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Tokuyoshi

Nuove sfide.
Le uniche in grado di spazzar via la monotonia e scrollare di dosso la polvere della stabilità, della sicurezza, della routine.
Lo straordinario che diviene il nuovo, non in quanto favoloso bensì inteso come non-ordinario, in senso letterale.
Rimettersi in gioco: aria nuova, nuovi confronti, scommesse azzardate.
Arrampicarsi faticosamente in cima e, una volta raggiunta la vetta, spazzare via tutto per ricominciare, per tentare di tornare ancora più in alto.

Che sia una forma di lucida follia? Può darsi, certamente ci vuole un briciolo di irrazionalità e, comunque, tanto coraggio. Un vero e proprio sport estremo, nascosto nelle pieghe dell’ordinario.

Yoji Tokuyoshi in cima ci è arrivato, passo dopo passo, a piccoli passi. Nove anni trascorsi tra routine, perfezionismo, ripetitività e testardaggine. Un lavoro come tanti il suo, non fatto come tanti ma meglio di tutti, fianco a fianco dello chef del momento. Per questo, una delle posizioni probabilmente più invidiate nel settore: secondo di Massimo Bottura in Osteria Francescana. Colui che, in assenza del leader Maximo, dirige le cucine di uno tra i migliori ristoranti sull’ecumene terrestre, il ristorante che ha riscritto le pagine della gastronomia italiana degli ultimi anni. Anni di fatiche, certo, di sforzi, di sudore, vissuti non da stagista capitato nel periodo fortunato ma da asse portante, da ruota sterzante del carro.
Fatiche ripagate da un vero e proprio trionfo unanime di critica, pubblico e parere di colleghi.

Poi un bel giorno ti svegli e, come un fulmine a ciel sereno, decidi che non è più tempo.
Basta così.

Nonostante l’altissimo livello, forse la vita da “secondo” inizia a stare stretta. Cancellato tutto, si ricomincia da zero. Un nuovo ristorante, dove metterci la faccia, il nome, e assumersi la totalità degli oneri, dei fardelli che una scelta del genere porta con sé, con benefici, certo, ma soprattutto con rischi, talvolta, anche altissimi.

Tokuyoshi, Chef Yoji Tokuyoshi, Milano

Ma del resto, “chi lascia la strada vecchia per la nuova…”
Un adagio popolare, che mal si addice alla straordinarietà tuttavia, in questo come in molti altri casi, serba un pizzico di verità.
Nove anni in un team d’elite, ai comandi di una macchina vincente, forgiano una mentalità indiscutibilmente vincente e un approccio, forse, di beata sicumera. Ma, dura lex valida per tutti i campioni, è necessario che la totalità dei tasselli siano al posto giusto per continuare a primeggiare, ed è per questo che questo nuovo attore della cucina contemporanea italiana, a tratti, sembra vacillare.

In via San Calocero, a Milano, risiede oggi indubbiamente un campione, che non riesce però ad esprimersi come tale in quanto le condizioni per farlo, ancora, non ci sono.

È per questo che la cucina di Tokuyoshi è, tuttora, un continuo e inesorabile richiamo alla Francescana, una continua e indefinita citazione sul filo che separa la forma mentis dal plagio; e infatti, se molte delle piccole idee, come germogli, a Modena trovavano terreno fertile per divenire grandissimi piatti, a Milano rimangono in stato embrionale, soffocati dalla carenza di terra e acqua.
Un continuo toboga in bilico tra sottocoppia e fuorigiri, con piatti che giungono in tavola portando in dote temperature incorrette, carenze di contrasti, deficit di concentrazioni o ridondanze evidenti intervallati ad altri nettamente più risolti e compiuti, che mostrano chiaro e limpido l’ingombrante background di colui che li ha pensati ed eseguiti.

Come un germoglio in stato di sofferenza, Yoji sembra risentire della mancanza di un team affiatato, in grado di affermarsi come tale durante tutta la sintassi del pasto, in tutti quei passaggi che dividono l’idea dal piatto perfetto: è per questo che, al momento, questa tavola fatica a trovare -e a mantenere- tanto la  rotta quanto la velocità di crociera.

Può un grande Secondo diventare un grande Chef? Certamente, a patto però che si ripristinino tutte le condizioni di partenza, perché il solo background rischia di restare una fondamenta priva di sostanza.
Come un pregiato tondino d’acciaio, che rimane tale senza la presenza degli indispensabili acqua e sabbia necessari per divenire cemento armato.

Gli Appetizer, che seguono la scelta del menù.
Nel nostro caso quello più ampio (chiamato “Sensazioni”, con un evidente richiamo al suo maestro), che negli otto mesi dall’apertura ad oggi è già stato ritoccato verso l’alto nel prezzo, da 80 a 100 Euro.

