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Palazzo Parigi

Avevamo lasciato Luigi Taglienti lì, ad operare in quella che, da quando aveva preso lui le redini della brigata, in breve tempo era divenuta la miglior tavola milanese, al primo piano di una delle piazze più centrali della città, piazza della Scala.
Un vero e proprio luna park per appassionati, una sala giochi gastronomica capace di sorprendere fin da subito e in grado di continuare a farlo, anche dopo l’ennesima visita.
Poi il fulmine a ciel sereno: un divorzio lampo, un comunicato stampa al vetriolo e, da un giorno all’altro, all’apice prestazionale della cucina, si è deciso di mettere fine a una delle poche certezze dei gourmet meneghini e non solo, sedotti e abbandonati.

Avevamo lasciato Palazzo Parigi lì, in corso di Porta Nuova, a due passi dal centro. Una delle aperture più chiacchierate del 2013, un lavoro pazzesco per la realizzazione di un imponente hotel, dalle dimensioni inusuali per una nuova realizzazione in questa zona, estremamente ambizioso nonché oltremodo lussuoso, che porta nel nome la città a cui si ispira.
Non solo “nome” però. Per la progettazione degli interni la proprietaria, l’architetto Paola Giambelli, si è rivolta ad un consulente di assoluto prestigio: Pierre Yves Rochon, famoso per aver firmato un buon numero di Four Seasons (tra cui il George V a Parigi e quello a Firenze) oltre a innumerevoli altri hotel di lusso, come il Peninsula di Shangai od il Savoy a Londra, ed il risultato di quest’opera milanese è indubbiamente allineato alle altre realizzazioni.

L’offerta ristorativa è chiaramente tarata sugli standard di un hotel 5 stelle lusso e comprende, oltre all’ovvio room service h24 ed al ristorante principale, un ampio bistrot interno, con tanto di veranda affacciata sul giardino di proprietà, ed un eccellente cocktail bar, ambedue adiacenti al ristorante e quindi anch’essi immersi nel medesimo lusso dell’hotel. Non delle costole quindi, ma, a tutti gli effetti, parti integranti della struttura, in grado di proporre costantemente qualità, da mattina a notte fonda.

Per quanto riguarda la punta di diamante dell’aspetto gastronomico non si è certo andati per il sottile: una splendida sala, dal tanto stridente quanto mirabile contrasto tra gli arredi moderni e le suppellettili classiche, con una sorta di altare protagonista in sala, proprio di fronte all’ingresso delle cucine, a disposizione dello chef per finiture “in diretta”, appena prima del servizio.
Ristorante fiore all’occhiello della struttura, non solo per la bellissima sala, ma soprattutto per le cucine: all’apertura si era molto parlato del ristorante principale di Palazzo Parigi, “Cracco a Palazzo”, per gli ovvi motivi legati alla popolarità dello chef chiamato a dirigere queste cucine. In realtà questa collaborazione non è mai decollata anzi, si è bruscamente interrotta a pochissimi mesi dal taglio del nastro.

Eccoci qui dunque, per un’apparente chiusura del cerchio: Luigi Taglienti a Palazzo Parigi.
Potranno due inaspettati divorzi formare un matrimonio d’amore? Ce lo siamo più volte chiesti e, dopo aver inanellato svariate visite, per quanto ci riguarda ad oggi, con l’introduzione della nuova carta ma soprattutto dei nuovi menù, la risposta è assolutamente positiva.

Quella che oggi è possibile trovare a Palazzo Parigi è una versione tra le più radicali di sempre della cucina di Taglienti. Da una parte la carta, rivolta principalmente alla clientela business dell’hotel ed alla frangia più moderata degli avventori, con proposte prestigiose, più classiche e pacate.

