Sentendo nominare “Boer”, il pensiero del gourmet andrà con ottime probabilità in Olanda, nella tranquilla cittadina di Zwolle, terra del tristellato Librije e del suo Chef, Jonnie Boer.
C’è un altro Boer però, dal nome decisamente più familiare a chi gravita intorno Milano, altrettanto talentuoso e che sta facendo molto parlare di sé, allargando pian piano il tam tam gourmet anche al di fuori dell’area metropolitana: Eugenio Boer. Anch’esso, come suggerisce il cognome, ha origini olandesi, oltre a innumerevoli anni di esperienza in svariate tavole blasonate.
Da qualche anno la Madonnina lo vede impegnato in progetti sicuramente interessanti, tutti però con lo sguardo rivolto verso una cucina di deriva più o meno semplice ed informale: in primis Enocratia, dove all’interno di una cucina formato camper ha iniziato a far conoscere ed apprezzare il suo nome, in un format incentrato sul vino, ove il cibo era inteso come un accompagnamento e non il contrario, come più usuale. Poi la parentesi ancor più pop, quella di Fishbar e Meatbar, due bistrot gemelli entrambi in Brera, come di evince dal nome uno incentrato sul pesce, l’altro sulla carne.
Ora, finalmente, la prova del nove. Un ristorante nel senso più stretto del termine, con una bella ed accogliente sala, una brigata numerosa, un piccolo dehors per mangiare all’aperto durante il periodo estivo, ma soprattutto una bella carta scevra da tendenze, esclusivamente focalizzata sulla visione di cucina dello Chef.
E tutto ciò, è rappresentato fin dal nome scelto per questo ristorante: Essenza.
E la prova, per quanto ci riguarda, è stata abbondantemente superata, sotto certi aspetti spingendosi anche oltre le aspettative. Questa tavola ci colpì da subito, fin dalle prime visite, e se possibile ci ha colpito di più ancora nel nostro ultimo passaggio, con un salto notevole rispetto alle, pur eccellenti, performances iniziali.
Una cucina golosa e pensata, tecnica e personale, raccontata e leggibile, che si mantiene appagante e divertente anche nei suoi -frequenti- passaggi più tecnici e ragionati, salda sul suo binario senza il minimo tentennamento o passo falso anzi, che marcia con la decisione e la sicurezza del grande ristorante.
Partendo dagli amuse bouche, piccoli ed intelligenti concentrati di bontà, per arrivare fino alla pasticceria, tutta la nostra cena ha veleggiato sciolta su livelli decisamente alti, tra omaggi a maestri (però sarebbe gradevole, ed un ulteriore colpo di classe, che venissero dichiarati), vecchi e nuovi piatti dello chef, esercizi di stile o classici reinterpretati, mostrando una brigata a proprio agio non in un singolo compartimento ma sotto ogni aspetto, a ventaglio dal benvenuto all’arrivederci.
Anche il servizio, che in altre occasioni non ci convinse a pieno, ha ora trovato una sua quadra, risultando perfettamente registrato sul tono del locale: serio e brillante, professionale ma con toni smart e quel pizzico d’informalità necessaria a mettere a proprio agio il cliente, fin dal primo contatto.
Tutto questo, unito ad un rapporto qualità/prezzo ora come mai conveniente, fa sì che il libro delle prenotazioni riesca a registrare il fully booked praticamente ad ogni servizio serale, cosa che abbiamo potuto constatare personalmente in un lunedì qualsiasi, senza un solo coperto rimasto libero. Ulteriore dimostrazione, qualora ce ne fosse ancora bisogno, che per la totalità dei fattori in gioco, Essenza ad oggi è sicuramente uno dei place to be milanesi, consigliabile davvero a chiunque.
“Il nostro Benvenuto”: il percorso dello chef in cinque piccoli ricordi.
Piccolo minus in quanto gli stessi delle precedenti visite… ma si chiude serenamente un occhio, quando così buoni e sensati, anche perché rappresentano un piccolo biglietto da visita, in quanto piccoli omaggi dello chef a luoghi e maestri del passato.