Appetizer, Tokuyoshi, Chef Yoji Tokuyoshi, Milano
“Bruschetta di canocchie”.
Piatto essenziale, che risente della non rilevante qualità della canocchia. Decisamente migliore il brodo di crostacei in accompagnamento, concentrato e carico di umami, da bere in chiusura.
bruschetta di canocchie, Tokuyoshi, Chef Yoji Tokuyoshi, Milano
La prima bottiglia, per iniziare.
champagne, Tokuyoshi, Chef Yoji Tokuyoshi, Milano
“Cannolicchi nel porro”.
Piatto goloso, che però trova a fatica un punto d’incontro tra la natura filamentosa del porro e quella gommosa del cannolicchio. Nemmeno la concentrata salsa di caciucco, versata a finire il piatto, riesce a creare una doverosa amalgama.
cannolicchi nel porro, Tokuyoshi, Chef Yoji Tokuyoshi, Milano
cannolicchi nel porro, Tokuyoshi, Chef Yoji Tokuyoshi, Milano
“Sarde bruciate non bruciate”
Pregevole la presentazione (nonostante “l’ispirazione” evidente, tanto nello stile quanto nel nome), che utilizza la tecnica Gyotaku per la stampa della testa del pesce sul piatto. Peccato che il riscontro al palato sia alquanto basilare, ovvero poco altro che un filetto di pesce, nulla più nulla meno.
sare bruciate, Tokuyoshi, Chef Yoji Tokuyoshi, Milano
“Scampi a merenda”.
Uno scampo, tagliato longitudinalmente e unto con dell’olio siciliano, farcito con del mascarpone all’interno del carapace. Vista l’esiguità e la difficoltà di estrazione del formaggio, all’atto pratico uno scampo all’olio. Evidente inoltre l’eccesso di grassezze e la carenza di contrasti.
scampi, Tokuyoshi, Chef Yoji Tokuyoshi, Milano
Il secondo vino, scelto come sostituto ad un altro presente in carta ma non in cantina.
vino, Tokuyoshi, Chef Yoji Tokuyoshi, Milano
“Lumache & Anguille nella vigna”
Ci risiamo: ispirazione evidente oltre ogni spiegazione, tanto nel nome quanto nell’impiatto, purtroppo non nel risultato finale. Fungo, anguilla, lumaca, salsa, foglie, lardo di Colonnata: oltre alla ridondanza, ogni ingrediente prende una strada differente dagli altri, senza mai raggiungere una fusione auspicabile.
lumache, anguilla, Tokuyoshi, Chef Yoji Tokuyoshi, Milano
“Risotto alla milanese sempre croccante”
Altro giro, altra… ispirazione: piatto molto, molto simile ad uno del 2011 già provato a Modena. In ogni caso, qua il passo cambia, la portata si rivela piacevole, golosa e divertente.
risotto alla milanese, Tokuyoshi, Chef Yoji Tokuyoshi, Milano
Riso all’olio con pelle di pomodoro.
Altro piatto ben riuscito, rivolto prettamente verso le note dolci ma equilibrato e piacevole. Cottura magistrale del riso e ottima mantecatura.
riso all'olio, Tokuyoshi, Chef Yoji Tokuyoshi, Milano
Il terzo vino, scelto come sostituto ad un altro presente in carta ma non in cantina (no, non è un maldestro copia-incolla non corretto dal vino precedente).
vino frappato, Tokuyoshi, Chef Yoji Tokuyoshi, Milano
“Piccione”.
Il piatto della serata: davvero eccellente, con il piacevolissimo contrasto tra lo jus e la nota pungente-piccante del rafano.
Praticamente inutile invece il dolce bicchierino di succo di pomodoro, servito a parte, in quanto non complementare al piatto.
piccione, Tokuyoshi, Chef Yoji Tokuyoshi, Milano
Tokuyoshi, Chef Yoji Tokuyoshi, Milano
Il predessert: meringa, erba fungo, zafferano.
predessert, Tokuyoshi, Chef Yoji Tokuyoshi, Milano
Il dessert, “Cemento e Terra”.
Dolce molto, molto buono, dallo stile moderno ma gradevole e sostanzioso. Meringa al carbone vegetale, gelato al topinambur, mascarpone, crumble salato al cacao.
dessert, Tokuyoshi, Chef Yoji Tokuyoshi, Milano
Il bancone ereditato da Wicky’s, il predecessore. Chiedete espressamente di volervici sedere all’atto della prenotazione, se gradite.
banco, Tokuyoshi, Chef Yoji Tokuyoshi, Milano
banco, Tokuyoshi, Chef Yoji Tokuyoshi, Milano
Curiosi dettagli all’ingresso.
dettagli, Tokuyoshi, Chef Yoji Tokuyoshi, Milano

Abbiamo atteso un ragionevole lasso di tempo prima di venire a trovare Viviana Varese qui, nella sua nuova sede al terzo piano di Eataly Smeraldo, consci degli sconvolgimenti che un trasloco del genere può comportare.
Una location davvero d’effetto, un grande salto rispetto alla minuscola vetrina affacciata in via Adige, sede storica da dove è partita la favola di Alice.
Alice che ora sembra proprio essere approdata nel paese delle meraviglie, qui all’interno dello store più chiacchierato in città, sicuramente luogo di perdizione per tutti i foodies, milanesi e non.

