Felice (Felix) Lo Basso ha coraggiosamente portato avanti la sua idea originale di Home Restaurant, con lui come anfitrione, a intrattenere con la sua personalità e cucina istrionica 12 persone attorno a un bancone, come se si fosse in una, bella, cucina di casa a vista. Sin dall’inizio la proposta è stata quella di un Omakase, ovviamente assolutamente italianizzato, in cui il commensale si affida a lui; si era partiti, e ne avevamo raccontato qui, con un unico degustazione da 12 portate.
Ora, invece, ci si è spostati su una “rappresentazione” a cinque atti (Il Viaggio, Il Mare, La Campagna, La Montagna e Casa Dolce Casa) che contiene, all’interno di ogni atto, più micro-mini-piatti-bocconi per un totale di 28 portate. Si attinge alla memoria dello Chef, sia di infanzia in quel di Puglia, sia delle esperienze internazionali, sia di quelle dell’alta montagna, per un menù che gioca sulla varietà con una alta focalizzazione sul gusto, alla ricerca di rendere ogni assaggio incisivo. Grande cura dei dettagli, attenzione all’estetica e alla miniaturizzazione degli elementi che affascinano, considerando che lo Chef si identifica con amore con un gorilla, quindi un animale dall’aspetto imponente e dalle zampe gigantesche. Felix vuole uscire dagli schemi, ad esempio togliendo il pane dal percorso, quasi un’eresia per un pugliese, e dalle omologazioni, in un approccio alla ristorazione decisamente originale.
Il viaggio inizia con una selezione di amuse bouche, ognuno dei quali rappresenta un Paese in cui è stato: c’è l’Italia, in particolare la Puglia, con un delizioso Cremino di cime di rapa, poi la Francia con una ciliegia ricreata, con un ripieno di foie gras, poi la Spagna con il Chorizo, la Russia con il King Crab, la Norvegia con il Baccalà e l’Australia con il Wagyu. Il percorso procede a un ritmo intelligentemente intenso per ingaggiare il cliente e incuriosirlo continuamente; tecniche di cottura, ricette reinterpretate con una bella mano e grande interazione con il commensale. Ci sono episodi super centrati sul gusto come le Braciole baresi in un tortello; l’Oca, tartufo, spuma di patate e polvere di funghi. Ci sono esperimenti molto ben riusciti di equilibri su vari registri come il Cannolo di cavolo nero con ripieno di ricotta e sesamo e intermezzi più tranquilli come il Canederlo di gambero e il risotto con prezzemolo, radicchio e cavolfiore.
Siamo ancora agli inizi di questa nuova strada intrapresa e il suggerimento è quello di giocare, proprio perché la numerica di portate è elevata e lo permette, su più registri, includendo anche le note di acidità e di amaro, di spinta ulteriore sul piccante, per rendere l’esperienza ancora più intrigante e ogni boccone memorabile. Non si può comunque che apprezzare questa vis creativa che porta lo Chef a rimettersi in gioco, complicandosi, fra l’altro, decisamente la vita, per le numerose preparazioni. Ma lui vuole continuare a creare, per divertirsi e per divertire i suoi ospiti che trascorrono, qui, davvero una bella serata.
IL PIATTO MIGLIORE: Oca, tartufo, spuma di patate.
Spazio è l’antitesi del bistrot “griffato” dei cuochi stellati. Anzi, forse è più corretto qualificarlo come un grande ristorante travestito da “bistrot”. Contiene moltitudini partendo dalla triade ambiente-sala-cucina che si stagliano tutti su un livello di elevato standard qualitativo. Niko Romito ha lasciato spazio creativo alla bravissima Gaia Giordano, alla quale va il merito di aver plasmato una cucina affine allo stile del suo mentore, ma connotata di una propria personalità. Un microcosmo tanto riconoscibile quanto unico. Essenzialità e profondità gustativa restano il fil rouge di preparazioni in cui ogni ingrediente si percepisce con nitidezza al gusto ma, ancor prima, all’olfatto.
Pulizia di sapori, questa, che raggiunge l’apoteosi nel nuovo percorso di degustazione chiamato “Spazio in Condivisione“, attraverso il quale si esplora esclusivamente la cucina di Gaia Giordano qui “votata al vegetale”. È il menù che somiglia di più al pensiero di Romito, che parla del lavoro fatto nel corso degli anni, anche con la consapevolezza che possa risultare ostico per alcuni palati. Gli equilibri, dominanti sulle sapidità, sono retti da un’equazione gustativa in cui amaro dolce e acido si susseguono e si rincorrono ma sempre all’interno di un recinto gustativo armonico. Piatti come Indivia e arachidi, i Capellini, limone, zafferano, lo strepitosa Verza e mela o l’Assoluto di agrumi sono tra le migliori espressioni vegetali in cui ci siamo imbattuti quest’anno.
