Elio Sironi da circa un anno è tornato a Milano e la cosa non è certo passata inosservata. Ci aveva abituato bene nelle cucine dell’hotel Bulgari della città e, dopo una breve parentesi sarda, ha preso in mano le redini del nuovo ristorante all’ultimo piano del quartier generale di Dsquared, in zona porta Volta.
Impossibile non parlare di questa spettacolare e unica location, più newyorkese nell’aspetto che milanese.
Complici il panorama, con la nuova skyline di grattacieli mai esistita prima, e le due scenografiche piscine esterne ai lati del ristorante, ti aspetti da un momento all’altro di vedere Carrie Bradshaw di Sex and the City spuntare da dietro l’angolo con un Cosmopolitan in mano.
Ambiente sofisticato, atmosfera Bobo-Chic e pubblico ultra modaiolo sono gli ingredienti che hanno permesso al Ceresio 7 di imporsi, a un anno dall’apertura, come uno dei locali più gettonati della città, totalizzando quasi sempre il tutto esaurito.
Milano si sa, come capitale indiscussa della moda, non è nuova ad aperture di questo tipo, ristoranti nati come spin-off delle case di moda che vedono in questo tipo di business non solo un luogo di prestigio e di rappresentanza dove accogliere i propri ospiti, ma anche la possibilità di reinvestire i grossi utili generati con il loro core business.
Purtroppo però questo genere di locali sono sempre stati (e lo sono ancora nella maggioranza dei casi) deludenti e carenti sia sulla qualità della materia prima che sulla cucina, per non parlare del servizio.
Invece, a un anno dall’apertura, possiamo affermare che il Ceresio 7 è riuscito senza dubbio a sfatare il mito che non si potesse avere un ristorante di questo taglio con una cucina di qualità e un servizio di un certo tono. Il merito è senza dubbio di Elio Sironi che, con un grande bagaglio di esperienza alle spalle, insieme ad uno staff giovane ma molto professionale, attraverso un lavoro encomiabile, è riuscito là dove quasi tutti hanno fallito.
La carta studiata dallo chef è divertente, mai sofisticata come del resto richiede la clientela di questo tipo di ristorante.
I prodotti sono di grande qualità, lavorati il minimo possibile. Niente di eccessivamente elaborato.
Qui si viene per cenare ma non solo; si può prendere un aperitivo ma anche venire per il dopo cena sicuri di trovare sempre la compagnia giusta. Una bella carta dei coctkail e dei vini completano il quadro che ovviamente non è a buon mercato ma nessuno dei clienti di questo ristorante si aspetterebbe il contrario.
La mise en place
Il pane e la foccaccia fatti in casa
Abbiamo deciso di iniziare con il grand buffet a tavola che cambia ogni giorno secondo la fantasia dello chef. Per noi: tartare di salmone, capperi e guacamole in sfoglia, crudo di tonno e carciofi, salicornia e bottarga di muggine, calamaro alla plancha e insalata cotta di porcini, centrolofo agli agrumi e puntarelle all’acciuga e culatello Spigaroli con melone. Chi ben comincia…
A seguire abbiamo provato le linguine all’astice peperoncino e zucchine in fiore
Di secondo il pesce sulla brace olio e fior di sale
Ai dolci ci saremmo aspettati qualcosa di più; noi abbiamo scelto Opera cioccolato e caffè.
E’ un dato di fatto che la cucina giapponese, come quella cinese e italiana, sia tra le più scopiazzate e stereotipate che si possano trovare al di fuori dei confini del paese d’origine. Ciò può essere imputabile alla difficoltà nel reperire, in luoghi remoti, le materie prime necessarie, o ad una questione prettamente nazional-culturale dei cuochi che la reinterpretano, o ancora al successo di espressioni fusion che meglio entrano nelle corde dei paesi di destinazione.
Fatto sta che più passa il tempo più fantomatici ibridi vengono via via maggiormente percepiti come “tradizionali” all’estero. A titolo d’esempio come dimenticare gli Spaghetti alla Bolognese, vero e proprio “must” della cucina italiana in giro per il mondo, ma inesistente in madrepatria.
Buona parte degli avventori occasionali arriva, paradossalmente, a inquadrare come “tradizionale” o “vera” una cucina che di tale ha solo il nome o addirittura a sentirsi presi in giro quando entrano in quei pochi locali che cercano di proporre piatti realizzati con criterio e aderenza alle origini.
