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Cracco

Talent show culinari, copertine sexy su riviste patinate, discusse pubblicità di patatine: non c’è dubbio che Carlo Cracco sia il cuoco del momento in Italia, volto noto ormai ad un pubblico ben più vasto di quello dei semplici gourmet o appassionati di alta cucina. E a noi, che siamo noti per coltivare quest’insana passione, tocca far fronte, mai come in questo momento, alle domande di amici e conoscenti: ma questo Cracco è davvero un grande cuoco o si tratta solo di un fenomeno mediatico? Ma se sta sempre in televisione chi cucina nel suo ristorante? E soprattutto la regina delle domande: come si mangia nel suo ristorante, vale la pena andarci?
E noi sgombriamo immediatamente il campo da ogni possibile equivoco spiegando che si, davvero Carlo Cracco è un grande cuoco.
Dal curriculum inappuntabile che racconta di tanta scuola francese, da Ducasse a Senderens, fino a Gualtiero Marchesi, con cui è stato sia da giovanissimo a Milano, che successivamente all’Albereta in Franciacorta. E poi la consacrazione con le tre stelle conquistate al timone dell’Enoteca Pinchiorri. Quindi c’è la storia più recente, che è tutta milanese nel ristorante “antiatomico” (nel senso che, per chi non lo sapesse, si sviluppa interamente sotto terra) di Via Victor Hugo prima insieme agli Stoppani di Peck poi dal 2007 da solo.
Alcune sue creazioni hanno contribuito a scrivere una parte della nuova grande cucina italiana. Fra tutte non possiamo non citare la pasta all’uovo senza farina, fatta di soli tuorli sottoposti ad una particolare marinatura. Quell’uovo che è da sempre il suo ingrediente feticcio, e alla cui “quadratura” Cracco ha anche dedicato un interessante libro.
Ma, tornando alle domande ricorrenti di cui dicevamo, come si mangia oggi al ristorante di Cracco? Domanda assolutamente non banale dal momento che è passato ormai un anno e mezzo dall’abbandono di Matteo Baronetto, che per tanti anni ha firmato il menu del ristorante insieme a Cracco. Oggi il talentuoso Baronetto è impegnato a far tornare agli antichi fasti Cambio a Torino (e ci sta riuscendo alla grande), mentre sous chef di Cracco è diventato il giovane Luca Sacchi.
Anche in questo caso sgombriamo rapidamente il capo da ogni dubbio. Bene, da Cracco si continua a mangiare molto bene. L’epoca post Baronetto inizia a consolidarsi con caratteristiche sue proprie, facendo salvo ovviamente l’imprinting e lo stile del patron.
Tra gli elementi di novità si può notare un sensibile incremento delle tonalità dolci ben rappresentato da un piatto come il Trancio di baccalà laccato, senape, miele, zucca affumicata e verza.
Quella radicalità nei gusti che è sempre stata un must di Cracco, ben rappresentata dalla sua passione per ingredienti difficili quali animelle e ricci di mare, oggi è meno presente (non vorremmo sbagliarci ma probabilmente è la prima volta che non troviamo i ricci di mare nel menu) in favore di una maggiore rotondità complessiva. Rotondità che si manifesta apertamente nel Risotto, nero di seppia, prezzemolo e curcuma, piatto esteticamente molto accattivante, perfettamente eseguito ma che dalla bocca scivola via troppo in fretta.
E si, è giusto che la critica non faccia sconti soprattutto ai cuochi grandi come Cracco. Perché solo un cuoco grande può concepire un piatto fantastico come i Ravioli al latte di capra, rapa, barbabietola e gamberi, splendido contrasto di mare e terra che al palato abbiamo davvero trovato emozionante. Se poi vogliamo capire come deve essere il dessert perfetto dopo un menu di 11 portate, beh il nostro voto va alla Crema di ricotta al sesamo e nero di seppia, mela Fuji e nocciola, altra zampata da fuoriclasse.
Un’ultima notazione vorremmo farla sul servizio. Nessun errore, ottima efficienza ma manca un po’ di comunicatività, di empatia. O, forse, più semplicemente in sala manca un fuoriclasse e un locale di questo livello probabilmente non potrà permettersi a lungo questa mancanza.