Poi un travolgente menù degustazione a mano libera, dissacrante ed estremo.
Una cucina dalle radici fortemente tradizionali ma che riesce ad essere al contempo estremamente moderna, fatta di tecnica ma soprattutto sempre costantemente di ingrediente, con una matrice puramente italiana, dall’influenza fortemente ligure, ma a respiro internazionale, che trae molte ispirazioni ed esperienze dalla vicina Francia, geograficamente e gastronomicamente da sempre legata alla lingua di terra compresa tra le Alpi ed il mar Ligure.
Una ricerca maniacale fatta in direzione della semplicità e della pulizia, che restituisce una essenzialità a tratti monastica del piatto, con portate create anche da un solo ingrediente, come “carciofo e carciofo”, ad esempio; piatti che stupiscono non per tecnica, presente ma per nulla dominante, piuttosto per le straordinarie concentrazioni, per gli equilibri inebrianti ma soprattutto per gli azzardati ma centratissimi -e mai casuali- squilibri.
Qui non si improvvisa, non si azzarda, si spinge sull’acceleratore fregandosene di appagare ma con la volontà di stupire, riuscendoci costantemente e presentando una lunga serie di piatti che, quasi come note all’interno di uno spartito, presi da soli non avrebbero forse particolare senso, ma nel percorso del menù degustazione acquisiscono una terza dimensione, andando a comporre una sinfonia inebriante e donando un senso al menù nella sua interezza, senza dubbio uno dei più interessanti e dinamici della scena italiana attuale.
Tecnica, tradizione e materia prima al servizio della creatività del cuoco, come una sorta di ideale unione tra i dettami della nouvelle cuisine nell’idea più pura del movimento originario, e le tendenze gastronomiche attuali, la cucina di sempre con le tecniche di oggi. Una semplice e brillantissima maniera per essere à la page, senza per questo essere modaioli, tutt’altro.

E’ semplicissimo, tutto qui. Ma in pochi, pochissimi riescono a trasformare un’idea tanto semplice in una cucina tanto compiuta e convincente.

Per gli “irriducibili del numeretto” il voto risulta approssimato per difetto, in attesa di constatare se la costanza e la stabilità che ci avevano colpito in piazza della Scala si sono trasferite a Palazzo assieme allo chef, e se continueranno a presentarsi in tavola anche nei vari menù che seguiranno il primo e che noi vi racconteremo: perchè anche Taglienti, come altri che scoprirete di volta in volta, fa parte del ristretto novero di chef che seguiremo costantemente nel 2015, rendendovi partecipi di ogni cambio menù, perché riteniamo che l’eccellenza meriti attenzione costante, più volte durante l’anno.

Piccolo benvenuto che arriva appena seduti a tavola: cialda di ceci e prezzemolo.

Per ingannare l’attesa, un eccellente pinzimonio.

Si parte, con il “solito” ottimo Acqua, olio, limone e liquirizia, in una versione ove prevale la liquirizia sul resto. Un fresco ed intelligente reset per il palato.

Bianco e Nero di seppia.
Il piatto più compiuto tra tutti, oramai vero e proprio signature dish di Taglienti: un battuto sottilissimo di seppia copre una panna cotta ai ricci di mare, finito con olio al peperoncino, nero di seppia e un croccante spaghetto soffiato. Piatto complesso, ghiotto, completo, più rotondo rispetto al resto del menù ma non per questo meno convincente e stimolante, anzi.

Insalata Croccante.
Un altro classico di Taglienti, le “cialdine stagionali”, questa volta in versione cialda di insalata, con gocce di agrumi, marcatamente acide. Divertente portata da affrontare con le mani.
croccante, Palazzo Parigi, Chef Luigi Taglienti, Milano
Carciofo e carciofo.
Modulazione di carciofo, in perfetto equilibrio tra la tannicità di cuore e gambo e l’aromaticità erbacea del brodo (di carciofo), servito tiepido per aiutare l’estrazione dei profumi. Materia all’ennesima potenza.
Carciofo, Palazzo Parigi, Chef Luigi Taglienti, Milano
Cardo e cardoncello.
La versione gastronomica del Bartezzaghi, ovvero come prendere due ingredienti e farli stare bene assieme, e non soltanto per l’assonanza linguistica. Lieve acidità per il cardoncello e marcata nota bruciata dalla cottura del cardo, che aiuta ed allunga a dismisura la persistenza del boccone. Claustrale nella concezione e nell’aspetto, molto meno nel risultato.

Ostrica verza e musetto.
Un boccone semplicissimo, dall’equilibrio ardito ed incredibile: molto amara la verza, estremamente sapido-iodata l’ostrica, rotondo e colloso il musetto. Tre ingredienti fortemente caratterizzanti, che insieme trovano un’armonia inaspettata: come fare altissima cucina partendo dall’idea… di una casseoula.
Un nostro autorevole commensale si è alzato ed è sparito a complimentarsi verso le cucine, esclamando “…venti ventesimi! …venti ventesimi!”. Piatto totale.