Nonostante l’ingresso avvenga attraverso il negozio, i due ambienti rimangono totalmente separati. Una volta varcata la porta che li divide, ci si accorge subito che dal punto di vista progettuale proprio nulla è stato lasciato al caso. Splendida la cucina, affacciata maestosamente sulla sala che, grazie all’intera facciata a vetri, a pranzo gode di un’eccezionale luminosità. Notevole anche l’arredamento del locale, così come l’allestimento dei tavoli e l’imponente social-table al centro, senza dimenticare la magnifica vista su piazza XXV aprile, da poco restaurata. Non ultimo la bella cantina a vista, completamente rinnovata e arricchita rispetto al passato.

Aumentando le ambizioni, anche il personale è ovviamente cresciuto nel numero, tanto in cucina quanto in sala, ove fin dai primi momenti si nota un servizio dal livello sensibilmente migliorato.
Per quanto concerne invece la cucina, la Chef ha da sempre la fortuna di disporre di una materia prima di alta qualità, selezionata dall’abile Sandra che, negli anni, è sempre riuscita a mantenere standard elevati. Materia elaborata poi dalla Varese e dal suo imprinting caratteristico, sempre presente in tutti i suoi piatti. Nel tempo ha saputo parametrare e dosare al meglio i gusti e le sapidità degli stessi, riuscendo a trovare un equilibrio più che accettabile. Ulteriore caratteristica della cucina della Chef è l’aspetto cromatico, protagonista assoluto di tutto il menù di Alice: il colore la fa da padrone, grazie anche alle onnipresenti frutta e verdura, in ogni creazione.

Ma, come diceva il grande Marchesi, un piatto oltre che bello deve essere anche buono, e qui purtroppo non riusciamo a trovarci sempre in sintonia con il pensiero della chef, non senza un pizzico di rammarico perché, inizialmente, molti dei piatti in carta paiono interessanti, ma non si riveleranno tali una volta materializzati in tavola.
E ciò è un vero peccato, soprattutto perché una materia prima di tale qualità meriterebbe una maggiore valorizzazione, che non vuol necessariamente dire sovraccaricare un piatto di ingredienti anzi, al contrario, spesso è bene cercare di esaltare l’elemento principale, attraverso l’uso chirurgico di ingredienti accessori, atti a farlo risaltare.
Non solo sovrabbondanza di ingredienti ma anche di porzioni, che spesso ci sono sembrate esagerate, tanto che non sempre siamo riusciti a terminarle.

Se abbiamo trovato interessante, ad esempio, il tributo a Marchesi nel menù, con il raviolo aperto rivisitato, non possiamo dire lo stesso per altri piatti, ispirati anch’essi ad altri grandi maestri della cucina, spesso dall’interpretazione non particolarmente azzeccata o compiuta.

Ci auguriamo che con il tempo Viviana ritrovi quella completezza -di pensiero e gustativa- che ancora, a nostro avviso, le manca. Probabilmente sarà necessario mettere da parte quel pizzico di “voglia di strafare” chiaramente percepibile nei piatti, comprensibilmente causata dall’ambizioso salto e dalla relativa pressione mediatica e sovraesposizione al pubblico, per tornare a cercare in primis di valorizzare la materia, senza compiacimento alcuno.
Siamo certi che, attraverso la medesima determinazione che l’ha portata insieme a Sandra fin qui, non le sarà difficile ottenere dei tangibili miglioramenti nel breve. Attualmente non ci è possibile affermarlo ma, se i passi avanti fatti per ambiente, sala e servizio avverranno anche in cucina, il futuro di Alice non potrà che essere… meraviglioso.