La poliedrica Milano è senza dubbio la città italiana più sensibile alle mode: è infatti il luogo dove ormai da anni la moda del sushi è esplosa con più fragore e l’alta domanda ha certamente aiutato la diffusione di una proposta di bassa qualità. Cercando con il lanternino, però, anche a Milano è possibile scovare alcune espressioni davvero tradizionali di cucina giapponese, e quella di Fukurou è senza dubbio la migliore.
E’ sufficiente dare uno sguardo alla pagina Facebook del ristorante per comprendere che tutto quanto, qui, non è di vaga ispirazione nipponica ma bensì realmente del Sol Levante: a partire dallo Chef Ninomiya Yoshikazu (uno dei pochi in Italia, tra l’altro, ad ispirarsi ai principi Kaiseki), passando per tutto il personale di sala, fino ad arrivare alla proprietà, ovvero l’ex pilota di motociclismo Noriyuki Haga e sua la moglie Yurie. Da Fukurou non troverete folcloristiche riproduzioni italo-cinesi, ma un “vero” ristorante giapponese ed è facile rendersene conto appena varcata la tendina dell’ingresso.
C’è solo, onestamente, il Giappone: a cominciare dal tavolo e da tutto ciò che, in successione, vi arriva sopra, come l’estremo shiokara, calamari fermentatio o i gustosi yakitori, non solamente di pollo ma proposti in innumerevoli varianti, siano essi di carne, di pesce o di verdure, grigliati o fritti. Svariate le opportunità di scelta sulle zuppe, con Udon, Soba o Ramen, proposte sia tradizionalmente in brodo che nella versione più estiva asciutta (e fredda), tutte con pasta fatta rigorosamente a mano. Splendidi infine i Nigiri, dalle proporzioni pressoché perfette con in più, a cena, la possibilità di scegliere singolarmente la varietà dei pezzi desiderati.
Dopo ripetute visite la sensazione costante è che il tutto sia preparato con assoluto rigore e rara sensibilità, in maniera rispettosa e mai dozzinale: se Fukurou è, ad oggi, il miglior giapponese tradizionale di Milano, probabilmente è anche la massima espressione presente oggi in Italia. L’unico difetto tangibile è un servizio che, per quanto cordiale e volenteroso, va presto in affanno, dilatando non di poco i tempi di attesa.
Il voto è arrotondato per eccesso, ma vuol essere un encomio per la volontà di prendere completamente le distanze da quella diffusa realtà, da quel deprimente caledoscopio di locali finti giapponesi, che, con profonda tristezza, si arroga il diritto di rappresentare una delle più mirabili cucine del mondo.
Minimale la mise en Place, con tanto di oshibori confezionato.
Il benvenuto dalla cucina…
…e il benvenuto dalla sala.
Disponibile una carta dei vini con qualche referenza, una bella carta di Sake, alcune birre e del Tè. Noi optiamo per quest’ultimo, Tè secha.
Partenza nella maniera più radicale possibile, con gli shiokara, i calamari fermentati.
Eseguiti in maniera impeccabile i gyoza, con la pasta spessa e callosa al punto giusto, e dal ripieno deciso e ben presente.
Sfiziosissimi gli yakitori alla piastra, sia nella versione più tradizionale con pollo…
…sia in quella con asparagi o con calamari. Innumerevoli altre varianti disponibili in carta.
Davvero di alto livello i nigiri: pesce di grande qualità che abbraccia interamente il riso, cotto al punto giusto (forse leggermente freddo), e con la giusta quantità di wasabi, che dovrete far presente qualora non lo vogliate, e non il contrario.
Udon Yamakake: Udon freddo, con igname yamaimo grattugiato e tuorlo d’uovo crudo.
Hiyashi Chiuka: Ramen freddo, con salsa di pesto di sesamo e bergamotto.
Ramen miso: Ramen in brodo di ossa di maiale, miso e macinato di maiale.
Ramen shoyu: Ramen in brodo di ossa di maiale, polvere di pesce e salsa di soia.
Dessert anch’essi tradizionali, un po’ semplici ma sicuramente molto buoni.
Daifuku. Mochi ben eseguito.
Matcha pudding. Notevole la concentrazione, in pratica un budino di tannino.
A pranzo disponibili diversi menù, sia Teishoku che Jubako, a prezzi clamorosamente convenienti.
Teishoku Sushi (a 16€, con caffé), stessa notevole qualità del sushi, pezzi lievemente più piccoli che a cena, e con l’unico vincolo di non poter scegliere le varietà. Zuppa di miso, contorno e oshinko (verdure salate) in accompagnamento.
Teishoku Sashimi (sempre a 16€, sempre con caffé). Spicca l’impiatto di rara grazia. Stessi accompagnamenti del sushi, con riso al vapore in aggiunta.