Fegato e ibisco.
Il piatto meno convincente del lotto, che a questi livelli significa comunque un piatto eccellente. Lodevole l’idea, un po’ meno compiuta la realizzazione, con l’estratto di ibisco che nonostante la notevole concentrazione non ha profondità a sufficienza, e svanisce prima di riuscire a contrastare la grassezza del foie.
fegato, ibisco, Palazzo Parigi, Chef Luigi Taglienti, Milano
Fusillo oro.
Un piatto simbolico, in grado di rappresentare quello che è questa cucina. Un “piatto di pasta” che in realtà tale non è: la portata ruota attorno al concentratissimo frutto della passione, dall’acidità verticale, che avvolge i fusilli e che li utilizza soltanto come texture, e che grazie a questi ultimi viene smorzata nell’intensità ma amplificata nella persistenza. Mentre si attenua l’acidità, emerge la nota sapida del caviale, allungando ulteriormente la persistenza. Stellare.
fusillo oro, Palazzo Parigi, Chef Luigi Taglienti, Milano
Spago champagne.
Altro eccezionale piatto di pasta, basato sulla notevole acidità dello champagne nella ricca mantecatura, che s’intreccia alla marcata aromaticità del tartufo nero e che utilizza la pasta come veicolo per trovare armonia in bocca.
spago champagne, Palazzo Parigi, Chef Luigi Taglienti, Milano
Gamberi e lenticchie
Concentrazioni, dicevamo?

Frattaglie in umido.
Un bignami di quinto quarto, un insieme di frattaglie rese ben più “vispe” da una compressa, dolce ed acida salsa di pomodoro.
frattaglie, Palazzo Parigi, Chef Luigi Taglienti, Milano
Piccione al caffè e cappuccino.
Altro piatto che gioca in un campionato altissimo. Un piccione di qualità sublime, anch’esso come la pasta relegato a sola base, in maniera forse un po’ irriverente ma coraggiosissima, per un piatto estremamente e volutamente sbilanciato verso l’amaro grazie alla marcata presenza del caffè, che diviene “cappuccino” sul finale grazie alla lieve attenuazione della panna.
Nota fortemente positiva l’idea di voler abbattere il cliché legato al lusso dell’ingrediente, quindi rendere protagonista il caffè e comprimario il piccione. Unico dubbio relativo al fatto di poter forse ottenere il medesimo risultato con un altro ingrediente, senza mortificare una splendida e preziosa materia prima. Al netto di ciò, un piatto sublime.
piccione al caffè, Palazzo Parigi, Chef Luigi Taglienti, Milano
Lepre royale.
La sesta inserita dopo aver portato a limitatore la quinta: il più classico dei classici, eseguito in maniera impeccabile, denota una grande padronanza ai fornelli ed un ossequioso rispetto del passato. Inserito in un menù del genere (dalla carta) è rigenerante e appagante quanto la fontanella gelata dopo una partita di basket, sotto il sole di luglio.
lepre royale, Palazzo Parigi, Chef Luigi Taglienti, Milano
Mandarino e cardamomo.
Un perfetto predessert: il mandarino acquista profondità grazie alla lieve gelificazione, ed il cardamomo dona una delicata aromaticità speziata, con l’olio d’oliva a fare da viscoso trait d’union.

Zucca e chinotto.
Ponte tra la Lombardia e la Liguria, un boccone dolce composto da amaretto, zucca e mostarda (di chinotto) che omaggia i tortelli di zucca, in versione dessert.
zucca e chinotto, Palazzo Parigi, Chef Luigi Taglienti, Milano
Babbà ai profumi di Liguria.
La metà di un piccolo panettone, imbevuto come fosse un babà. Una bonus track natalizia, per nulla scontata.
babà, Palazzo Parigi, Chef Luigi Taglienti, Milano
Piccola pasticceria: semplice, classica, di gran livello.
piccola pasticceria, Palazzo Parigi, Chef Luigi Taglienti, Milano
I vini che ci hanno accompagnato durante il lungo pranzo.
vini, Palazzo Parigi, Chef Luigi Taglienti, Milano
La sala, con il mastodontico piano a induzione protagonista in centro, proprio di fronte al tunnel in vetro che conduce alle cucine.
sala, Palazzo Parigi, Chef Luigi Taglienti, Milano
L’altra, splendida, metà della sala.
sala, Palazzo Parigi, Chef Luigi Taglienti, Milano
Parte del bistrot ed il bancone del cocktail bar, visti dalla sala del ristorante.
bancone, Palazzo Parigi, Chef Luigi Taglienti, Milano