Mise en place e vista globale del locale.
mise en place, Alice Ristorante, Chef Viviana Varese, Eataly Smeraldo, Milano
sala, Alice Ristorante, Chef Viviana Varese, Eataly Smeraldo, Milano
Il pane, molto buono.
pane, Alice Ristorante, Chef Viviana Varese, Eataly Smeraldo, Milano
pane, Alice Ristorante, Chef Viviana Varese, Eataly Smeraldo, Milano
Amuse-bouche: pacchero fritto con mousse di parmigiano ed erba cipollina, frittelle di pasta cresciuta di salicornia, hummus di semi di sesamo e ceci, bouquet di insalate con crema di pistacchio e granella di pistacchio.
amuse bouche, Alice Ristorante, Chef Viviana Varese, Eataly Smeraldo, Milano
amuse bouche, Alice Ristorante, Chef Viviana Varese, Eataly Smeraldo, Milano
Amuse bouche, Alice Ristorante, Chef Viviana Varese, Eataly Smeraldo, Milano
Amuse Bouche, Alice Ristorante, Chef Viviana Varese, Eataly Smeraldo, Milano
Passion: ostrica con centrifugato di cetriolo, granita di mela verde e sfere di panna acida e frutto della passione ghiacciati.
Apertura niente male, con un bel gioco acidità e di temperature a dare il via alle danze.
Ostrica, Alice Ristorante, Chef Viviana Varese, Eataly Smeraldo, Milano
Che-li-amo: astice intero alla catalana con variazione di pomodori, salsa di peperone, spuma di acqua di pomodoro.
Uno dei piatti che ci è piaciuto di più.
astice, Alice Ristorante, Chef Viviana Varese, Eataly Smeraldo, Milano
Tonno subito: carpaccio di fassona con tonnata, insalatine aromatiche, verdure all’agro e capperi.
Questo invece è un piatto che non ci ha convinto molto: troppo abbondante la porzione, con le verdure, tagliate grossolanamente, che andavano a coprire completamente la carne, senza trovare un legame.
carpaccio di fassona con tonnata, Alice Ristorante, Chef Viviana Varese, Eataly Smeraldo, Milano
Quadro di pasta: insalata di riquadri di pasta con pesce, crostacei, verdure fresche e sottaceti.
Questo è il piatto che ci è piaciuto meno di tutti, che purtroppo proprio non funziona. Gli ingredienti restano completamente slegati fra di loro, rendendo difficile anche solo terminare il piatto.
Quadro di pasta, Alice Ristorante, Chef Viviana Varese, Eataly Smeraldo, Milano
Verde brillante: linguine ai ricci di mare con burro di manteca, clorofilla di prezzemolo e peperoncino.
Bello e buono, questa è la Varese che piace a noi. Attenzione solo a non sporcarvi… è un attimo.
linguine ai ricci, Alice Ristorante, Chef Viviana Varese, Eataly Smeraldo, Milano
Sotto l’ombra di un ravanello: trancio di ombrina con centrifugato di ravanello, salsa di yogurt, crema di barbabietola, lardo di cinta senese battuto.
Non male anche se forse qui ci sarebbe voluto un piatto con un guizzo in più, ma soprattutto qualche ingrediente in meno.
trancio di ombrina, Alice Ristorante, Chef Viviana Varese, Eataly Smeraldo, Milano
L’albicocca in un campo di mais: gelato al mais, chicchi di mais affumicato, salsa e spugna all’albicocca, albicocca semi candita e pop corn caramellati.
Benché possa sembrare, in prima lettura, un dessert pesante, si rivelerà invece un piatto gradevole e rinfrescante.
gelato ala mais, albicocca, Alice Ristorante, Chef Viviana Varese, Eataly Smeraldo, Milano
Mela al mirtillo, ananas al lampone e pera al passion fruit.
Non sempre quello che mangi è ciò che sembra: un bel gioco di fine pasto, di chiara ispirazione Alajmo.
mela al mirtillo, Alice Ristorante, Chef Viviana Varese, Eataly Smeraldo, Milano

Via Rasori è una stretta e tranquilla strada nel mezzo di un quartiere allo stesso tempo aristocratico e vitale, e da qui riparte l’avventura de La Maniera di Carlo.
Sono passati tre anni dalla nostra ultima recensione di questo locale, ma nel frattempo ne abbiamo seguito da vicino, con visite successive, la trasformazione: esaurita l’esperienza dello chef Lorenzo Santi, il timone della cucina è nel frattempo passato interamente nelle mani del patron Francesco Germani, che ha gradualmente trovato la quadratura del cerchio.
Abbandonata la vecchia -e non solo nel senso di ‘precedente’- sede per una location più piccola ma moderna e luminosa, Francesco ha finalmente creato una continuità fra gli ambienti e una cucina in continua evoluzione.

Diplomato Isef, Germani ha intrapreso la carriera di ristoratore prima di quella di cuoco ma con intelligenza e applicazione ha saputo nel corso di pochi anni, anche grazie a stage importanti come quello nelle cucine del Devero a fianco di Enrico Bartolini e Remo Capitaneo, maturare notevoli progressi, tanto sul piano della tecnica che nella costruzione dei piatti. A dimostrarlo c’è un riso mantecato al cioccolato bianco con wasabi e basilico, un disastro potenziale risolto invece ad alti livelli con sensibilità e senso delle proporzioni: tecnica, ma soprattutto palato. Lo stesso palato che consente a Germani di mantenere le redini di uno spaghetto con ‘nduja, colatura di alici, briciole di pane e frutta secca senza lasciargli prendere la tangente di una volgarità quasi annunciata. Certo il risultato non è una carezza, ma chi la cercherebbe, con quegli ingredienti?

Il menu degustazione di otto portate, da noi raddoppiato fino all’assaggio praticamente di tutta la carta, è aperto da un assortimento di stuzzichini che per qualità e quantità rappresentano già, soprattutto a fronte di un conto che supera di poco i cinquanta euro, tutta la volontà di fare bene che accompagna quest’avventura. Germani, che pure ci aveva già colpito nel ruolo di direttore di sala, è qui ovviamente impegnato prevalentemente dall’altra parte del pass ma non manca di farsi vedere più di una volta a ciascun tavolo per prendere la comanda, consigliare e raccogliere opinioni e feedback.