benvenuto, Cracco, Chef Carlo Cracco, Milano
benvenuto, Cracco, Chef Carlo Cracco, Milano
Insalata russa caramellata: un grande classico.
insalata russa, Cracco, Chef Carlo Cracco, Milano
Crudo di “Vicciola”, pappa di cavolfiori e caviale.
crudo di Vicciola, Cracco, Chef Carlo Cracco, Milano
Piatto ultragoloso: Crema cotta ai capperi, wasabi, mortadella e pistacchi.
crema cotta, Cracco, Chef Carlo Cracco, Milano
Cuore di vitello in insalata, porcini, broccolo fiolaro e nocino, piatto che regala una bella nota fresca al palato.
cuore di vitello in insalata, Cracco, Chef Carlo Cracco, Milano
Impegnativo il trancio di baccalà laccato, senape, miele, zucca affumicata e verza.
trancio di baccalà, Cracco, Chef Carlo Cracco, Milano
Andare da Cracco e non trovare l’uovo? Impossibile. Tuorlo d’uovo fritto, taleggio, vino rosso e brodo di manzo.
Tuorlo d'uovo fritto, Cracco, Chef Carlo Cracco, Milano
Ravioli al latte di capra, rapa, barbabietola e gamberi. Emozioni.
ravioli al latte di capra, Cracco, Chef Carlo Cracco, Milano
Risotto, nero di seppia, prezzemolo e curcuma. Il nero di seppia? Lo trovi solo mangiando.
risotto nero di seppia e prezzemolo, Cracco, Chef Carlo Cracco, Milano
risotto nero di seppia e prezzemolo, Cracco, Chef Carlo Cracco, Milano
Piccione arrosto, spinaci, scorzonera e bacche di Goji. Eccellente.
piccione arrosto, Cracco, Chef Carlo Cracco, Milano
Sorbetto all’ananas e basilico, cioccolato al biscotto e chiodi di garofano.
sorbetto all'ananas, Cracco, Chef Carlo Cracco, Milano
Crema di ricotta al sesamo e nero di seppia, mela Fuji e nocciola. Geniale. Amanti dei dessert barocchi e stucchevoli astenersi.
crema di ricotta, Cracco, Chef Carlo Cracco, Milano
Coccole finali.
coccole finali, Cracco, Chef Carlo Cracco, Milano

28 posti. Non un modo di dire, ma il numero le sedute del bistrot in zona Navigli capitanato da Marco Ambrosino. Semplicemente.

Un ambiente ospitale, in una delle zone più frequentate di Milano, stagione dopo stagione: in estate ne apprezzerete la luminosità e il piacevole dehor; in inverno la riservatezza, complice la nebbia e la posizione leggermente decentrata rispetto ai flussi principali. Un ristorante sobrio, dall’arredamento nordico, che richiama quel modo hygge ultimamente in voga e che pare suggerire “accomodati, mettiti a tuo agio e goditi il pasto”.
A scaldare l’ambiente, oltre a dettagli quali lampadari e oggetti che sembrano messi qua e là sbadatamente, il sorriso disponibile e la presenza discreta di Iris Romano. Se nella visita precedente la sala era parsa un po’ legata, ora è evidente una buona padronanza della scena accanto a una preparazione valida in tempistiche e abbinamenti vino/cibo. Hygge dicevamo: non esiste una traduzione precisa dal danese ma è uno stile che invita al relax e, nel nostro caso, a fidarsi completamente dello chef che deciderà le pietanze tra 5, 8 o 10 portate (per i meno fiduciosi nessun problema, c’è una piccola selezione alla carta).

Stile confermato anche nelle posizioni intercambiabili dei piatti, che vengono sdoganati dal classico ruolo di antipasto, primo o secondo e vengono suggeriti come “Prima o poi” in funzione di cosa dice l’istinto. Rimettersi allo chef è una buona idea, perché si intraprende un viaggio nel gusto che tocca prima la Danimarca delle fermentazioni (volo radente di Ambrosino in uno stage al Noma), poi sfiora il Sol Levante tra una salsa ponzu e una foglia di perilla cristallizzata, e si respira il calore del Mediterraneo nella Chiajozza, piatto omaggio all’isola di Procida che ha dato i natali allo chef.

Manteniamo invece, nuovamente, la riserva su alcune delle portate, che colpiscono ad un primo contatto risultando in realtà, purtroppo, carenti in personalità, concentrazione e gusto. Nonostante 28 posti sia, senza timore di smentita, un luogo di piacevolezza assoluta, questo leggero tentennamento ricorrente ci suggerisce cautela, confermando dunque la votazione precedente.
Siamo anche certi però che il reale valore dello chef e della sua cucina siano in costante mutazione e definizione, in attesa della perfetta messa a fuoco.