Gli interni e un risotto.
Partiremo da qui per parlare del Manna, questa volta. E cominceremo tributando un giusto applauso a uno chef/imprenditore che, pur lavorando in una zona non indimenticabile della città, ha investito sul decòr in un momento economicamente privo di certezze. Il piccolo grande ristorante del quartiere Turro ha così dismesso quel disordine cromatico che lo caratterizzava per un costume dalle tinte meno carnascialesche, senza per ciò piombare in seriosi cliché. Toni di grigio e volumi più dinamici vanno così a comporre il look con cui la creatura di Matteo Fronduti si avvicina alla maturità.
Un risotto, poi, dicevamo. E che risotto! Perché Quasi Milano, in cui l’evidenza più netta di quel “quasi” risiede nel midollo crudo, si pone direttamente e senza passare dal via ai vertici della categoria, volteggiando in mirabile equilibrio fra opulenza gustativa e finezza esecutiva e restituendo allo stesso tempo quelle sensazioni profondamente autentiche che sono la vera ragion d’essere della rivisitazione di un classico con un beat d’oggi.
I tratti caratteristici del Manna per il resto si sono mantenuti sostanzialmente immutati. La carta delle vivande gioca con le parole (anche se il calembour involontariamente più azzeccato rimane l’indirizzo del locale, vero manifesto programmatico della politica nostrana) e con elementi generalmente tratti dal repertorio “basso”. La cucina si concede un’unica, e misurata, gita nei quartieri alti con un crudo di gamberi rossi utilizzato in un primo piatto, ma il resto del programma gastronomico è un tripudio di quinto quarto, pesce povero e umili vegetali, evidente frutto di una scelta programmatica e dell’importante esperienza vissuta da Matteo Fronduti a Cornaredo presso il D’O di Davide Oldani. E proprio dal mondo vegetale arriva quello che, fra i secondi piatti, si è rivelato il più convincente: Kunta kinte è una riuscita insalata di radici arrosto che, accostata a maionese di cavolfiore e senape, regala sensazioni intense fra piccante, amaro e terroso. Il resto del comparto principale invece si rivela leggermente inferiore alle attese create dagli antipasti e soprattutto dagli eccellenti primi, non consentendoci di sbilanciarci verso la valutazione superiore a quella fin qui assegnata, che consideriamo il limite a tendere di questa cucina (non dello chef, che a nostro modo di vedere potrebbe, con un progetto più ambizioso, permettersi obiettivi assai più prestigiosi).
Con sedici alternative equamente divise sui vari passaggi del pasto e quattro commensali al tavolo, e nessun percorso di degustazione previsto, l’occasione era troppo ghiotta. Ecco perciò TUTTA LA CARTA del Manna collezione Inverno 2014/2015:
Frico??? Uovo in camicia, patate e Montasio: un piatto ghiotto e assai ben bilanciato.
uovo in camicia, patate e montasio, Manna, Chef Matteo Fronduti, Milano
Libero e privo d’impedimenti. Sgombro, puntarelle e datteri, in lieve difetto d’acidità.
sgombro puntarelle e datteri, Manna, Chef Matteo Fronduti, Milano
Uè, testina! Bollito di testina di vitello, salsa verde e giardiniera. Davvero eccellente.
bollito di testina,Manna, Chef Matteo Fronduti, Milano
Grunt: Prosciutto di cinghiale maison con erbe amare invernali e mela verde.
grunt, prosciutto di cinghiale, Manna, Chef Matteo Fronduti, Milano
Basterebbe nulla a far diventare greve Esaù (Zuppa di lenticchie, cotechino e pane croccante). L’insieme è invece assemblato con classe e senso della misura, salvaguardando tanto il gusto quanto il desiderio di proseguire la cena con altre pietanze.
zuppa di lenticchie e cotechino, Manna, Chef Matteo Fronduti, Milano
Tutto fumo: spaghetti, cime di rapa e aringa affumicata resi personali con un tocco di rafano.
spaghetti cimii di rapa e aringa affumicata, Manna, Chef Matteo Fronduti, Milano
L’eccellente Quasi Milano.
risotto, quasi milano, Manna, Chef Matteo Fronduti, Milano
Contro il logorio della vita moderna: fusilloni, ragout crudo di gamberi rossi, carciofi, timo e lardo.
fusilloni ragout di crudo, Manna, Chef Matteo Fronduti, Milano
Riassunto di Cassoela: costine, verzino, crocchetta di piedino, muso, verze e cotenne. C’è tutto. Dell’originale mancano però l’insieme e un po’ d’umidità. E non è poco.
Cassoelua, Manna, Chef Matteo Fronduti, Milano
Uffa: guancia di manzo stufata al vino rosso, carote e cipolle. Didascalico ma piuttosto inespressivo.
Guancia di manzo stufata, Manna, Chef Matteo Fronduti, Milano
De sera e de matina: baccalà mantecato, polenta taragna e chutney d’arancia. Buono, ma l’impressione è di un antipasto rinforzato per secondo. Stiracchiato.
baccalà mantecato, Manna, Chef Matteo Fronduti, Milano
Il sorprendente Kunta kinte.
kunta kinte, Manna, Chef Matteo Fronduti, Milano
L’asticella torna su per i dolci. Si parte con il classicissimo Vai via dottore: tarte tatin con gelato alla vaniglia.
Tarte tatin con gelato alla vaniglia, Manna, Chef Matteo Fronduti, Milano
Nocciola più: Nocciola morbida e croccante, sorbetto di cacao e caffè. Ottimo.
Nocciola più, Manna, Chef Matteo Fronduti, Milano
Virgin colada: Ananas, lime e cocco, ovviamente assai rinfrescante.
virgin colada, Manna, Chef Matteo Fronduti, Milano
Merenda Hardcore VM18. Cioccolato, tabacco cubano, whiskey torbato e frollini. D’impatto piuttosto forte. Non per tutti, nemmeno se maggiorenni, ma sicuramente riuscito.
merenda, Manna, Chef Matteo Fronduti, Milano
Dettagli della nuova sala.
nuova sala, Manna, Chef Matteo Fronduti, Milano
sala, Manna, Chef Matteo Fronduti, Milano