In generale, coerentemente con un percorso che ancora deve trovare il suo punto di arrivo, abbiamo trovato più interessanti antipasti e primi che i secondi, fra i quali il migliore -e molto buono- è risultato essere quello più convenzionale. Buoni dolci, carta dei vini più coerente alla proposta che in passato e servizio corretto suggellano un’esperienza che in questo momento, complice il momento di difficoltà di alcune grandi tavole, rappresenta sulla piazza milanese un’ottima alternativa ai soliti nomi.

Mise en place. Cristalleria in progress.
Mise en place, La Maniera di Carlo, Chef Francesco Germani, Milano
Il pane, migliorabile.
pane, La Maniera di Carlo, Chef Francesco Germani, Milano
Il lungo preambolo. Qui di voglia di far bene ce n’è tanta.
La Maniera di Carlo, Chef Francesco Germani, Milano
verdure, La Maniera di Carlo, Chef Francesco Germani, Milano
benvenuto, La Maniera di Carlo, Chef Francesco Germani, Milano
caviale, La Maniera di Carlo, Chef Francesco Germani, Milano
benvenuto, La Maniera di Carlo, Chef Francesco Germani, Milano
benvenuto, La Maniera di Carlo, Chef Francesco Germani, Milano
Entrata: riso rosso integrale, caprino, limone, timo e nocciole.
riso rosso, La Maniera di Carlo, Chef Francesco Germani, Milano
Gambero rosso, cocco e blu Curaçao, con quest’ultimo appena prevaricante.
Gambero rosso, La Maniera di Carlo, Chef Francesco Germani, Milano
Seppia, soia, wasabi, vodka e crauto. Apparentemente sovraccarico di ingredienti, trova una quadratura gustativa sorprendentemente più nel segno dell’armonia che del contrasto.
Seppia Soia Wasabi, La Maniera di Carlo, Chef Francesco Germani, Milano
Ottime le alici su pizza liquida alla marinara.
alici su pizza liquida, La Maniera di Carlo, Chef Francesco Germani, Milano
Uovo poché, crema di asparagi, tarassaco e nocciole. Qui è la padronanza delle temperature a determinare la bontà del risultato.
Uovo pochè, La Maniera di Carlo, Chef Francesco Germani, Milano
Capesante, piselli e tapioca. Passaggio un po’ anonimo.
Capesante, piselli, tapioca, La Maniera di Carlo, Chef Francesco Germani, Milano
Calamari, carote e zenzero. Si torna su.
Calamari carote zenzero, La Maniera di Carlo, Chef Francesco Germani, Milano
Gnocchi con pesto, mela verde e lime. Meno acidità di quella che ci si saremmo attesi. Piatto prudente.
gnocchi, La Maniera di Carlo, Chef Francesco Germani, Milano
Sul fronte della golosità spiccano i paccheri con gazpacho, granchio e uova di lompo…
pacchetti uova di lampo, La Maniera di Carlo, Chef Francesco Germani, Milano
…e soprattutto gli spaghettoni nduja, colatura d’alici, pane profumato e frutta secca.
spaghettoni 'nduja, La Maniera di Carlo, Chef Francesco Germani, Milano
Il notevolissimo risotto wasabi, basilico e cioccolato bianco.
Risotto wasabi, La Maniera di Carlo, Chef Francesco Germani, Milano
Bloody Mary a spezzare.
Bloody Mary, La Maniera di Carlo, Chef Francesco Germani, Milano
Piovra, cavolfiore e polveri aromatiche. Lieve eccesso di polvere di olive in una preparazione sapida ma convincente.
piovra, cavolfiore, La Maniera di Carlo, Chef Francesco Germani, Milano
Sgombro, cetriolo e pompelmo rosa. Una buon idea penalizzata da un eccesso di cottura del pesce.
Sgombro cetriolo e pompelmo rosa, La Maniera di Carlo, Chef Francesco Germani, Milano
Coppa di maiale, finta salsa tonnata e radici. Qui oltre alla cottura non convince appieno il collegamento fra la salsa e la carne a livello di consistenza.
Coppa di maiale, La Maniera di Carlo, Chef Francesco Germani, Milano
Flank steak di Fassona, ketchup di barbabietola, pomodoro e cipollotto.
Flan teak di fassona, La Maniera di Carlo, Chef Francesco Germani, Milano
Predessert: anguria, anice e pepe rosa.
predessert, La Maniera di Carlo, Chef Francesco Germani, Milano
Tiramisu.
Tiramisù, La Maniera di Carlo, Chef Francesco Germani, Milano
Cous cous alla mediorientale, miele, menta, melograno, frutta secca, frutta fresca e sorbetto al lime. Complesso e gradevolissimo. Non la frusta insalata di frutta.
Cous Cous, La Maniera di Carlo, Chef Francesco Germani, Milano
Piccola pasticceria.
Piccola pasticceria, La Maniera di Carlo, Chef Francesco Germani, Milano
piccola pasticceria, La Maniera di Carlo, Chef Francesco Germani, Milano

Il Luogo di Aimo e Nadia: più che un semplice ristorante, una vera e propria istituzione a Milano. Amato dalla borghesia, ricercato dai turisti, meta imperdibile per i gourmet, è il grande ristorante di Milano per antonomasia.
Anche se in realtà di milanese non ha quasi niente.