Madeleine alle olive taggiasche e pesto…
…bitterballen e senape…
…cialda di risotto alla milanese e Parmigiano Reggiano…
…tartare di salmerino…
…e macaron alla salvia e rosmarino con paté di fegatini, piccione e grue di cacao.
Pane e grissini.
“Il Cervo e la sua Storia”, Un salto indietro nel tempo, in tutto e per tutto.
Piatto in carta fin da Enocratia, un boccone di cervo -crudo- servito senza posate, da mangiare con le mani. Piatto ancestrale nell’idea, ma tecnico e razionale nell’esecuzione.
“Carote”, gialle, viola e arancioni di Polignano, nocciole tostate IGP del Piemonte, Taleggio, terra di Erbe, terra di Cereali e…
…uovo cotto nel Fieno, inserito a finire il piatto dal cameriere.
Golosità smodata, pur senza il minimo disturbo o accenno di stucchevolezza. Lode all’impiatto, estremamente curato.
“Brodo ristretto di Castagno”: Canederli di Sanguinacci, Pioppini, Mela verde e Castagne crude.
Brodo estremamente profumato e dalle marcate note acide, in contrasto con il canederlo.
“Lepre”: Tagliatelle di pasta fresca al Civet, ragout di Lepre, Foie gras e Tartufo nero.
Un piatto di pasta, classico italiano, riuscito omaggio alla lièvre à la royale, classico francese. Grande piatto, per concezione, esecuzione e risultato.
“Autunno”: Cappellaccio di pasta fresca alle Castagne, Zucca alla mantovana, Porcini, Jus di terra, Topinambur, terriccio di Funghi ed Erbe.
Un mirabile esercizio di stile, un piatto dalla quasi totalità di ingredienti dolci, tenuto in equilibrio da una omeopatica dose di Jus.
Risotto Murici, Finferli, Limone e Melissa. Notevole, come tutti i risotti serviti da queste parti.
“Tinca”: Zabaione al dragoncello, Polenta bianca ed Erbe amare.
“Piccione”: Olivello spinoso, Pastinaca e Tarassaco. Presenza fisicamente un po’ invadente del tarassaco, ma è solo un fattore estetico/funzionale. Ennesimo piatto più che riuscito.
Il predessert: “Sud”, Sorbetto di limone, Crumble di pistacchi e mandorle, Cioccolato di Modica al Peperoncino, Caffé, Capperi, Arance candite.
La chiusura del pensiero iniziato con il benvenuto, uno sguardo agli anni passati in Sicilia dallo chef. Poco “pre” e molto “dessert”.
E I dessert, profondamente diversi ma entrambi notevoli.
“Dulce”, Granola, Fava Tonka, Cioccolato bianco bruciato.
“Fichi”, Infusione di latte di foglie di Fico, Sambuca e Caffè.
Piccola pasticceria…
…piccola pasticceria, atto II.
Le bottiglie che ci hanno accompagnato durante la cena.
Giovane, caotico, informale, divertente. Poco “milanese” (nel senso gastronomicamente deteriore del termine), dinamico perché pieno di alti e bassi, un po’ perché appena aperto, un po’ forse perché davvero non hanno ancora deciso cosa fare da grandi. Comunque interessante, non scontato, ma certamente da provare.
Ma andiamo con ordine.
Si chiama Spice, anche se mentre scriviamo (a oltre 2 mesi dall’apertura) è ancora presente l’insegna del precedente locale. Si trova alle Colonne di San Lorenzo, nella Milano da bere, bella zona ma dal parcheggio improbabile.
Lo chef, patron e animatore è il tatuatissimo Misha Sukyas, milanese di origini armene con esperienze in mezzo mondo da Londra all’Australia, dall’Olanda all’Indonesia passando per la Cina. Ultima esperienza a Milano, all’Alchimista.
Il menu, ridotto a pranzo e più articolato la sera, cambia ogni giorno a conferma della dinamicità che caratterizza il posto. La cucina si rivela subito tutt’altro che banale.
È un melting pot, ricco di spezie, di sapori pieni, diversi. Ma allo stesso tempo con radici classiche, anche francesi, piuttosto salde.