La mise en place: pulita ed essenziale.
28 Posti, chef Marco Ambrosino, Milano
Il Pendio, Brusato Rosè. La nostra scelta dopo il bel racconto di Iris sull’azienda produttrice.
vino, 28 Posti, chef Marco Ambrosino, Milano
Il colore meraviglioso di questo Chardonnay femminile ma di carattere.
28 Posti, chef Marco Ambrosino, Milano

Si inizia con il benvenuto: chips di fitoplancton. Leggermente unta ma davvero buona.
chips di fitoplancton, 28 Posti, chef Marco Ambrosino, Milano
Cicoria con miso e cipolla agrodolce. Un po’ più di condimento (o meno cicoria) avrebbe bilanciato il mix di sapori.
cicoria con miso, 28 Posti, chef Marco Ambrosino, Milano
Macaron alle acciughe.
macaron alle acciughe, 28 Posti, chef Marco Ambrosino, Milano
Indivia con salsa ponzu, finocchietto e menta.
indivia con salsa ponzu, 28 Posti, chef Marco Ambrosino, Milano
Pane lievitato al naturale, già diviso a spicchi e da rompere con le mani, accompagnato da burro e polvere di trombette dei morti. I lievitati sono di certo un bonus del 28 posti.
pane lievitato al naturale, 28 Posti, chef Marco Ambrosino, Milano
Rapa bianca, estratto di lattuga, lime e tartufo. Nonostante la freschezza del lime e il bel contrasto con il tartufo, la nota vegetale della lattuga risulta quasi assente quando, al contrario, sarebbe stato un bel profumo di cui godere.
rapa bianca, 28 Posti, chef Marco Ambrosino, Milano
Chiajozza. 10 minuti di applauso, step 1. 
Canocchie crude, cavolo cappuccio, gelato ai ricci di mare, carbone al nero di seppia in un trionfo iodato indimenticabile della perfetta rappresentazione dei mari del Sud.
Chiajozza, 28 Posti, chef Marco Ambrosino, Milano
Spaghetti con burro acido, tabacco e aringa affumicata. Corretti e ben bilanciati.
Spaghetti con burro acido e tabacco, 28 Posti, chef Marco Ambrosino, Milano
Agnello con salsa al fitoplancton, maionese di ostrica e cavolo di mare. 10 minuti di applausi, step 2.
Una cottura perfetta permetteva all’agnello e al suo grasso di sciogliersi al contatto con il palato. La parte marittima è rinfrescante e intrigante, in un matrimonio decisamente ben riuscito.
agnello con salsa al fitoplancton, 28 Posti, chef Marco Ambrosino, Milano
Sorbetto al basilico giapponese, alloro, olio, sale.
sorbetto al basilico giapponese, 28 Posti, chef Marco Ambrosino, Milano
Finocchio sciroppato, gel al sambuco, cremoso al cioccolato bianco e meringa al limone. Sublime saliscendi tra consistenze diverse, dolcezze e sapidità.
finocchio sciroppato, 28 Posti, chef Marco Ambrosino, Milano
Topinambur, kiwi essiccato, gelato al sorgo e perilla cristallizzata in un risultato incisivo, maschile, sexy.
topinambur, kiwi, 28 Posti, chef Marco Ambrosino, Milano