Dopo Eugenio Boer, Brendan Becht: l’onda olandese sembra aver rotto dighe e indugi per abbattersi golosamente sulla Milano da mangiare. Se il primo, in realtà per metà italiano, è tornato di recente a far parlare di sé con il neonato Essenza, Becht è invece il volto dietro il bancone di Zazà Ramen. E’ questo un progetto che dimostra come, lavorando con intelligenza, si possa mantenere alta l’asticella della qualità (nella intenzioni e, quasi sempre, nel piat… pardon nella ciotola) pur strizzando non uno, ma ambo gli occhi, a mandorla o meno, alla modaiola clientela milanese. Da un lato l’insegna rimanda infatti al variopinto mondo dei cartoon, dall’altro la proprietà di Zazà si è dimostrata ben consapevole di come il Ramen, piatto che rappresenta come pochi altri la tradizione culinaria popolare nipponica, sia uno dei trend topic gastronomici odierni della social-metropoli meneghina.
Il locale dà modo di sedersi al bancone, anche solo per un cocktail o una birra, oppure a uno dei grandi tavoli in condivisione del piano terra o ancora a uno di quelli, più piccoli, del livello inferiore, anch’essi a forte rischio condivisione nelle frequenti e tourbillanti serate di pienone. Circa la proposta, l’insegna è chiara: questo non è un locale da cui attendersi una panoramica a 360° della gastronomia giapponese. Ramen, quindi, in due varianti di pasta (“00” o integrale), tre di brodo in crescendo di intensità e sette varianti di condimento, per un totale di quarantadue combinazioni possibili ad ogni cambio menu stagionale: una decina di piccoli antipasti e sei alternative per il dessert esauriscono le opportunità masticabili.
Non delude il Ramen, soprattutto nella folgorante versione con polpette di maiale e manzo alle sette foglie giapponesi: consistenza perfetta della pasta, ingredienti di qualità e brodo di gran gusto, concentrato e “gastronomico” (e come potrebbe essere diversamente con nomi come Marchesi, Senderens e Hermé a far capolino nel curriculum formativo di Becht?) che non risulta però eccessivo neppure nella versione più hardcore, lo Shoyu, che prevede l’aggiunta di katsuobushi e salsa di soia. Il resto delle portate fa riscontrare risultati meno continui, con discreti Yakitori gomito a gomito con Gyoza gommosi e insapori, davvero disastrosi. Segno positivo generale, invece, per il comparto dessert e per la proposta beverage, stringata ma anch’essa intelligentemente compilata.
Il servizio, giovane e assai volenteroso, si barcamena infine in modo più che accettabile malgrado l’imponente affluenza che qui rappresenta la norma.