Teishoku Tempura. Stesso prezzo dei precedenti, sempre in menù. Tempura dalla pastellatura un po’ spessa ma perfettamente fritta, asciuttissima e croccante, che ingloba l’ingrediente fritto e ne mantiene gli umori. Notevoli il peperone, il gambero e la consistenza del fungo.
Gualtiero Panciroli con la sua dolce compagna Cinzia Rossi. Legame professionale ma anche personale. Gualtiero oste, nel profondo della sua anima. Cinzia cuoca e precorritrice della fama di Rovello 18. Gualtiero, lo vedi e lo percepisci Oste, con la O maiuscola, ogni volta che ti racconta un vino, sua grande passione oltre che professione, o, quando ti ammalia spiegandoti la sua ultima scoperta: un ingrediente, un contorno, un abbinamento, un personaggio. Cinzia, la vedi e comprendi che organizza, supervisiona, controlla, con fare disinvolto ed a tratti amorevole, la cucina in particolar modo. Sempre entrambi con sincero sorriso. Non hanno scelto la strada facile. Una carta ed una proposta culinaria ampia, fatta di piatti freddi con ingredienti selezionati ma anche tante preparazioni calde, elaborate e composte ad arte dallo chef Michele De Liguoro, classe 1986, figlio di Cinzia.
La proposta enologica altrettanto ampia ma ad un tempo originale, fatta di ricerca e di scelte tutt’altro che banali. Proposta, a cui non è semplice senza la guida di Gualtiero, dare un senso ed un corretto abbinamento. Ma lui riesce ad indirizzare, ad incuriosire il cliente, quello più attento, aperto e scaltro ma anche quello meno curioso e più conservatore, offrendo contemporaneamente grandi stimoli sia dalla cucina che dalla cantina. Il risultato immaginato e sperato è presto detto: far uscire tutti felici da quell’angolo di Corso Garibaldi che sovente riserva poche soddisfazioni agli avventori dei millantati locali della zona. Oggi in via Tivoli, ieri in via Rovello 18 da quando (iniziò nel 2002) allietava i palati della city milanese di giorno per poi solleticare quelli della Milano bene all’imbrunire.
E, non dimentichiamolo, con un plus non da poco: aperto la domenica sera. Una “quasi” esclusiva sulla piazza milanese della buona cucina. Una trattoria con la T maiuscola, in cui ogni preparazione è pensata e curata con allegra e gaudente precisione. L’offerta terragna è certamente più accattivante, ma negli ultimi tempi, e durante le nostre ultime visite, abbiamo scorto anche una interessante evoluzione di qualità in quel fantastico salmone marinato e in quell’ottima insalata di baccalà. E poi la pasta, cotta e mantecata alla perfezione. I dolci, leggermente sottotono rispetto al resto delle proposte, li avremmo preferiti con uno spunto di maggiore originalità e cura.
Ma qui da Rovello 18, è sempre un gran piacere trascorrere qualche ora a spiluccare qualche fetta di prosciutto, accompagnata da un calice di strepitoso Champagne di piccoli vigneron: ti viene voglia di non alzarti mai da quella tavola, accudito e allietato da una sinfonia di profumi e sapori in una cornice di luminosa e schietta convivialità che solo qui troverete.
L’imponente cave du jour in mostra
Gli interni…
Elegante salmone marinato maison all’alga nori, alla barbabietola e vodka, al gin tonic e al whisky torbato. Sensazionali.
Prosciutto tagliato al coltello.
Insalata russa didascalica.
La polpetta di salsiccia di Bra con crostini.
Peperoni in salsa tonnata, fantastici.
Bacalao in insalata di ortaggi.
Cacio e pepe da antologia, con spaghetti di pasta fresca fatta in casa.
La mortadella Favola, del salumifico Palmieri.
Prosciutto d’Osvaldo, melone e fichi.
Costata di vacca vecchia Galiziana da urlo: la frollatura impeccabile dona una gustosità ed una morbidezza davvero insuperabili.
Patatine di casa.
Meringa alle fragole.
Ipercalorici e iperburrosi biscottini del Prost con zabaione: goduriosi.
Tarte au chocolat.
I fantastici abbinamenti della serata. Uno champagne delizioso e veramente molto interessante.
Lui, il grande Gravner, qui in una annata e una espressione da ricordare.