Milano. Navigli. Sabato sera. Pioggia. Di quella svagata, snervante nella sua petulante insistenza. Le luci degli innumerevoli locali, come in un bizzarro gioco di specchi, sembrano moltiplicare il brulicare d’ombre e ingigantire i capannelli fumanti. E così fra insegne, offerte di ombrelli di dubbia resistenza e certa provenienza e sfilate di hipster barbuti, si rischia quasi di mancarlo il discreto ingresso di 28 Posti, nuovo punto di riferimento per chi cerchi un bistrot moderno all’ombra della Madonnina.
Partito con una diversa guida in cucina e una politica di prezzi più ambiziosa dell’attuale, il locale ha vissuto inizi balbettanti. Chiusa la prima fase, il timone della cucina è stato successivamente affidato a Marco Ambrosino, trentenne partenopeo che, dopo aver già incuriosito più di qualche palato meneghino con le creazioni a base di pasta esibite da Buongusto, sta qui confermando quanto di buono abbiamo sentito dire su di lui nell’ultimo triennio.
Quella che Ambrosino propone al 28 posti è una cucina originale e stimolante, che si diverte utilizzando riferimenti eterogenei in uno stile colto ma privo di eccessi sovrastrutturali. Le origini napoletane, le esperienze nordiche (nel CV dello chef è citato con orgoglio uno stage al Noma) e non sporadici spunti nipponici si integrano infatti pienamente. In questa visione d’insieme, di sorprendente maturità espressiva, diventano così non solo plausibili, ma del tutto convincenti, scelte forti come quella di non tenere in carta, a Milano e in una stagione ancora fredda, neppure un risotto. E in tema di primi piatti è da segnalare la moderna e dinamica organizzazione di un menu che in essi vede il centro e in cui antipasti e secondi vengono segnalati come perfettamente intercambiabili. Tante volte ci siamo trovati a segnalare come un limite il contrario, ossia una rigida divisione di ruoli non supportata da una sufficiente differenziazione “timbrica”.
Tra le portate provate, un paio, davvero folgoranti, lasciano intravedere un futuro lucente per questo locale. Naturalmente non manca qualche aspetto migliorabile. Ad esempio abbiamo riscontrato in più di una portata la presenza di elementi di spiccata personalità che però vengono, nel piatto, smussati in modo eccessivo fino a far perdere di vista il contrasto.
A fianco della pregevole cucina (proposta, oltretutto, a prezzi da encomio) segnaliamo favorevolmente una carta dei vini che non offre tantissime alternative ma è un concentrato di non banalità, in cui ogni alternativa potrebbe rivelarsi assolutamente valida, mentre dal servizio ci attendiamo una crescita in direzione di una comunicazione più disinvolta con la clientela. Resta il fatto che questo è un locale per cui bisogna fare il tifo, perché il sospetto è che ci sia molto da attendersi da parte di Marco Ambrosino negli anni a venire.

Nota non strettamente gastronomica: lodevole la collaborazione, fin da prima dell’apertura del locale, con il penitenziario di Bollate. Grazie all’applicazione dell’articolo 21 o.p., ad alcuni dei detenuti (prossimi alla fine della pena o grazie alla buona condotta) è permesso lavorare nella brigata di cucina, così come alcuni hanno partecipato alla ristrutturazione del locale ed alla relizzazione di arredi e mobilio.

Divertimenti iniziali, fra cui spiccano il macaron alle acciughe e la maionese di ostriche in cui intingere le cialde.
benvenuto, maionese di ostriche, 28 Posti, Chef Marco Ambrosino, Milano
cialde da intingere, 28 Posti, Chef Marco Ambrosino, Milano
macaron di acciughe, 28 Posti, Chef Marco Ambrosino, Milano
Cipolla bruciata, alghe, fragoline di bosco fermentate. Promettente ma interlocutorio per difetto di concentrazione.
cipolle, 28 Posti, Chef Marco Ambrosino, Milano
Fantastico invece per movimento Sgombro, verza, bergamotto…
sgombro, verza, 28 Posti, Chef Marco Ambrosino, Milano
..con brodo di sgombro a completare.
brodo di sgombro, 28 Posti, Chef Marco Ambrosino, Milano
Spaghetti, calamari, cipollotto, menta, nocciole. Buono. Tecnicamente perfetto, anche se la menta resta un po’ sullo sfondo.
spaghetti ai calamari, 28 Posti, Chef Marco Ambrosino, Milano
“Pasta al ragú”: ravioli acqua e farina, ragù napoletano, latte di bufala, succo di alloro. Pregevole la pasta, che nasconde più consistenze grazie alla cresta fatta “a maccherone”, ma condimento che necessiterebbe di più mordente.
pasta al ragù, 28 Posti, Chef Marco Ambrosino, Milano
Il colpo da KO: Baccalà crudo e cotto, pere, cavolo nero, salsa al dragoncello. Piatto da tanti ventesimi. Ma tanti tanti, eh!
baccalà crudo, 28 Posti, Chef Marco Ambrosino, Milano
Più ordinario e “bistrottiero” il Capocollo di maiale con cime di rapa, prugne secche e saraca.
capocollo, 28 Posti, Chef Marco Ambrosino, Milano
Predessert, ottimo: Rabarbaro zucca e arachidi. L’aperitivo milanese.
predessert, 28 Posti, Chef Marco Ambrosino, Milano
Buono, davvero, il Finocchio con cioccolato bianco, sambuco e limone, aromatico e allo stesso tempo dessert che appaga gli amanti del dolce.
finocchio, 28 Posti, Chef Marco Ambrosino, Milano
Difficile, invece, comprendere la scelta di piazzare dopo il precedente, fra i piatti scelti da noi alla carta, l’ostico Latte, erbe, tuorlo candito, avena, piatto che non nasconde la natura dell’uovo ma anzi, la mette in evidenza con un quasi nullo dosaggio zuccherino, per un risultato complessivo non del tutto convincente.
latte, erbe e tuorlo candito, 28 Posti, Chef Marco Ambrosino, Milano
Piccola pasticceria.
piccola pasticceria, 28 Posti, Chef Marco Ambrosino, Milano