Cucina non troppo leggera per ingredienti e per cotture, ma che non ci ha dato alcun problema nel “post”; a tratti aspra, mai dolce, non sempre facile ma mai difficilissima, indubbiamente interessante.
Cucina di burro, di salse elaborate, diretta, non propriamente ipocalorica e quindi per niente omologata agli standard salutistico-dietetici oggi imperanti, soprattutto nella patria della moda.
Una sfida di successo. A pranzo, in particolare, funziona perfettamente la formula tre portate a 15 euro, per cui il locale è sempre pieno, vista anche l’alta concentrazione di uffici in zona.
La sera il menù cambia e diventa più ricco, ma non cambia la filosofia della cucina, né dell’accoglienza, sempre simpaticamente informale e alla mano.
Certo, non tutto è perfetto, e alcune cose ci sono sembrate onestamente incomprensibili, quasi a rafforzare lo spirito un po’ anarchico del locale.
E così, della parmigiana di melanzane in carta a fine novembre con 4 gradi all’esterno ne avremmo fatto volentieri a meno. Così come della tritatina verde (di prezzemolo & affini) su ogni piatto, fatta eccezione per il dolce.
Degna di un film di Bunuel la surreale mini carta dei vini, che in circa 15 etichette spazia dal Cremant d’Alsace biodinamico di Pierre Frick al blend Sangiovese/Merlot base di Banfi. Difficile, onestamente, trovare un filo logico, ma ad oggi tant’è. E va bene così.
Il fatto è che si esce con la voglia di tornare. E questo è un indizio -assai indicativo- di qualcosa di buono.
Cuochi al lavoro.
Spuma di patate e cozze. Alla base una parmentier molto buona, buone le cozze, nota agrumata, bella acidità.
Risotto uva e taleggio assai ben fatto.
Spago al nero e salsa di astice. Piatto impegnativo, aspro, salsa al burro densa arricchita dal contenuto della testa degli astici. Non banale.
Cervo dolceforte e patata al limone.
Polpettine di salsiccia in bisque di astice.
Molto, molto buono il dessert: un cannellone di grano duro fritto e ripieno di cassata e n’duja.
“Omakase”, in giapponese è, tra l’altro, sinonimo di “fidarsi”.
Implica la circostanza di instaurare un rapporto di fiducia con lo chef, quando il commensale pronuncia quel fatidico “fai tu”.
Sono pochi i ristoranti giapponesi in Italia ad offrire un percorso “carta bianca”, imbastito in maniera sartoriale sulla base del budget del cliente.
A Milano ne conosciamo uno: si chiama Basara e si trova nella modaiola via Tortona, uno tra i locali etnici più amati dal popolo meneghino tanto da essere quasi sempre pieno, a pranzo e cena.
Successo consacrato da un’ulteriore apertura, sempre a Milano ma in Corso Italia, in pieno centro storico, e da una nuovissima succursale a Venezia.
E pensare che il sottotitolo “Sushi pasticceria” potrebbe lasciare non poco perplessi. Qui i dolci sono soltanto buoni, ma chi pensa che questo sia uno dei tanti locali che offre la solita cucina di stampo fusion, si sbaglia di grosso.
Questa, a nostro avviso, con il suo menù Omakase è tra le migliori espressioni di cucina etnica che ci sia, anche fuori dai confini cittadini.
Una cucina che, da un lato, fonda le sue radici nella molteplici sfumature dell’arte gastronomica giapponese e nella ripetuta gestualità che contraddistingue quest’ultima, dall’altro lascia spazio a contaminazioni mediterranee e occidentali, traducendo il retaggio, spesso troppo complesso, del Sol Levante in un linguaggio più ecumenico.
Prima però di proseguire con il nostro racconto, è doverosa una premessa: le foto che troverete sotto, relative alle diverse visite a questa tavola, sono riferite esclusivamente all’esperienza “omakase“, che non troverete in carta ma che potrete richiedere all’atto della prenotazione, soltanto in via Tortona. L’offerta del ristorante, che a nostro avviso si colloca comunque a ridosso degli altri nomi più conosciuti di tale categoria, resta meno articolata -pur contemplando una materia prima di qualità- e sicuramente non con la stessa valenza di questa esperienza.