Non le radici, che sono toscane – non dimentichiamo che si tratta del ristorante che ha fatto da apripista a quella che si è poi rivelata essere una vera e propria tendenza gastronomica, quella appunto dei ristoranti toscani a Milano – non i cuochi, dal momento che Alessandro Negrini è valtellinese e Fabio Pisani pugliese di Molfetta, non la cucina che è essenzialmente cucina di olio, non di burro. Certamente di ispirazione più meridionale che settentrionale.
Più che un semplice ristorante, una granitica certezza nella realtà sempre più fluida della ristorazione di alta fascia. In cui si assiste sempre più spesso a ristoranti meteore che durano il tempo di una stagione e non sopravvivono quasi mai ai cambi di guardia in cucina (peraltro sempre più frequenti).
E’ il mutamento epocale che si è avuto negli ultimi 10/15 anni.

Prima esistevano i ristoranti, oggi contano i cuochi. Non a caso un amico (non del settore) ci chiedeva ingenuamente proprio qualche giorno fa se le stelle si danno ai ristoranti o ai cuochi. Il discorso ci porterebbe troppo lontano e quindi meglio tornare al Luogo da cui eravamo partiti.
Il Luogo di Aimo e Nadia è una splendida eccezione. Qui quasi nulla è cambiato da quando un gigante della ristorazione italiana come Aimo Moroni, dopo oltre mezzo secolo speso a rendere grande la sua creatura insieme alla moglie Nadia, ha legittimamente deciso di dedicarsi ai nipotini e di lasciare la gestione del ristorante alla figlia Stefania e la cucina nelle mani dei suoi giovani allievi.

Qui si continua come sempre a fare una cucina profondamente italiana, classica, tesa a valorizzare una superba materia prima. Senz’altro uno dei più “ducassiani” tra i ristoranti italiani.
La materia prima. E qui il senso di questa parola assume più che in altri luoghi un significato fortissimo. Aimo è stato un assoluto cultore delle materie prime. Già negli anni ’60 e ’70, prima di Slow Food, del km 0, del boom del biologico, qui trovavi prodotti che altrove non c’erano. Ricercati infaticabilmente e con illimitata passione e competenza da Aimo. E trasformati in piatti geniali nella loro semplicità.
L’eredità lasciata qualche anno ad Alessandro Negrini e Fabio Pisani era di quelle pesanti. Non c’è dubbio.
Ma possiamo dire ormai che l’esame è stato brillantemente superato. Alessandro e Fabio sono stati bravissimi nel rendere il passaggio assolutamente indolore. Bravissimi e umili.
Ci venga concessa la metafora calcistica: hanno fatto un po’ come Allegri alla Juventus. Avevano un cavallo vincente e lo hanno fatto correre come sapeva, senza farsi prendere dall’ansia di marchiare a tutti i costi e immediatamente una discontinuità.
Questo è stato senz’altro il grande merito dei due giovani cuochi. Ma potrebbe paradossalmente alla lunga trasformarsi in un limite.

E così, se come si mangia da Aimo è una delle poche certezze della vita – sempre molto bene – non vorremmo che diventi una certezza anche cosa si mangia.
Si, è arrivato secondo noi il momento per gli chef di cambiare marcia e abbandonare le granitiche certezze su cui sembrano un tantino adagiati.
E’ chiaro che i classici in un ristorante del genere non possono (e non devono) sparire, ma è altrettanto vero che in cucina le novità stentano a decollare.
La zuppa etrusca, i giochi di sale, i tortelli di ossobuco, il (quasi) raviolo di seppia sono piatti ormai di conclamata eccellenza (e chi non li ha mai assaggiati è ora che faccia una corsa in Via Montecuccoli), ma l’impressione generale è che si inizi a procedere un po’ col pilota automatico. E questo alla lunga non potrebbe che nuocere alla nuova generazione del Luogo.

I talenti ci sono, l’entusiasmo anche, ci pare, il domani è dietro l’angolo e bisogna saperlo affrontare con coraggio e idee nuove seppure nel solco di una splendida tradizione.