Il Salumaio di via Montenapoleone a Milano è una vera istituzione. Nato nel 1957, è molto di più di una salumeria o di un ristorante, è parte della storia non solo gastronomica di Milano. Ospitato a Palazzo Bagatti Valsecchi, uno dei più belli e affascinanti di via Montenapoleone, ove sorge un fantastico museo, che invitiamo a visitare.
Ristorante storico legato alla tradizione milanese, e non potrebbe che essere così, immutabile nel tempo.
L’apertura a Lugano invece, targata 2013, ha tutto un altro sapore. Innanzitutto per il luogo in cui è ubicato, Palazzo Botta, sede della Banca della Svizzera Italiana. Un palazzo costruito da un grande architetto elvetico, in cui la modernità misurata, quasi calvinista, che impera da queste parti, la fa da padrone. All’interno, al piano terreno, un ristorante molto ampio, luminoso e arredato finemente. In cucina arriva a gestire le redini di questo ambizioso e impegnativo progetto Mario Capitaneo, formatosi principalmente alla corte del grande Enrico Bartolini. E sin da subito si vede la sua impronta e la sua mano in un progetto, lo ripetiamo, che si pone traguardi decisamente ambiziosi.
Il servizio è impeccabile, sincronizzato perfettamente, a suo agio, gentile, educato e molto presente. I piatti arrivano come richiesto e nei tempi dettati dai clienti. La cucina ci è parsa invero leggermente altalenante. Interessanti le preparazioni iniziali, di assemblaggio. Con buone idee, senso del gusto e del ritmo. Molto meno bene la cucina cucinata, confusa e a tratti non particolarmente curata.
Gli impiatti e lo stile sono decisamente Bartoliniani, ed aggiungono bellezza ed un quid in più all’insieme.
Ma la formazione dominante di Mario, quella al fianco del fratello Remo al Devero, deputato al reparto pasticceria, tradisce nei contenuti di questa cucina tutta la sua storia.
Pensiamo che il luogo e la clientela Luganese certo non aiuti a far decollare questo ottimo ristorante e che le richieste vadano decisamente nella direzione della semplicità e della rotondità. Noi non contestiamo questo, ci permettiamo solo di rilevare che su alcuni abbinamenti (risotto) e su talune cotture e compendi (l’agnello) si possa e si debba fare di meglio.

Il pane, ottimo.
Il Salumaio di Montenapoleone, Chef Mario Capitaneo, Lugano
Piccolo benvenuto che arriva appena seduti a tavola: cialda di polenta.
benvenuto, Il Salumaio di Montenapoleone, Chef Mario Capitaneo, Lugano
Ostrica, burrata e gelato al tamarindo. L’ostrica, con alghe e crema di limone, è ottima ma viaggia per i fatti suoi, rispetto al resto del piatto.
ostrica burrata e gelato al tamarindo, Il Salumaio di Montenapoleone, Chef Mario Capitaneo, Lugano
Abbinamento decisamente centrato, finanche geniale. Forse l’impiatto meriterebbe di più.
Il Salumaio di Montenapoleone, Chef Mario Capitaneo, Lugano
Battuta di carne, gel di pere e senape. Secondo antipasto, anche questo di assemblaggio, decisamente buono ed interessante.
battuta di carne, Il Salumaio di Montenapoleone, Chef Mario Capitaneo, Lugano
Risotto aglio nero, cavolfiore e ricci di mare.
Buona la cottura del risotto, ma i ricci di mare, conservati e non freschi, hanno uno sgradevole ritorno ossidato in bocca. Rimandato!