In apertura: ramen pesce e frutti di mare con finocchio, finocchietto, pomodorini semi-essiccati e zeste d’arancia. Di seguito: l’ottima zucca “Uchiri Kuri” in carpione.
zucca, Zazà Ramen, Chef Brendan Becht, Milano
Edamame.
edamame, Zazà Ramen, Chef Brendan Becht, Milano
Yaki-Gyoza: qui davvero non ci siamo.
yak gyoza, Zazà Ramen, Chef Brendan Becht, Milano
Yakitori, invece, di buon impatto gustativo.
yakitori, Zazà Ramen, Chef Brendan Becht, Milano
Kakuni, senape giapponese e daikon.
kakuni, Zazà Ramen, Chef Brendan Becht, Milano
Davvero eccellente il ramen con sette ortaggi a foglia giapponesi e polpette di manzo e maiale. In questo caso brodo Shoyu
ramen, Zazà Ramen, Chef Brendan Becht, Milano
Buone ma più ordinarie le altre versioni provate: pollo, uova, friggitelli, taccole, fagiolini e brodo di carne aromatizzato all’alga kombu con pasta integrale;
ramen, Zazà Ramen, Chef Brendan Becht, Milano
Manzo, funghi, cipolla caramellata e menma con brodo di carne al miso.
ramen, manzo, Zazà Ramen, Chef Brendan Becht, Milano
Di discreto livello il simpatico “Monte Fuji-Monte Bianco”, ovviamente giocato sulla castagna.
monte fuji, Zazà Ramen, Chef Brendan Becht, Milano
Davvero ottimo il tiramisù al tè Matcha.
tiramisù al tè matcha, Zazà Ramen, Chef Brendan Becht, Milano
Pregevole lo spritz della casa, con Prosecco non meglio specificato, Umeshu, menta e arancia.
spritz della casa, Zazà Ramen, Chef Brendan Becht, Milano
Oltre a birre di fama più consolidata ecco spuntare dal menu le birre del birrificio artigianale Coedo. Questa è la Ruri, la loro Pils.
birre, coedo, Zazà Ramen, Chef Brendan Becht, Milano