IL pinot noir…
I nostri golosi commensali non hanno saputo resistere…
Quando il senso di un locale è tutto nell’insegna, ossia de Tano Passami l’olio (e il lettore voglia passarlo come ablativo). In un colpo solo il solo nome del ristorante ci racconta di un luogo ad alto tasso di patroncentrismo, ad elevato coefficiente di ironia ed allo stesso tempo di un tempio in cui si officia il culto del più mediterraneo dei condimenti. Quando si varca la soglia, insomma, si può immaginare già molto di ciò che verrà nelle ore successive, e questo dato è importante, perché Tano Simonato dà l’idea di conoscere bene il mestiere dell’imprenditore. Anche quello dell’intrattenitore gli riesce naturale, ed è così che tra un “barlafùs” (non vergognatevi, o non milanesi, e cercatene una traduzione) ad un vecchio cliente ed una pacca sulla spalla al giovane avventore in cerca di sicurezze la serata, da Tano, passa in fretta e assai più allegramente di quanto l’ambiente, demodé e un poco claustrofobico, potrebbe lasciar dubitare al primo impatto. Abbiamo voluto cominciare dalla piacevolezza dell’esperienza complessiva perché ci sembra una chiave importante per leggere il successo di questo locale, molto amato da una clientela che anche se non frequenta solo ristoranti gourmet si concede qualche puntata sull’alta ristorazione. Come conseguenza di ciò è altissimo il tasso di fidelizzazione, tant’è che nella nostra più recente esperienza gli altri tavoli erano occupati quasi esclusivamente da clienti abituali, tutti in rapporti ormai confidenziali con lo chef e patron del locale.
C’è poi la cucina, e non nascondiamo come essa ci abbia lasciato non poche perplessità, un po’ a causa di piatti composti, secondo una logica che potremmo definire vissaniana, da un inusitato numero di elementi ma soprattutto per la dolcezza delle preparazioni. Il registro del dolce, che viene inserito fin dall’entrata per poi andare in crescendo, con ferrea coerenza, fino al dessert, riteniamo infatti favorisca poco sia la percezione dei singoli ingredienti sia un risultato complessivo ottimale. A fronte di questo dato di base è vero che le buone idee non mancano, e accade così che il carpaccio di filetto di vitello con scampi al limone, polvere vegetale ed erbe dia luogo ad un accostamento di notevolissimo impatto gustativo, che però viene a nostro modo di vedere mortificato dal pinzimonio in accompagnamento, in particolare dal finocchio caramellato già sperimentato in un altro piatto con gli stessi risultati. Come per l’annosa questione della carta dei vini, da sempre senza l’indicazione dell’annata, il carattere della cucina ci sembra tuttavia rispecchiare la personalità di uno chef che ha, con passione e dedizione, creato un locale che parlasse di lui e rispettiamo tale scelta, pur riservandoci il diritto di ritenere che i risultati nel piatto, a fronte di un conto che di dolce ha poco, potrebbero trarre giovamento da una maggiore ricerca di freschezza.
Entrata: crema tiepida di melanzane con basilico e spuma di yogurt, un po’ in difetto di concentrazione.
Tiramisù di seppia, mascarpone e patata. Un piatto di risultato complessivo tutto sommato gradevole, per quanto penalizzato dalla non modica parte grassa che va a detrimento della percezione dei singoli elementi, in particolare della tagliatella di seppia al centro.
Fuoricarta: baccalà e finocchi caramellati. Davvero tante le caramellature, glassature, laccature che fanno capolino nel menu.
Il piatto migliore: Carpaccio di filetto di vitello e scampi marinati al limone, erba cipollina e maggiorana con pinzimonio di verdure in mostarda. Come già detto, quest’ultimo elemento ci pare nuocere, più che giovare, alla riuscita della preparazione.
Il più vecchio dei piatti provati, targato 2007: uova di quaglia caramellate su mousse di tonno, bottarga di tonno e tonno crudo marinato alla menta.
Di forte impatto olfattivo, ma in ultima analisi un po’ stucchevole, il riso Carnaroli cotto in brodo vegetale e latte in crema di baccalà mantecato e farina di pomodoro con aria di pomodoro e profumo di limone.
Pescatrice marinata in barbabietola rossa all’aneto e zenzero con asparagi caramellati e purea di bietola. Lo chef spiega al cliente come questo piatto rifletta la volontà di privare la pescatrice del carattere di pesce per trasformarla in un tubero. Il senso dell’operazione, così come il risultato, ci è tuttavia sfuggito: il piatto meno riuscito della nostra cena.
Predessert con fragole e cardamomo, di corretta composizione.
Crème brûlée sdraiata, frutta e gelato al miele e olio extra vergine.
Dolcezze di chiusura.