Agnello, cipolla di tropea ripiena di se stessa, castagne in panure nera.
Agnello fibroso e non cotto alla perfezione, jus ottimo, l’abbinamento con le castagne rende l’insieme forse un po’ piatto e monocorde.
agnello cipolla, Il Salumaio di Montenapoleone, Chef Mario Capitaneo, Lugano
Dolce buono, zafferano e pere, in cui forse la nota della spezia prevarica il resto, rendendo anche qui la preparazione troppo lineare
dessert, zafferano, Il Salumaio di Montenapoleone, Chef Mario Capitaneo, Lugano
Macarons con il caffè…
macarons con il caffè, Il Salumaio di Montenapoleone, Chef Mario Capitaneo, Lugano
L’ingresso con uno scorcio di Palazzo Botta.
ingresso, Il Salumaio di Montenapoleone, Chef Mario Capitaneo, Lugano

Avevamo lasciato Luigi Taglienti lì, ad operare in quella che, da quando aveva preso lui le redini della brigata, in breve tempo era divenuta la miglior tavola milanese, al primo piano di una delle piazze più centrali della città, piazza della Scala.
Un vero e proprio luna park per appassionati, una sala giochi gastronomica capace di sorprendere fin da subito e in grado di continuare a farlo, anche dopo l’ennesima visita.
Poi il fulmine a ciel sereno: un divorzio lampo, un comunicato stampa al vetriolo e, da un giorno all’altro, all’apice prestazionale della cucina, si è deciso di mettere fine a una delle poche certezze dei gourmet meneghini e non solo, sedotti e abbandonati.

Avevamo lasciato Palazzo Parigi lì, in corso di Porta Nuova, a due passi dal centro. Una delle aperture più chiacchierate del 2013, un lavoro pazzesco per la realizzazione di un imponente hotel, dalle dimensioni inusuali per una nuova realizzazione in questa zona, estremamente ambizioso nonché oltremodo lussuoso, che porta nel nome la città a cui si ispira.
Non solo “nome” però. Per la progettazione degli interni la proprietaria, l’architetto Paola Giambelli, si è rivolta ad un consulente di assoluto prestigio: Pierre Yves Rochon, famoso per aver firmato un buon numero di Four Seasons (tra cui il George V a Parigi e quello a Firenze) oltre a innumerevoli altri hotel di lusso, come il Peninsula di Shangai od il Savoy a Londra, ed il risultato di quest’opera milanese è indubbiamente allineato alle altre realizzazioni.

L’offerta ristorativa è chiaramente tarata sugli standard di un hotel 5 stelle lusso e comprende, oltre all’ovvio room service h24 ed al ristorante principale, un ampio bistrot interno, con tanto di veranda affacciata sul giardino di proprietà, ed un eccellente cocktail bar, ambedue adiacenti al ristorante e quindi anch’essi immersi nel medesimo lusso dell’hotel. Non delle costole quindi, ma, a tutti gli effetti, parti integranti della struttura, in grado di proporre costantemente qualità, da mattina a notte fonda.

Per quanto riguarda la punta di diamante dell’aspetto gastronomico non si è certo andati per il sottile: una splendida sala, dal tanto stridente quanto mirabile contrasto tra gli arredi moderni e le suppellettili classiche, con una sorta di altare protagonista in sala, proprio di fronte all’ingresso delle cucine, a disposizione dello chef per finiture “in diretta”, appena prima del servizio.
Ristorante fiore all’occhiello della struttura, non solo per la bellissima sala, ma soprattutto per le cucine: all’apertura si era molto parlato del ristorante principale di Palazzo Parigi, “Cracco a Palazzo”, per gli ovvi motivi legati alla popolarità dello chef chiamato a dirigere queste cucine. In realtà questa collaborazione non è mai decollata anzi, si è bruscamente interrotta a pochissimi mesi dal taglio del nastro.

Eccoci qui dunque, per un’apparente chiusura del cerchio: Luigi Taglienti a Palazzo Parigi.
Potranno due inaspettati divorzi formare un matrimonio d’amore? Ce lo siamo più volte chiesti e, dopo aver inanellato svariate visite, per quanto ci riguarda ad oggi, con l’introduzione della nuova carta ma soprattutto dei nuovi menù, la risposta è assolutamente positiva.

Quella che oggi è possibile trovare a Palazzo Parigi è una versione tra le più radicali di sempre della cucina di Taglienti. Da una parte la carta, rivolta principalmente alla clientela business dell’hotel ed alla frangia più moderata degli avventori, con proposte prestigiose, più classiche e pacate.