La zona, molto trendy, è quella della ex area Varesine a Porta Nuova. L’edificio è uno dei “Diamantini”, progettati dallo studio Kohn Pedersen Fox, ed il ristorante si trova al piano terra con un gradevolissimo affaccio su un’area verde pedonale.
All’interno, dove predominano legno e acciaio, tutto si rivela estremamente curato fin nei minimi particolari, nel segno di una sobria e moderna eleganza. Bellissima la cucina che ospita anche un esclusivo tavolo per due. Folta la brigata con a capo il sous chef di sempre, il bravo Claudio Catino.
In sala tutto funziona alla perfezione grazie ad un gruppo di giovani ben rodati e molto preparati. Nessuna sbavatura, eccellente professionalità e, ciò che sempre conta, tempi di servizio perfetti.
Insomma, dopo il divorzio dal Trussardi e i successi (che tuttora continuano) di Pisacco e Dry, Andrea Berton ha fatto le cose in grande per la sua rentrée nella ristorazione che conta. Ha deciso di farlo con un locale che porta il suo nome e che sta registrando un grande successo sia a pranzo che a cena.
Noi ci siamo stati a pranzo, un martedì qualunque. Il locale è pieno, merito anche di una formula lunch particolarmente conveniente che con 45€ prevede un menu di 4 portate (che varia ogni giorno) e un calice di vino.
In cucina, il Berton della maturità. La sua cucina si conferma elegante, leggera, mai barocca.
Pochi ingredienti valorizzati al meglio, piatti lineari, immediatamente riconoscibili in grado di soddisfare i gourmet più esigenti così come i palati meno allenati. Un gran equilibrio tra estetica e centralità gustativa, con rimandi sia alla cucina classica (non solo italiana) che all’innovazione ponderata. Berton è uomo di cultura, gira il mondo e si impadronisce di tecniche e sapori rendendoli suoi e trasformandoli secondo il suo stile. Ma pur governando tecnica ineccepibile e ideazione originale, purtroppo abbiamo trovato un po’ carente la concentrazione gustativa. La cucina di Berton è fatta di sussurri lievi, a tratti più incisivi, ma mai ben assestati e decisi. Nelle nostre innumerevoli visite abbiamo trovato il menù dei brodi di una originalità e piacevolezza superiore al giudizio qui riportato, che però sconta anche i riscontri avuti sulla carta e sul menù più importante. Molti sussurri, ancora poche grida per consacrare questo cuoco e questa cucina al ruolo che, per capacità ed intelligenza, certamente merita.
Per giungere più nel concreto alla nostra esperienza, abbiamo trovato ottimo il piatto di Tortelli d’anatra con germogli di lenticchie, eccellente il Brodo di piccione, piccione con mais, uva fragola e pop-corn caramellati al lime ed altrettanto grande il Brodo di crostacei alle erbe con risotto con code di gamberi.
E proprio al Brodo, anzi, ai Brodi, è dedicato un intero menu degustazione di 8 portate che è, come dicevamo poc’anzi, assai interessante (i due piatti che abbiamo assaggiato erano davvero eccellenti, così come chi ha provato di noi il menù brodi ne è uscito entusiasta).
La carta dei vini, ampia ma non profondissima, contiene comunque tutto il bere di lusso possibile con adeguati ricarichi.
Ad un anno dall’apertura il nuovo ristorante Berton si conferma uno dei punti di riferimento della ristorazione milanese, capace di soddisfare tanto le attese di una clientela più business oriented quanto quelle dei gourmet più appassionati. Scommessa vinta!

Amuse Bouche, servito su sfoglia edibile al nero di seppia.
amuse bouche, Berton, Chef Andrea Berton, Milano
Canestrelli e liquirizia. Piatto buono, semplice, lineare e preciso, che riassume un po’ la cifra stilistica di Berton.
canestrelli e liquirizia, Berton, Chef Andrea Berton, Milano
Uova di seppia con crema di mozzarella, cime di rapa e olio al nero.
uova di seppia con crema di mozzarella, Berton, Chef Andrea Berton, Milano
Zucca, mandorle e latte di capra al rosmarino. Piatto costruito sulle nuances dolci, alle quali manca adeguato contrasto.
zucca mandorle e latte, Berton, Chef Andrea Berton, Milano
La Testina di vitello con verdure al limone si scioglie in bocca, quasi una preparazione al cucchiaio.
testina di vitello, Berton, Chef Andrea Berton, Milano
Tortelli d’anatra, germogli di lenticchie. Un inno alla golosità!
tortelli d'anatra, Berton, Chef Andrea Berton, Milano
Brodo di crostacei alle erbe con risotto con code di gamberi.
brodo di crostacei, Berton, Chef Andrea Berton, Milano
Brodo di piccione, piccione con mais, uva fragola e pop corn caramellati al lime.
Il piccione…
brodo di piccione, Berton, Chef Andrea Berton, Milano
…e Il fantastico brodo, da bere alla fine.
brodo, Berton, Chef Andrea Berton, Milano
I dessert raggiungono lo scopo di non appesantire, anche se ci sono sembrati stilisticamente un po’ simili:
Rabarbaro, yogurt e arachidi.
dessert, Berton, Chef Andrea Berton, Milano
Meringa, pane e gianduia.
meringa, Berton, Chef Andrea Berton, Milano

