Kyoto, mentre una mise en place elegante e una musica avvolgente accompagnano la degustazione. Nel pieno rispetto del rituale kaiseki, Hazama celebra la stagionalità della natura attraverso il goho, le cinque tecniche di cottura della cucina giapponese, alternando assaggi al vapore, crudi, lessati, fritti e alla griglia, che ci guidano alla scoperta della sua interpretazione dell’inverno.

Tecnica giapponese, materia prima italiana

L’avvio è aromatico con un antipasto di Mazzancolle scottate su cubo di daikon stufato in doppia cottura, dove la salsa di yuzu miso dà una spinta floreale al tutto. Nel Sashimi di verdure di stagione, tonno rosso, ombrina, cappasanta e gambero viola la freschezza marina delle eccellenti materie prime si fa esplosiva grazie alla foglia di shiso, ma è la maestria tecnica del taglio “l’ingrediente” che fa la differenza. Il simbolismo estetico di Hazama offre un’interpretazione poetica della stagione con una composizione di assaggi esaltati da dashi e marinature, impreziosita da una spruzzata di Fleur de Sal che celebra l’inverno simulando cristalli di ghiaccio: eccellono i Filetti di centrolofo viola alla griglia con scorzonera, la cui marinatura in miso bianco è la quintessenza dell’umami. Non sorprende, invece, il Riso cotto al vapore profumato con mirin e soia bianca con fritto di gamberesse e cavolo nero scottato, amalgamato in sala dallo Chef in “hagama”, antica pentola giapponese. Una Zuppa di miso rosso invecchiato in legno chiude il menù con una nota avvolgente, quasi un “sigillo” dell’inverno.

A pranzo si mangia alla carta, mentre si cena solo con menù kaiseki. Il servizio è curato e attento. La lista vini si limita a una ventina di etichette e una selezione di Sake.

IL PIATTO MIGLIORE: Filetto di centrolofo alla griglia marinato in miso bianco con scorzonera.

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La cucina ludico-rievocativa di Roberto Di Pinto

Roberto Di Pinto è un cuoco “anema e core“. Veste la sua cucina con i ricordi d’infanzia mettendo ingenti dosi di sincerità e generosità in ogni piatto. Con occhio ludico reinterpreta i sapori della tradizione campana rimodulandone il gusto con l’innesto di sfumature, a volte dolci, altre volte acide, in ogni caso contrastanti, a mitigare le sferzate sapide tipiche della cucina partenopea. Frutto, questo, di un bagaglio tecnico acquisito in Francia e in Italia che, con intelligenza e senza strafare, ostenta per dotare di maggiore complessità preparazioni contraddistinte da immediatezza gustativa. Elemento, questo, col quale Di Pinto si è guadagnato stima e affetto dal nutrito pubblico che gremisce i tavoli del suo Sine.

Un ristorante poliedrico con piatti dall’estetica curata

Un luogo certamente poliedrico in cui il cuoco anfitrione si prende qualche volta la briga di azzardare, sebbene emerga sempre, prepotentemente, l’urgenza di equilibrio che contraddistingue tutta la degustazione. Ci viene in mente il Carpaccio di pezzata rossa, burrata, gelato ai ricci di mare e olio al dragoncello in cui l’utilizzo barocco degli ingredienti, che fa temere al peggio, rivela il sorprendente equilibrio che accompagna ogni assaggio. Un piatto complesso e riuscito come il Risotto al latte di mandorla, caviale e caffè di verdure, giocato su note affumicate e acide in  contrasto alla principale componente grassa, e il Cuore con Rosa di Gorizia le cui nuances dolciastre dello yuzu sono tenute a bada da contrappunti amaricanti della pastinaca.

Nei passaggi più teatrali l’estetica a tratti prevale sul gusto come nel caso del Raviolo pizza margherita che all’olfatto rievoca il sentore del forno a legna ma al palato è più simile ad una pappa al pomodoro o come nella Scarpetta d’Oro, omaggio a Maradona, in cui non convincono a pieno le consistenze degli elementi che compongono il piatto. Oltre a due menù degustazione, a 90 e 110 euro (vini esclusi), c’è la possibilità di cenare allo Chef’s Table con un menu tailor made da concordare in base a un questionario inviato al commensale il giorno precedente alla visita. Un cadre di livello, suggellato da un servizio di sala professionale, una carta dei vini ben costruita che si focalizza sulla Campania e su etichette biodinamiche che si alternano a bottiglie importanti e arcinote, italiane e francesi.

IL PIATTO MIGLIORE: Carpaccio di Pezzata Rossa, cacao, burrata, olio al dragoncello e gelato ai ricci di mare.

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Nulla di rarefatto

In una tranquilla via in zona Navigli, a Milano, Nebbia è una rinomata seppur giovane insegna che indossa il nome del fenomeno meteorologico un tempo imprescindibile e intrinseco la vita di tutti i nostalgici meneghini; qui, felicemente a discapito dell’appellativo impiegato per identificare questo ristorante, la cucina, diretta dai due soci chef Federico Fiore (in curriculum varie collaborazioni tra cui con Cesare Battisti presso il Ratanà, Enrico Crippa al Duomo e Inaki Aizpitarte) e Mattia Grilli (militanze all’Armani, Ceresio 7, Rovello 18 e a Parigi, da Passerini), ha un orientamento molto nitido e concreto, per nulla rarefatto, che sa impiegare, con mano elegante e visus contemporaneo, materie prime peculiari, ma in genere meno valorizzate (vedi le tante frattaglie nel menù di Nebbia) che, negli antipasti, toccano il loro vertice espressivo.

Tecnica e sensibilità

Ruspanti e saporite le Merguez (salsicce di montone) servite con cavolo e salsa piccante di Habanero, etereo il Baccalà mantecato accostato a delle falde di peperone arrosto adagiate su una stuzzicante crema fumé, composta e “bon ton” la Ricciola in un abito esoticizzante di lime e coriandolo fresco seguite da iper talassiche Ostriche Déesse Blanche aromatizzate da una granita di cetriolo che amplifica la nota verde, umorosa e potentemente iodata dei molluschi e concludono le entrèe, gli ormai celebri e spumosi Fegatini su pan brioche e cipolle caramellate. Passando ai primi, purtroppo gli Spaghetti cime di rapa, cozze e bottarga sono stati danneggiati dall’eccessiva sapidità delle cozze esasperata, a sua volta, dall’impiego delle uova di muggine, mentre tra i secondi si distingue il Baccalà all’olio, purea di patate e funghi dall’accattivante nota “umami”, seguito di un soffio nella valutazione, dalle appetitose Seppie cotte con il loro nero, dadolata di seppie crude su una purée di cavolfiore e crostigliante cavolo nero “on top”, confluenti in un abile esercizio di consistenze, cotture e sapide intonazioni. Più materica la Trippa (dal taglio rustico) all’amatriciana, pecorino e menta; curiose invece le aggraziatamente sulfuree Kalette fritte: riuscita crasi botanica e lessicale tra cavoletti di Bruxelles combinati con il sapore del kale, cavolo nero.

Dulcis in fundo, il Semifreddo con mousse al caffè, di note espressione stilistica, conclude questa piacevole sosta allietata anche dal gentile operato di tutto il personale di sala. La carta dei vini di Nebbia è ristretta, ma lodevole per la scelta di etichette non scontate e per l’orientamento contemporaneo verso le produzioni naturali.

IL PIATTO MIGLIORE: Baccalà all’olio, purea di patate e funghi.

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