Poi un travolgente menù degustazione a mano libera, dissacrante ed estremo.
Una cucina dalle radici fortemente tradizionali ma che riesce ad essere al contempo estremamente moderna, fatta di tecnica ma soprattutto sempre costantemente di ingrediente, con una matrice puramente italiana, dall’influenza fortemente ligure, ma a respiro internazionale, che trae molte ispirazioni ed esperienze dalla vicina Francia, geograficamente e gastronomicamente da sempre legata alla lingua di terra compresa tra le Alpi ed il mar Ligure.
Una ricerca maniacale fatta in direzione della semplicità e della pulizia, che restituisce una essenzialità a tratti monastica del piatto, con portate create anche da un solo ingrediente, come “carciofo e carciofo”, ad esempio; piatti che stupiscono non per tecnica, presente ma per nulla dominante, piuttosto per le straordinarie concentrazioni, per gli equilibri inebrianti ma soprattutto per gli azzardati ma centratissimi -e mai casuali- squilibri.
Qui non si improvvisa, non si azzarda, si spinge sull’acceleratore fregandosene di appagare ma con la volontà di stupire, riuscendoci costantemente e presentando una lunga serie di piatti che, quasi come note all’interno di uno spartito, presi da soli non avrebbero forse particolare senso, ma nel percorso del menù degustazione acquisiscono una terza dimensione, andando a comporre una sinfonia inebriante e donando un senso al menù nella sua interezza, senza dubbio uno dei più interessanti e dinamici della scena italiana attuale.
Tecnica, tradizione e materia prima al servizio della creatività del cuoco, come una sorta di ideale unione tra i dettami della nouvelle cuisine nell’idea più pura del movimento originario, e le tendenze gastronomiche attuali, la cucina di sempre con le tecniche di oggi. Una semplice e brillantissima maniera per essere à la page, senza per questo essere modaioli, tutt’altro.

E’ semplicissimo, tutto qui. Ma in pochi, pochissimi riescono a trasformare un’idea tanto semplice in una cucina tanto compiuta e convincente.

Per gli “irriducibili del numeretto” il voto risulta approssimato per difetto, in attesa di constatare se la costanza e la stabilità che ci avevano colpito in piazza della Scala si sono trasferite a Palazzo assieme allo chef, e se continueranno a presentarsi in tavola anche nei vari menù che seguiranno il primo e che noi vi racconteremo: perchè anche Taglienti, come altri che scoprirete di volta in volta, fa parte del ristretto novero di chef che seguiremo costantemente nel 2015, rendendovi partecipi di ogni cambio menù, perché riteniamo che l’eccellenza meriti attenzione costante, più volte durante l’anno.

Piccolo benvenuto che arriva appena seduti a tavola: cialda di ceci e prezzemolo.

Per ingannare l’attesa, un eccellente pinzimonio.

Si parte, con il “solito” ottimo Acqua, olio, limone e liquirizia, in una versione ove prevale la liquirizia sul resto. Un fresco ed intelligente reset per il palato.

Bianco e Nero di seppia.
Il piatto più compiuto tra tutti, oramai vero e proprio signature dish di Taglienti: un battuto sottilissimo di seppia copre una panna cotta ai ricci di mare, finito con olio al peperoncino, nero di seppia e un croccante spaghetto soffiato. Piatto complesso, ghiotto, completo, più rotondo rispetto al resto del menù ma non per questo meno convincente e stimolante, anzi.

Insalata Croccante.
Un altro classico di Taglienti, le “cialdine stagionali”, questa volta in versione cialda di insalata, con gocce di agrumi, marcatamente acide. Divertente portata da affrontare con le mani.
croccante, Palazzo Parigi, Chef Luigi Taglienti, Milano
Carciofo e carciofo.
Modulazione di carciofo, in perfetto equilibrio tra la tannicità di cuore e gambo e l’aromaticità erbacea del brodo (di carciofo), servito tiepido per aiutare l’estrazione dei profumi. Materia all’ennesima potenza.
Carciofo, Palazzo Parigi, Chef Luigi Taglienti, Milano
Cardo e cardoncello.
La versione gastronomica del Bartezzaghi, ovvero come prendere due ingredienti e farli stare bene assieme, e non soltanto per l’assonanza linguistica. Lieve acidità per il cardoncello e marcata nota bruciata dalla cottura del cardo, che aiuta ed allunga a dismisura la persistenza del boccone. Claustrale nella concezione e nell’aspetto, molto meno nel risultato.

Ostrica verza e musetto.
Un boccone semplicissimo, dall’equilibrio ardito ed incredibile: molto amara la verza, estremamente sapido-iodata l’ostrica, rotondo e colloso il musetto. Tre ingredienti fortemente caratterizzanti, che insieme trovano un’armonia inaspettata: come fare altissima cucina partendo dall’idea… di una casseoula.
Un nostro autorevole commensale si è alzato ed è sparito a complimentarsi verso le cucine, esclamando “…venti ventesimi! …venti ventesimi!”. Piatto totale.