Gestualità dicevamo, tra le somme arti di un cuoco, soprattutto in Giappone, dove per diventare un “Itamae” ovvero, ad essere riduttivi, uno che prepara sushi, è necessario trascorrere molti anni di apprendistato al fianco di navigati maestri.
Hirohiko Shimizu, originario di Tokyo, se non ha trascorso molti anni presso un grande maestro, deve aver appreso comunque in fretta e molto bene l’arte del sushi. È uno dei pochissimi, se non l’unico in città, ad offrire un servizio “Okonomi”, ovvero una degustazione di nigiri preparati ad uno ad uno in singole porzioni, direttamente sullo “tsukedai”, ossia il bancone (peccato soltanto che questo sia sacrificato a ridosso dell’ingresso, ubicazione non proprio tra le più felici). E solo chi ha mangiato in un autentico sushi bar sa quanti rischi implica questa modalità di servizio. È l’unico modo, questo, in cui si riesce a riscontrare le qualità principali del sushi: temperatura, compattezza e connotato acidulo del riso, materia prima (oltre al pescato, proveniente da diverse zone d’Italia e dall’estero, anche l’alga nori è di un livello nettamente superiore alla media, per non parlare del riccio di mare) nonché senso delle misure (l’equilibrio tra pesce e riso, in Giappone, è un rilevatore chiave con per stabilire la prelibatezza del sushi).
E il risultato, manco a dirlo, è eccellente.
Hiro, come lo chiamano gli amici, è un cuoco dai solidi principi: la freschezza del pescato è un elemento che non può passare in secondo piano. Gli intingoli, le marinature (arte appresa durante l’importante esperienza con Nobu Matsuhisa) che accompagnano i sashimi o qualsiasi altro condimento vengono qui bilanciati, in termini di sapidità ed aromaticità, con maestria. C’è estro nelle preparazioni manuali ed in particolare nel taglio del pesce (la tagliatella di seppia cruda vien presentata con uno spessore che conferisce una consistenza accattivante ma naturalissima). Infine c’è la ricerca, quasi spasmodica, di prodotti di difficile reperibilità (su tutti, ricordiamo un memorabile riccio di mare proveniente direttamente da Hokkaido). Il servizio di sala è solerte e gentile, ma in termini di professionalità ancora lontano dall’eccellenza. Si beve, tutto sommato, discretamente.
Un sincero plauso va fatto ai collaboratori dello chef, non tutti giapponesi o orientali, ma capaci di mantenere uno standard elevato nell’esecuzione delle preparazioni al bancone.
L’invito è rivolto a tutti i gourmet che non conoscono ancora questo posto: è ora di farci un salto.
Tagliatella di seppia, gamberi e capesante crudi, pomodori, riccio di mare, caviale e fiocchi di sale.
Con la testa di gambero adagiata e pronta per essere succhiata.
Si fiammeggia!
Variazione di salmone (varietà scozzese, fantastico), uova di salmone e capesante, finocchietto, germogli, erba ostrica e riduzione di balsamico aromatizzato al tartufo.
Un sashimi da urlo (tonno, ricciola, salmone e scampo) con intingolo di soia e yuzu e qualche tocco di mediterraneità (olive taggiasche, pomodoro, capperi).
Wasabi, fresco, in accompagnamento.
Parte la batteria dei nigiri: ricciola.
Tonno. Seguito subito dopo dal “toro”, ovvero la ventresca del tonno. Notevolissima qualità (provenienza croata).
Gambero rosso siciliano.
Sgombro.
Ventresca di ricciola appena scottata con il cannello. Classico boccone da Re.
Calamaro.
Gunkam con riccio di mare e uova di salmone.
Ancora gunkam. Tartare di tonno e uova di salmone.
Si passa al cucinato: branzino cileno al miso, accompagnato da una prugna giapponese. La cottura è perfetta e l’aromatizzazione non altera il sapore dell’eccellente pesce.
Temaki con Anguilla e foie gras.
Una delle specialità della casa: uramaki di avocado con moeca e capasanta in tempura, tartare di astice con maionese ai ricci di mare, granella di tempura e riduzione di salsa di soia. Inno alla gola. Da gustare ogni singolo ingrediente, ovvero tutto insieme.