Piccola degustazione d’olio di benvenuto. In seguito varie tipologie d’olio, tutte fra il buono e l’ottimo, andranno a guarnire le singole portate.
Non capita sempre, ma capita, che la grande squadra, privata improvvisamente del proprio centravanti di riferimento, il fuoriclasse (giustamente) riconosciuto, finisca per funzionare ugualmente, talvolta anche meglio, e continuare a vincere grazie all’organizzazione, ai più responsabilizzati giocatori rimasti e ad un allenatore di carisma ed esperienza. L’addio di Matteo Baronetto, che a fine 2013 ha lasciato la guida del Ristorante Cracco per andare a far rivivere nel piatto il Piemonte nobiliare nel capoluogo sabaudo, è stato assorbito da Carlo Cracco e dal suo staff, guidato da Luca Sacchi, con una notevole rapidità e quella che si può trovare ora in via Victor Hugo è di nuovo una cucina assai più interessante ed originale dell’ennesima metafora sportiva.
La sovresposizione mediatica del personaggio-Cracco ha, del resto, fatto passare in secondo piano quanto davvero l’audacia appartenga alla cucina dello chef vicentino e quanto in realtà egli sia uno degli chef meno didascalici dello Stivale, in perenne ricerca di nuove frontiere gustative. Anche a costo di attaccare con violenza al collo le certezze palatali consolidate con un piatto temerario come i Ricci di mare al Moscato d’Asti con capperi, creazione che mette al centro la “scorrettezza” del Moscato tiepido non dealcolato per estrarre dagli altri elementi le sfumature iodate, vegetali e minerali: una sberla che va, bisogna dirlo, ben oltre il segno della non gradevolezza ma lo fa con la piena coscienza di disegnare un colore nuovo.
In un menu degustazione in cui non mancano un paio di riferimenti alla storia del locale, ricorrono come in passato elementi di chiara derivazione nipponica e brillanti interpretazioni di quinto quarto ed elementi poveri. Accanto ad essi, però, nitidi segni di evoluzione, come in un piatto già rintracciato negli anni scorsi -salmone e foie gras- che viene arricchito di un ingrediente (il cuore di vitello) che sposta la freccetta gustativa ancora più in là nella direzione dell’ematico, oltre ad apportare una terza e fondamentale sfumatura di consistenze.
L’unica attuale pecca nel percorso di degustazione, al solito ampio, è una certa frammentarietà, una sensazione di scollatura che non rende completamente chiara la direzione di una cena che non va così oltre la successione di ottimi e ben eseguiti piatti.
Diverso il discorso invece per una sala che abbiamo trovato un po’ in difficoltà, con un paio di discussioni sotto l’occhio dei clienti, un eccessivo accavallarsi in ruoli e mansioni e anche, talvolta, con la lingua italiana, quasi il servizio fosse pensato più per la clientela internazionale che per quella locale (il che non ci sorprenderebbe, data la sproporzione fra l’una e l’altra).
Di certo però, e non era poi tanto scontato che fosse così, con la partenza dell’ottimo Baronetto, Milano non ha perso una delle proprie tavole più agguerrite: un buonissimo segno che fa sì che, grazie alle nuove aperture recenti e prossime, l’anno dell’Expò possa regalare un panorama gastronomico davvero interessante sotto la Madonnina.
Stuzzichini in accompagnamento all’aperitivo.
Un classico, sempre di grande effetto: Insalata russa caramellata.
Ricci di mare al Moscato d’Asti e capperi. Lacapagira.
Crema bruciata all’olio di vaniglia con garusoli di mare. Un altro deja vu di grande riuscita.
Cuore di vitello, salmone marinato e foie gras.
Fantastico lo stoccafisso in insalata con fegato di merluzzo, uva sultanina e basilico.
Uovo di gallina cotto al vapore, rabarbaro e asparagi bianchi al sale rosa.
Spaghetti d’uovo marinato, pomodorino e alici. Intermezzo gourmand più ridondante che continuativo rispetto alla precedente portata.
Il piatto migliore, di livello superbo per concezione ed esecuzione: risotto mantecato al miso, triglie e tè verde (e non dichiarato wasabi).
Piccione in chaudfroid (una preparazione che consiste nel creare una sorta di besciamella in cui il grasso è il fondo del piccione e che viene versata a freddo sul piccione caldo) con le sue acidità. Altro colpo da maestro su un tema ormai frusto.
Midollo alla piastra, fave, cioccolato e cipollotto: un pre-predessert.
Sgroppino orientale: limone, saké e shiso. Notevolissimo.
Cioccolato al latte, fagioli azuki e piselli. Non concentratissimo ma assai elegante.