Non è una cucina per tutti, diciamolo, ma i rischi qui vengono assunti con consapevolezza e autorità, anche con il fine di trasmettere sapori più stimolanti rivolgendosi a una variegata clientela, locale e straniera. La proteina animale è ancora presente in carta dove, invece, sfilano piatti più rassicuranti ma dal medesimo costrutto tecnico e autoriale. Del resto l’ubicazione del ristorante aiuta, e tanto, anche a predisporre al meglio l’ospite, qui capace di approcciarsi a una cucina tutt’altro che turistica, benché a vista sulla Madonnina. La regia del servizio di sala è affidata, con rassicuranti risultati, al bravissimo Francesco Spina, uno della vecchia guardia del Reale.
IL PIATTO MIGLIORE: Verza e mela.
Questa ormai celebre insegna nel proscenio della ristorazione nazionale porta il soprannome di Don Giuseppe Gervasini, “el pret de Ratanà” e taumaturgo, che ebbe i suoi natali proprio nel quartiere “Isola” e che curava gli afflitti con l’impiego di erbe medicamentose coltivate nel suo brolo. Dal giorno del suo avvio, nel 2009, il Ratanà dimora al piano terra della sede della Fondazione Riccardo Catella, in un affascinante villa Liberty ove, all’ingresso, si palesa un mirabile bancone realizzato con il marmo del Duomo di Milano recuperato nell’atelier di un artigiano della città. Cesare Battisti, cuoco e anima di questo luogo, dal lontano 2009 persegue l’intento di fare conoscere e apprezzare la sua attività che di lì a poco diviene uno dei punti cardinali degli “ultras” di cucina tradizionale milanese che interpreta, in chiave contemporanea e tocco schietto, i piatti della memoria lombarda con il rigoroso impiego di selezionate materie prime di estrazione stagionale e coadiuvato in sala, dal 2012 a oggi, dalla sommelier Federica Fabi.
Iniziamo la nostra visita alla tavola di Cesare Battisti “senza pensarci troppo”- come in modo confacentemente suggerito sul menù – con dei classici Mondeghili serviti, in perfetto stile rustico, in un simpatico cono di carta paglia dal cuore umido e morbido connotati da un esotico zing di spezie, accompagnati da un’Insalata russa croccante e casereccia comme il faut, mentre lietamente si rivivifica al palato la raffinata e acidamente guizzante Trota di montagna marinata con finocchietto e arancia, crostini di pane nero e coleslaw. Assaporiamo i Culurgiones farciti di carne di ossobuco con accanto il suo osso e il suo midollo: piatto decisamente interessante per l’intento “fusion” dato da Battisti, che compenetra l’anima di Sardegna della pasta col cuore di ripieno di carne di matrice meneghina, nociuto però dalla impossibile fruizione del midollo in quanto forse non cotto a sufficienza per essere adeguatamente estratto dal suo involucro; segue l’Anguilla in tecia consistente in un filetto di anguilla laccato al balsamico e alloro, col pomodoro proposto in due versioni, sia ristretto sia arrosto, in un corretto esercizio stilistico permeato da contrasti, consistenze e acidità non troppo osée. Terminiamo il pasto con un’esaltante Pera e polline composto da una pera cotta speziata e il suo sorbetto, sbrisolona al polline, cremoso di yogurt e pralinato di nocciole il cui risultato esecutivo ha rasentato, semplicemente, la perfezione.
IL PIATTO MIGLIORE: Pera e polline.
Satoshi Hazama sperimenta una cucina kaiseki delicata ed essenziale dove la tradizione nipponica dei piccoli assaggi incontra la qualità delle materie prime italiane. La formazione di Hazama parte da Yokohama, Giappone, passa per le Langhe e Firenze, e approda a Milano, da Sol Levante e Yoshinobu. Nel 2020 apre il suo locale nel cuore del “Tortona design district”, in cui atmosfera rilassante e cura dei dettagli sono parte inscindibile dell’esperienza, votata al culto dell’ospitalità: poltrone di design convivono con pareti bianche e tasselli in legno che ricordano i ryokan di Kyoto, mentre una mise en place elegante e una musica avvolgente accompagnano la degustazione. Nel pieno rispetto del rituale kaiseki, Hazama celebra la stagionalità della natura attraverso il goho, le cinque tecniche di cottura della cucina giapponese, alternando assaggi al vapore, crudi, lessati, fritti e alla griglia, che ci guidano alla scoperta della sua interpretazione dell’inverno.