Dettaglio.
Eccoci ai dolci, presentati su un vassoio, tutti fatti in casa: tiramisu al sesamo nero. Discreto.
Daifuku: pasta morbida di riso ripiena di marmellata di fagioli rossi
Buono, più tradizionale anche nei sapori.
Di seguito le immagini di un omakase servito in un’altra visita
Da quando ha trovato la propria formula di definizione, il mondo creativo di Filippo La Mantia non ha più subito battute d’arresto.
Si auto-definisce Oste & Cuoco questo palermitano trapiantato prima a Roma, all’hotel Majestic di via Veneto che, grazie a lui, si è rianimato come ai tempi de La Dolce Vita, poi a Milano dove, nell’Anno Domini di Expo, si è insediato nei locali che prima ospitavano lo sfortunato Gold, della coppia fashion Dolce&Gabbana. Tra queste mura, ha dato vita a un locale omonimo che ha la presunzione di gestire come a casa sua, dove ogni cliente diventa nient’altro che un suo ospite, anzi il suo ospite d’onore, per giunta.
E ci riesce, eccome se ci riesce, tra il calore sprigionato dai tessuti che tutto avvolgono e ovattano, ivi è possibile intrattenersi, proprio come a casa, anche in attività che poco hanno a che fare con il cibo, come leggere il giornale oppure, come noi, lavorare alla recensione che state leggendo.
Del resto, si tratta sempre di una questione di formule e, a vedere la reazione del pubblico, milanese e non, sembra proprio che in Italia ci fosse bisogno di un posto come questo: un iper-luogo pervaso di domestica autenticità, eleganza e personalismo, aperto dalle 7,30 del mattino all’una di notte, dove restare, senza imposizioni, dalla colazione al dopo cena. In sintesi? Si tratta di un luogo che ridefinisce lo spazio di una nuova convivialità, di un’ospitalità contemporanea, insomma, che abbatte le soglie di demarcazione del pasto, dei costumi a esso legati e del tempo a esso dedicato.
A vederlo da fuori, senza conoscerne le implicazioni, potrebbe sembrare invero il salotto di un hotel di design, dove ogni seduta è una storia e un’atmosfera a sé stante: divani, poltrone, chaise-longue, triclinii, il tutto a disposizione dei clienti, in uno stile “ordinato ma non finito”, così come lo definisce lo stesso patron.
Filippo La Mantia, del resto, non è solo uno chef: il suo passato, i suoi trascorsi, parlano di molto altro, e si vede, si intuisce in tutto quello che tocca e che poi plasma a sua immagine e somiglianza. Non è più un mistero, infatti, ch’egli in cucina usi solo quello che gli piace, un outing in piena regola che lo ha portato a rinunciare con leggerezza ad elementi come l’aglio e la cipolla che, al La Mantia uomo, difatti, non sono mai andati a genio.
Stesso discorso, per noi, della critica enogastronomica: egli proprio non la teme perché, semplicemente, non lo riguarda, lui con la sua cucina purista, ovvero liberata da odori, salse e soffritti, ma palermitana fin nel midollo, anche nell’ospitalità che, appunto, non conosce né tempi né confini. E il mondo reale gli ha dato ragione, giacché il suo locale è sempre fully booked da una clientela fedele, che non riesce più a fare a meno del mondo parallelo che egli ha creato, che tanto piace ad altre dimensioni, altrettanto stravaganti, come quelle della moda, o dello spettacolo.
E così può capitare di andare da Filippo La Mantia per bere un cocktail e incontrare Sharon Stone, forse anche lei nel novero degli habitué, irretita come noi dall’ambiente, e da una cucina che offre quello che promette: un tuffo di testa nei sapori e nel gusto della tradizione siciliana urbanizzata dall’assenza di grassi e dal contesto. Con dei costi però decisamente sostenuti, probabilmente allineati a ciò che si aspettano questi personaggi ma non certo noi, per quanto proposto.
Del resto, qui non inseguono le stelle Michelin, ci sono già quelle di Hollywood!
La sala al piano terra.