Per gli appassionati milanesi della pizza il 2014 si era aperto con l’annuncio delle imminenti aperture sulla piazza meneghina tanto di Franco Pepe quanto di Gino Sorbillo: un uno-due il cui solo pensiero aveva scatenato negli adepti della sacra triade lievito/pomodoro/mozzarella un sontuoso tripudio papillare.
Per chi si aspettava, legittimamente, che la Pizza a Milano non sarebbe più stata da subito la stessa, le cose non sono in seguito andate proprio secondo le aspettative, con il progetto del Maestro di Caiazzo arenatosi in questioni di distanza e costanza e quello del paladino di via dei Tribunali in forte ritardo sui rumours, che lo volevano aperto già nei primissimi mesi dell’anno.
L’attesa creatasi nel corso dei mesi è però infine terminata, e a metà ottobre Lievito Madre al Duomo ha aperto ufficialmente i battenti in Largo Corsia dei Servi, alle spalle di Piazza San Babila.
Il progetto promette un livello di qualità assoluto, con materie prime provenienti dai migliori distretti dello Stivale, un impasto realizzato manualmente da un Maestro come Gennaro Salvo e una produzione limitata a 400 esemplari quotidiani, 200 per ogni servizio, che garantisce l’artigianalità del prodotto e al tempo stesso strizza l’occhio alla clientela meneghina, sempre attenta all’”esclusività” di un bene.
E le promesse, dobbiamo dire, sono decisamente mantenute nel piatto, perché il livello della pizza è davvero ottimo: leggera, saporita, pregevole (ma per il momento con qualche saltuaria defaillance) nella cottura. Caratteristiche inattese sono l’olio, qui più ingrediente che condimento (ma non è certo un difetto quando, come in questo caso, è di ottima qualità) e il gusto dell’impasto, dato sorprendente quando si ha a che fare con pizze di scuola napoletana.
Ed è questo il dato più rilevante: quella di lievito madre è la pizza di un pizzaiolo napoletano ma non è una napoletana in senso stretto, e forse neppure leggermente più largo. Per chi abbia infatti provato a Napoli le pizze dell’universo Sorbillo, il riferimento sarà allora non tanto quella di Via dei Tribunali, perlomeno nei procedimenti estremamente ortodossa, quanto quella “rivoluzionaria” che Gino Sorbillo propone in Via Partenope: lievito naturale, quindi (le insegne d’altronde non lasciano adito a dubbi), farine biologiche ed integrali e disco di dimensioni notevoli ma meno strabordanti che nella sede storica.
La carta dovrebbe in teoria contare sette alternative di pizza, come per gli antipasti, i dolci e i vini. La tovaglia monouso che funge da menu in realtà recita quattro referenze in più e pare che a richiesta sia possibile provare la marinara (dettaglio che, ahinoi!, scopriremo solo alla cassa), per cui anche per i più difficili non sarà impossibile scegliere qualcosa di proprio gusto.
Al resto penseranno i tanti camerieri, ben coordinati in un servizio efficiente fin dalla “chiama” dei clienti in attesa fuori dal locale. La scelta della proprietà è stata, infatti, quella di mantenere il sistema, adottato già a Napoli, di non accettare prenotazioni, per cui una volta giunti si entra, si lascia il proprio nome e si spera che le pizze non finiscano prima del proprio turno. Nel nostro caso, arrivando intorno alle 13.30 di un giorno infrasettimanale, l’attesa è stata relativamente breve (circa un quarto d’ora) e resa ancor meno pesante dalla velocità con cui le pizze sono giunte in tavola una volta accomodatici all’interno. Un’importante informazione di servizio per il lettore è invece che, malgrado l’orario del locale preveda l’apertura fino alle 15, i clienti arrivati una mezz’ora prima della chiusura sono stati (molto gentilmente) rifiutati perché il limite dei 200 pezzi era stato raggiunto.

Pizza Calabrese, con Fiordilatte misto bufala, basilico e ‘Nduja di Spilinga.
Pizza Calabrese, Lievito Madre al Duomo, Gino Sorbillo, Milano
Cetara, con pomodorino fresco del Piennolo, olive nere e origano del Matese, capperi Lacrimelle, provola affumicata misto bufala e, ovviamente, alici.

Cetera, Lievito Madre al Duomo, Gino Sorbillo, Milano

Margherita “Libera” con S. Marzano, mozzarella proveniente dall’associazione “Terre Libere dalla Mafie di Don Peppe Diana”, Parmigiano Reggiano, olio bio e basilico.

Margherita, Lievito Madre al Duomo, Gino Sorbillo, Milano

Il babà, al solito di notevoli dimensioni, di Capparelli, storica insegna di Via dei Tribunali.

babà, Lievito Madre al Duomo, Gino Sorbillo, Milano

La pastiera di Scaturchio.

Scaturchio, Lievito Madre al Duomo, Gino Sorbillo, Milano

Lievito Madre al Duomo, Gino Sorbillo, Milano

Lievito Madre al Duomo, Gino Sorbillo, Milano