Cicerchie dei Monti Dauni in crema con marasciuolo selvatico, mosto cotto
di fichi, lampascioni canditi e olive Nolche, con biscotto mostacciolo. Intensa, qui con le zuppe non si scherza.
Cicerchie, Il luogo di Aimo e Nadia, Chef Alessandro Negrini, Fabio Pisani, Milano
Peperone Crusco in accompagnamento.
Peperone Crusco, Il luogo di Aimo e Nadia, Chef Alessandro Negrini, Fabio Pisani, Milano
Un classico dedicato al sale (ma non salato): Giochi di sale (di Mothia): dentice ligure marinato, cedro di Calabria, maionese di pistacchi di Bronte, sedano verde e crescione d’acqua.
dentice, sale di mothia, Il luogo di Aimo e Nadia, Chef Alessandro Negrini, Fabio Pisani, Milano
Il luogo di Aimo e Nadia, Chef Alessandro Negrini, Fabio Pisani, Milano
Altro classico: Zuppa etrusca con verdure dell’orto, primizie, legumi, farro della Garfagnana alle erbe aromatiche e fiori di finocchio selvatico. Da rimarcare la perfetta cottura di tutte le componenti. Magnifica.
Zuppa etrusca, Il luogo di Aimo e Nadia, Chef Alessandro Negrini, Fabio Pisani, Milano
Quasi un raviolo (di seppia): seppie crude arricciate a mano, scalogno candito e scamorza affumicata. Altro classico, altro grande piatto.
raviolo di seppia, Il luogo di Aimo e Nadia, Chef Alessandro Negrini, Fabio Pisani, Milano
Risotto Carnaroli Gran Riserva all’olio Nocellara con gamberi di Sanremo, origano di Vendicari e capperi di Pantelleria.
Risotto gamberi di Sanremo, Il luogo di Aimo e Nadia, Chef Alessandro Negrini, Fabio Pisani, Milano
Tortelli farciti di ossobuco di Fassone piemontese e midollo nel suo ristretto allo zafferano sardo e parmigiano Bonati. Lussuriosi!
tortelli farciti, Il luogo di Aimo e Nadia, Chef Alessandro Negrini, Fabio Pisani, Milano
Controfiletto di vitella Fassona di montagna in panure di camomilla e cipolla di Tropea, con carote all’aceto di lamponi. Piatto esemplare nella sua essenzialità.
Controfiletto, Il luogo di Aimo e Nadia, Chef Alessandro Negrini, Fabio Pisani, Milano
Anguria, succo di fragola e pomodori canditi.
Anguria, Il luogo di Aimo e Nadia, Chef Alessandro Negrini, Fabio Pisani, Milano
Black lemon: crema ai limoni di Sorrento, spuma al lime e polvere di ‘loomi’, con latte di mandorle di Toritto.
Black lemon, Il luogo di Aimo e Nadia, Chef Alessandro Negrini, Fabio Pisani, Milano

Quando si dice una partenza col botto.
Primi giorni di agosto.
Mentre una canicola infernale attanaglia il resto dell’Italia, a Milano incombe un settembrino clima uggioso. Il più famoso gruppo di hôtellerie asiatico ha inaugurato a Milano, da pochissimi giorni, il nuovo albergo della collezione, colmando quell’inspiegabile assenza nel mercato ricettivo del Bel Paese.
Posti turistici come Roma, Firenze o Venezia sarebbero stati la vetrina ideale: e invece si è scelto di puntare sulla città degli affari, della moda e del design, complice, ça va sans dire, Expo.
E tra ingenti investimenti, ripetuti slittamenti della data di apertura, la certezza di aver ingaggiato una corazzata di grandi cuochi e uomini di sala per garantire standard elevatissimi, è giunto finalmente il momento di Mandarin Oriental in Italia.
L’intera gestione dell’offerta gastronomica è stata affidata ad un cavallo di razza come Antonio Guida, seguito a ruota dal suo fidato Federico Dell’Omarino e dal grandissimo pâtissier Nicola Di Lena. Tre cuochi fortemente voluti, arrivati in blocco direttamente dal Pellicano che, dopo aver scalpitato ai box, in attesa del semaforo verde, sono tornati in pista per dire la loro nel mondo delle tavole che contano.
Eravamo certi che non ci sarebbero state grosse esitazioni o un problematico rodaggio.
La proprietà ha fatto le cose davvero in grande: ha preteso che tutto lo staff e i cuochi facessero plurime simulazioni durate più di un mese prima dell’apertura, al fine di familiarizzare con qualsiasi tipo di scenario, affrontando con serenità e pacatezza le più disparate situazioni.
Ecco, di tutto ciò eravamo al corrente, ma non immaginavano che si riuscisse a partire con il turbo.

Seta -si chiama così per celebrare un luogo importante, elegante, come il materiale di importazione più pregiato derivante dalla Cina, come “la via della seta” che, oltre ad assumere un’importanza commerciale, consentiva il movimento di uomini e idee tra Oriente e Occidente- è un ristorante già a pieno regime, che impressiona per qualità e tempistiche dei piatti serviti. Sembra che la brigata capitanata da Guida, nomen omen, sia stata trasportata con tutta la cucina dall’Argentario a Milano.
La cucina dello chef pugliese non ha neanche perso i connotati originali del Pellicano: uno stile sontuoso di matrice transalpina, con creme e salse di grande eleganza, che in tale contesto indossa una nuova veste, in quanto rivisitata ed arricchita da tocchi ed influenze orientali, degno omaggio alla compagnia di Hong Kong.
E il risultato è un intrigante intreccio di sapori di rara concentrazione che dall’Italia raggiungono mete internazionali.