Fegato e ibisco.
Il piatto meno convincente del lotto, che a questi livelli significa comunque un piatto eccellente. Lodevole l’idea, un po’ meno compiuta la realizzazione, con l’estratto di ibisco che nonostante la notevole concentrazione non ha profondità a sufficienza, e svanisce prima di riuscire a contrastare la grassezza del foie.
fegato, ibisco, Palazzo Parigi, Chef Luigi Taglienti, Milano
Fusillo oro.
Un piatto simbolico, in grado di rappresentare quello che è questa cucina. Un “piatto di pasta” che in realtà tale non è: la portata ruota attorno al concentratissimo frutto della passione, dall’acidità verticale, che avvolge i fusilli e che li utilizza soltanto come texture, e che grazie a questi ultimi viene smorzata nell’intensità ma amplificata nella persistenza. Mentre si attenua l’acidità, emerge la nota sapida del caviale, allungando ulteriormente la persistenza. Stellare.
fusillo oro, Palazzo Parigi, Chef Luigi Taglienti, Milano
Spago champagne.
Altro eccezionale piatto di pasta, basato sulla notevole acidità dello champagne nella ricca mantecatura, che s’intreccia alla marcata aromaticità del tartufo nero e che utilizza la pasta come veicolo per trovare armonia in bocca.
spago champagne, Palazzo Parigi, Chef Luigi Taglienti, Milano
Gamberi e lenticchie
Concentrazioni, dicevamo?

Frattaglie in umido.
Un bignami di quinto quarto, un insieme di frattaglie rese ben più “vispe” da una compressa, dolce ed acida salsa di pomodoro.
frattaglie, Palazzo Parigi, Chef Luigi Taglienti, Milano
Piccione al caffè e cappuccino.
Altro piatto che gioca in un campionato altissimo. Un piccione di qualità sublime, anch’esso come la pasta relegato a sola base, in maniera forse un po’ irriverente ma coraggiosissima, per un piatto estremamente e volutamente sbilanciato verso l’amaro grazie alla marcata presenza del caffè, che diviene “cappuccino” sul finale grazie alla lieve attenuazione della panna.
Nota fortemente positiva l’idea di voler abbattere il cliché legato al lusso dell’ingrediente, quindi rendere protagonista il caffè e comprimario il piccione. Unico dubbio relativo al fatto di poter forse ottenere il medesimo risultato con un altro ingrediente, senza mortificare una splendida e preziosa materia prima. Al netto di ciò, un piatto sublime.
piccione al caffè, Palazzo Parigi, Chef Luigi Taglienti, Milano
Lepre royale.
La sesta inserita dopo aver portato a limitatore la quinta: il più classico dei classici, eseguito in maniera impeccabile, denota una grande padronanza ai fornelli ed un ossequioso rispetto del passato. Inserito in un menù del genere (dalla carta) è rigenerante e appagante quanto la fontanella gelata dopo una partita di basket, sotto il sole di luglio.
lepre royale, Palazzo Parigi, Chef Luigi Taglienti, Milano
Mandarino e cardamomo.
Un perfetto predessert: il mandarino acquista profondità grazie alla lieve gelificazione, ed il cardamomo dona una delicata aromaticità speziata, con l’olio d’oliva a fare da viscoso trait d’union.

Zucca e chinotto.
Ponte tra la Lombardia e la Liguria, un boccone dolce composto da amaretto, zucca e mostarda (di chinotto) che omaggia i tortelli di zucca, in versione dessert.
zucca e chinotto, Palazzo Parigi, Chef Luigi Taglienti, Milano
Babbà ai profumi di Liguria.
La metà di un piccolo panettone, imbevuto come fosse un babà. Una bonus track natalizia, per nulla scontata.
babà, Palazzo Parigi, Chef Luigi Taglienti, Milano
Piccola pasticceria: semplice, classica, di gran livello.
piccola pasticceria, Palazzo Parigi, Chef Luigi Taglienti, Milano
I vini che ci hanno accompagnato durante il lungo pranzo.
vini, Palazzo Parigi, Chef Luigi Taglienti, Milano
La sala, con il mastodontico piano a induzione protagonista in centro, proprio di fronte al tunnel in vetro che conduce alle cucine.
sala, Palazzo Parigi, Chef Luigi Taglienti, Milano
L’altra, splendida, metà della sala.
sala, Palazzo Parigi, Chef Luigi Taglienti, Milano
Parte del bistrot ed il bancone del cocktail bar, visti dalla sala del ristorante.
bancone, Palazzo Parigi, Chef Luigi Taglienti, Milano