L’avvio è aromatico con un antipasto di Mazzancolle scottate su cubo di daikon stufato in doppia cottura, dove la salsa di yuzu miso dà una spinta floreale al tutto. Nel Sashimi di verdure di stagione, tonno rosso, ombrina, cappasanta e gambero viola la freschezza marina delle eccellenti materie prime si fa esplosiva grazie alla foglia di shiso, ma è la maestria tecnica del taglio “l’ingrediente” che fa la differenza. Il simbolismo estetico di Hazama offre un’interpretazione poetica della stagione con una composizione di assaggi esaltati da dashi e marinature, impreziosita da una spruzzata di Fleur de Sal che celebra l’inverno simulando cristalli di ghiaccio: eccellono i Filetti di centrolofo viola alla griglia con scorzonera, la cui marinatura in miso bianco è la quintessenza dell’umami. Non sorprende, invece, il Riso cotto al vapore profumato con mirin e soia bianca con fritto di gamberesse e cavolo nero scottato, amalgamato in sala dallo Chef in “hagama”, antica pentola giapponese. Una Zuppa di miso rosso invecchiato in legno chiude il menù con una nota avvolgente, quasi un “sigillo” dell’inverno.
A pranzo si mangia alla carta, mentre si cena solo con menù kaiseki. Il servizio è curato e attento. La lista vini si limita a una ventina di etichette e una selezione di Sake.
IL PIATTO MIGLIORE: Filetto di centrolofo alla griglia marinato in miso bianco con scorzonera.
Roberto Di Pinto è un cuoco “anema e core“. Veste la sua cucina con i ricordi d’infanzia mettendo ingenti dosi di sincerità e generosità in ogni piatto. Con occhio ludico reinterpreta i sapori della tradizione campana rimodulandone il gusto con l’innesto di sfumature, a volte dolci, altre volte acide, in ogni caso contrastanti, a mitigare le sferzate sapide tipiche della cucina partenopea. Frutto, questo, di un bagaglio tecnico acquisito in Francia e in Italia che, con intelligenza e senza strafare, ostenta per dotare di maggiore complessità preparazioni contraddistinte da immediatezza gustativa. Elemento, questo, col quale Di Pinto si è guadagnato stima e affetto dal nutrito pubblico che gremisce i tavoli del suo Sine.
Un luogo certamente poliedrico in cui il cuoco anfitrione si prende qualche volta la briga di azzardare, sebbene emerga sempre, prepotentemente, l’urgenza di equilibrio che contraddistingue tutta la degustazione. Ci viene in mente il Carpaccio di pezzata rossa, burrata, gelato ai ricci di mare e olio al dragoncello in cui l’utilizzo barocco degli ingredienti, che fa temere al peggio, rivela il sorprendente equilibrio che accompagna ogni assaggio. Un piatto complesso e riuscito come il Risotto al latte di mandorla, caviale e caffè di verdure, giocato su note affumicate e acide in contrasto alla principale componente grassa, e il Cuore con Rosa di Gorizia le cui nuances dolciastre dello yuzu sono tenute a bada da contrappunti amaricanti della pastinaca.
Nei passaggi più teatrali l’estetica a tratti prevale sul gusto come nel caso del Raviolo pizza margherita che all’olfatto rievoca il sentore del forno a legna ma al palato è più simile ad una pappa al pomodoro o come nella Scarpetta d’Oro, omaggio a Maradona, in cui non convincono a pieno le consistenze degli elementi che compongono il piatto. Oltre a due menù degustazione, a 90 e 110 euro (vini esclusi), c’è la possibilità di cenare allo Chef’s Table con un menu tailor made da concordare in base a un questionario inviato al commensale il giorno precedente alla visita. Un cadre di livello, suggellato da un servizio di sala professionale, una carta dei vini ben costruita che si focalizza sulla Campania e su etichette biodinamiche che si alternano a bottiglie importanti e arcinote, italiane e francesi.
IL PIATTO MIGLIORE: Carpaccio di Pezzata Rossa, cacao, burrata, olio al dragoncello e gelato ai ricci di mare.