L’uno-due dei primi piatti è da applausi a scena aperta: con gli spaghetti con barbabietola e crostacei al lime ed il raviolo di humus, cozze, peperoni e caprino il commensale va alla scoperta (o al ricordo) dei sapori primari di Thailandia e Turchia, collegati dal ponte della tradizione italiana (spaghetti e raviolo).
Con l’astice, il pollo, il petto di piccione e i grandissimi dessert sembra di star seduti in una grande tavola francese, ma accade tutto tra via Andegari e via Monte di Pietà. Nel cuore del quadrilatero della moda, in un blocco di tre edifici nobiliari uniformati architettonicamente (un lavoro grandioso).
La sala si sviluppa in lungo ed è disposta a ferro di cavallo con affaccio sul dehor esterno, di raro fascino ma anche sulla cucina. Una predisposizione in cui tutti vedono tutto. C’è anche una ulteriore sala in cui alti divanetti sembrano creare un effetto prive’, per un’atmosfera ancora più riservata e tranquilla.
La regia del servizio è affidata al giovane ma già esperto Alberto Tasinato, ex Berton ed altri trascorsi importanti alle spalle; ma sono tanti ad aggirarsi tra i tavoli, tutti bravissimi e parte integrante della esperienza nel suo insieme.
È troppo presto per assegnare un numeretto. Ma dalle nostre prime incursioni non abbiamo molto dubbi sul futuro di questo ristorante tra le grandi tavole italiane.
Piuttosto la sfida è un’altra.
Riusciranno Guida e suoi a contribuire all’ascesa di Seta nell’olimpo dei migliori ristoranti al mondo?
Noi siamo pronti a scommetterci.

Mise en place. Spiccano i piatti di Fornasetti e le stoviglie di Gio Ponti.
Mise en place, Seta, Chef Antonio Guida, Mandarin Oriental, Milano
Da destra a sinistra, in una sequenza di incredibile concentrazione: sfera di parmigiano, financier agli spinaci, cialda al caprino e cozze fritte.
Amuse bouche, Seta, Chef Antonio Guida, Mandarin Oriental, Milano
Un signor pane (di Altamura) fatto in casa.
Pane, Seta, Chef Antonio Guida, Mandarin Oriental, Milano
Burro. Salato e in una eccezionale variante cremosa alle alghe.
Burro salato, Seta, Chef Antonio Guida, Mandarin Oriental, Milano
Grissini sottilissimi.
grissini, Seta, Chef Antonio Guida, Mandarin Oriental, Milano
Virgin mary: cetriolo, gambero, sedano e ostrica.
virgin Mary, Seta, Chef Antonio Guida, Mandarin Oriental, Milano
Cavolfiore con salsa al latte di mandorla, succo di yuzu e frutti di mare. Eleganza orientale e golosità italiana.
Cavolfiore, Seta, Chef Antonio Guida, Mandarin Oriental, Milano
Astice blu arrosto (in verità è appena cotto), zabaione, capperi, patata affumicata e, ancora un tocco orientale, te matcha.
Astice blu, Seta, Chef Antonio Guida, Mandarin Oriental, Milano
Spaghetti con rape rosse, carpaccio di crostacei al lime e un tocco di coriandolo. Persistente come non mai.
spaghetti con rape rosse, Seta, Chef Antonio Guida, Mandarin Oriental, Milano
Da un’idea nata sulle spiagge turche durante l’apertura del Mandarin Oriental di Bodrum: raviolo farcito di humus, cozze, peperone e caprino. Da mangiare in un sol boccone (la farcia è liquida). Bontà ed equilibrio e una valanga di sapori mediorientali.
raviolo farcito di Hummus, Seta, Chef Antonio Guida, Mandarin Oriental, Milano
Un classico: petto di pollo ficatum con crema di cannellini alle alghe e raviolo di garusoli.
petto di pollo ficatum, Seta, Chef Antonio Guida, Mandarin Oriental, Milano
Petto di piccione affogato con foie gras spadellato, caffè, salsa di foie gras e raviolo di ananas, lime e mango a ripulire.
Petto di piccione, Seta, Chef Antonio Guida, Mandarin Oriental, Milano
La batteria dei dessert parte con lo splendido parfait alla mandorla con gelato al pepe Timut e salsa di litchi e fragola.
dessert, Seta, Chef Antonio Guida, Mandarin Oriental, Milano
Soufflè all-bran (ricordate i cereali della Kellog’s?).
Soufflé, Seta, Chef Antonio Guida, Mandarin Oriental, Milano
Accompagnato da albicocca caramellata ed un gelato al latte condensato.
Albicocca caramellata, Seta, Chef Antonio Guida, Mandarin Oriental, Milano
Ananas arrosto con salsa al frutto della passion e gelato allo zenzero. Buonissimo.
Ananas, Seta, Chef Antonio Guida, Mandarin Oriental, Milano
I petit fours.
Petit Fours, Seta, Chef Antonio Guida, Mandarin Oriental, Milano
I vini degustati.
vini, Seta, Chef Antonio Guida, Mandarin Oriental, Milano
Tavoli.
Tavoli, Seta, Chef Antonio Guida, Mandarin Oriental, Milano
L’insegna.
Insegna, Seta, Chef Antonio Guida, Mandarin Oriental, Milano