La caffetteria (bonus per il caffè espresso-pop servito al banco a 1€).
La mise en place.
Il cestino del pane, discreto e non molto vario.
La frittata con capperi e acciughe. In carta ce ne sono sempre quattro; una valida alternativa agli antipasti tradizionali, magari da condividere.
La linguina con la mollica del pane, i capperi, l’acciuga ed il peperoncino dolce.
Gli involtini di pesce spada con il cous cous tostato alle mandorle.
La cassata siciliana.
Nuove sfide.
Le uniche in grado di spazzar via la monotonia e scrollare di dosso la polvere della stabilità, della sicurezza, della routine.
Lo straordinario che diviene il nuovo, non in quanto favoloso bensì inteso come non-ordinario, in senso letterale.
Rimettersi in gioco: aria nuova, nuovi confronti, scommesse azzardate.
Arrampicarsi faticosamente in cima e, una volta raggiunta la vetta, spazzare via tutto per ricominciare, per tentare di tornare ancora più in alto.
Che sia una forma di lucida follia? Può darsi, certamente ci vuole un briciolo di irrazionalità e, comunque, tanto coraggio. Un vero e proprio sport estremo, nascosto nelle pieghe dell’ordinario.
Yoji Tokuyoshi in cima ci è arrivato, passo dopo passo, a piccoli passi. Nove anni trascorsi tra routine, perfezionismo, ripetitività e testardaggine. Un lavoro come tanti il suo, non fatto come tanti ma meglio di tutti, fianco a fianco dello chef del momento. Per questo, una delle posizioni probabilmente più invidiate nel settore: secondo di Massimo Bottura in Osteria Francescana. Colui che, in assenza del leader Maximo, dirige le cucine di uno tra i migliori ristoranti sull’ecumene terrestre, il ristorante che ha riscritto le pagine della gastronomia italiana degli ultimi anni. Anni di fatiche, certo, di sforzi, di sudore, vissuti non da stagista capitato nel periodo fortunato ma da asse portante, da ruota sterzante del carro.
Fatiche ripagate da un vero e proprio trionfo unanime di critica, pubblico e parere di colleghi.
Poi un bel giorno ti svegli e, come un fulmine a ciel sereno, decidi che non è più tempo.
Basta così.
Nonostante l’altissimo livello, forse la vita da “secondo” inizia a stare stretta. Cancellato tutto, si ricomincia da zero. Un nuovo ristorante, dove metterci la faccia, il nome, e assumersi la totalità degli oneri, dei fardelli che una scelta del genere porta con sé, con benefici, certo, ma soprattutto con rischi, talvolta, anche altissimi.
Ma del resto, “chi lascia la strada vecchia per la nuova…”
Un adagio popolare, che mal si addice alla straordinarietà tuttavia, in questo come in molti altri casi, serba un pizzico di verità.
Nove anni in un team d’elite, ai comandi di una macchina vincente, forgiano una mentalità indiscutibilmente vincente e un approccio, forse, di beata sicumera. Ma, dura lex valida per tutti i campioni, è necessario che la totalità dei tasselli siano al posto giusto per continuare a primeggiare, ed è per questo che questo nuovo attore della cucina contemporanea italiana, a tratti, sembra vacillare.
In via San Calocero, a Milano, risiede oggi indubbiamente un campione, che non riesce però ad esprimersi come tale in quanto le condizioni per farlo, ancora, non ci sono.
È per questo che la cucina di Tokuyoshi è, tuttora, un continuo e inesorabile richiamo alla Francescana, una continua e indefinita citazione sul filo che separa la forma mentis dal plagio; e infatti, se molte delle piccole idee, come germogli, a Modena trovavano terreno fertile per divenire grandissimi piatti, a Milano rimangono in stato embrionale, soffocati dalla carenza di terra e acqua.
Un continuo toboga in bilico tra sottocoppia e fuorigiri, con piatti che giungono in tavola portando in dote temperature incorrette, carenze di contrasti, deficit di concentrazioni o ridondanze evidenti intervallati ad altri nettamente più risolti e compiuti, che mostrano chiaro e limpido l’ingombrante background di colui che li ha pensati ed eseguiti.
Come un germoglio in stato di sofferenza, Yoji sembra risentire della mancanza di un team affiatato, in grado di affermarsi come tale durante tutta la sintassi del pasto, in tutti quei passaggi che dividono l’idea dal piatto perfetto: è per questo che, al momento, questa tavola fatica a trovare -e a mantenere- tanto la rotta quanto la velocità di crociera.
Può un grande Secondo diventare un grande Chef? Certamente, a patto però che si ripristinino tutte le condizioni di partenza, perché il solo background rischia di restare una fondamenta priva di sostanza.
Come un pregiato tondino d’acciaio, che rimane tale senza la presenza degli indispensabili acqua e sabbia necessari per divenire cemento armato.
Gli Appetizer, che seguono la scelta del menù.
Nel nostro caso quello più ampio (chiamato “Sensazioni”, con un evidente richiamo al suo maestro), che negli otto mesi dall’apertura ad oggi è già stato ritoccato verso l’alto nel prezzo, da 80 a 100 Euro.
“Bruschetta di canocchie”.
Piatto essenziale, che risente della non rilevante qualità della canocchia. Decisamente migliore il brodo di crostacei in accompagnamento, concentrato e carico di umami, da bere in chiusura.
La prima bottiglia, per iniziare.
“Cannolicchi nel porro”.
Piatto goloso, che però trova a fatica un punto d’incontro tra la natura filamentosa del porro e quella gommosa del cannolicchio. Nemmeno la concentrata salsa di caciucco, versata a finire il piatto, riesce a creare una doverosa amalgama.
“Sarde bruciate non bruciate”
Pregevole la presentazione (nonostante “l’ispirazione” evidente, tanto nello stile quanto nel nome), che utilizza la tecnica Gyotaku per la stampa della testa del pesce sul piatto. Peccato che il riscontro al palato sia alquanto basilare, ovvero poco altro che un filetto di pesce, nulla più nulla meno.
“Scampi a merenda”.
Uno scampo, tagliato longitudinalmente e unto con dell’olio siciliano, farcito con del mascarpone all’interno del carapace. Vista l’esiguità e la difficoltà di estrazione del formaggio, all’atto pratico uno scampo all’olio. Evidente inoltre l’eccesso di grassezze e la carenza di contrasti.
Il secondo vino, scelto come sostituto ad un altro presente in carta ma non in cantina.
“Lumache & Anguille nella vigna”
Ci risiamo: ispirazione evidente oltre ogni spiegazione, tanto nel nome quanto nell’impiatto, purtroppo non nel risultato finale. Fungo, anguilla, lumaca, salsa, foglie, lardo di Colonnata: oltre alla ridondanza, ogni ingrediente prende una strada differente dagli altri, senza mai raggiungere una fusione auspicabile.
“Risotto alla milanese sempre croccante”
Altro giro, altra… ispirazione: piatto molto, molto simile ad uno del 2011 già provato a Modena. In ogni caso, qua il passo cambia, la portata si rivela piacevole, golosa e divertente.
Riso all’olio con pelle di pomodoro.
Altro piatto ben riuscito, rivolto prettamente verso le note dolci ma equilibrato e piacevole. Cottura magistrale del riso e ottima mantecatura.
Il terzo vino, scelto come sostituto ad un altro presente in carta ma non in cantina (no, non è un maldestro copia-incolla non corretto dal vino precedente).
“Piccione”.
Il piatto della serata: davvero eccellente, con il piacevolissimo contrasto tra lo jus e la nota pungente-piccante del rafano.
Praticamente inutile invece il dolce bicchierino di succo di pomodoro, servito a parte, in quanto non complementare al piatto.
Il predessert: meringa, erba fungo, zafferano.
Il dessert, “Cemento e Terra”.
Dolce molto, molto buono, dallo stile moderno ma gradevole e sostanzioso. Meringa al carbone vegetale, gelato al topinambur, mascarpone, crumble salato al cacao.
Il bancone ereditato da Wicky’s, il predecessore. Chiedete espressamente di volervici sedere all’atto della prenotazione, se gradite.
Curiosi dettagli all’ingresso.