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Seta

Antonio Guida, il perfetto Couturier Gastronomico

Seta è il famoso ristorante fine dining all’interno del Mandarin Hotel, a due passi dal Teatro alla Scala di Milano. Locale di grande eleganza e accoglienza, nel quale Antonio Guida coordina un team super affiatato di professionisti, tra cui spicca Federico Dell’Omarino, executive sous-chef, che è il suo braccio destro da tempo immemore; ma ci sono anche Marco Pinna, pastry chef, cresciuto con l’altrettanto collaboratore storico Nicola Di Lena e a lui subentrato; Manuel Tempesta il giovane direttore di sala presente sin dall’apertura, che supervisiona con attenzione il servizio e garantisce i più alti standard di ospitalità, in linea con la filosofia dello Chef.

Guida, da perfetto couturier gastronomico, ha la bravura di permettere al commensale di seguire chiaramente la trama della sua proposta culinaria, assaporandone la complessità, ma, soprattutto, fa svelare al palato l’ordito, ciò che sta dentro e sotto la trama e che racchiude il potere magico di una fantastica storia di gusto. Spingendo sulle analogie con i tessuti, lo Chef ha la capacità di coniugare tre elementi: l’eleganza della seta (nella presentazione dei piatti), l’arte del ricamo (evidenziando con maestria molteplici dettagli) e il calore del cachemire (nei sapori confortevoli e avvolgenti).

La nobiltà della cacciagione

Come ogni anno, nel periodo autunno inverno, lo Chef dedica uno dei suoi tre percorsi degustazione alla cacciagione, lavorando in modo assolutamente originale germani, pernici, colombacci, cinghiali, caprioli, restando sul classico solo con la lepre (nella versione à la Royale), rendendo omaggio al loro sacrificio. Il tutto viene trattato con una grazia, una eleganza e una leggerezza di fondo, che non vanno per nulla a discapito della incisività del gusto, amplificato in una emissione multidimensionale. Abbiamo provato sia alcuni piatti del menù “Cacciagione” sia qualche portata del “Qui e ora” (il percorso che cambia con le diverse stagioni).

Il Colombaccio con alghe, seppia e funghi è un gioiellino iniziale, uno di quei piatti di cui si percepisce già al primo assaggio, il suo essere speciale; il Germano reale farcito con composta di uvetta e zucca ha una cottura perfetta, tenero, umido al punto giusto e straordinariamente goloso. Il Risone, una pasta considerata normalmente per uso in minestre o in brodo, è invece usata spesso dallo Chef (ricordiamo la fantastica versione con Salsa di cervella di astice, curry e fegatini di pollo) e torna in un piatto che è di fortissimo impatto immediato e svela, a ogni forchettata, i vari elementi che la arricchiscono: la parte amara delle cime di rapa, il profumo del tartufo nero, la ferrosità dei fegatini di pernice (la parte meno percepibile) e la sapidità e iodosità spiazzante dell’acciuga.

La parte dolce vola alto con giochi di acidità e di equilibri perfetti con alcune componenti vegetali come la barbabietola o il finocchietto. Concludiamo con una valutazione che riconosce un ulteriore passo avanti, rispetto ad un punteggio già elevato, che conferma Seta e la cucina di Antonio Guida come eccellenza, non solo nel panorama della ristorazione milanese.

IL MIGLIOR PIATTO: Colombaccio con alghe, seppia e funghi.

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Ritorno al futuro

Da un ascensore ad un altro. Il primo si addentrava in uno scantinato, l’altro, quello attuale, ascende a una cornice meravigliosa, nel cuore della Galleria Vittorio Emanuele II, dove ha trovato odierna collocazione il ristorante di Carlo Cracco. Il cuoco vicentino si divide tra format televisivi divertenti e la cucina del suo ristorante che continua sorprendentemente, nonostante l’inversione motoria dell’ascensore, ad essere uno dei più innovativi e audaci del panorama italiano. Del resto dietro ai fornelli c’è Luca Sacchi, executive chef di indiscutibile caratura tecnica, diventato con gli anni – prima sotto Baronetto e oggi direttamente con Cracco – la trasposizione attuale del suo mentore. Tutto quello che si faceva da Cracco vent’anni fa – e che pochissimi in Italia erano capaci di replicare – si fa oggi in Galleria.

Una cucina di innegabile maturità espressiva, consapevole dei propri mezzi e del proprio passato. Idee chiare e scelte mirate anche in ottica di sostenibilità che vanno incontro ai tempi duri che corrono. Nel panta rei della ristorazione, l’eccellenza e l’attualità di questa tavola rischiano quasi di passare inosservati tra diversivi mediatici, attacchi gratuiti e una miriade di nuove aperture; bastano però biglietti da visita come l’Insalata russa caramellata o il famoso Tuorlo d’uovo marinato – oggi servito come un irresistibile burro – a far riaffiorare rosei ricordi di una cucina che, tanti anni fa, era uno dei fiori all’occhiello dell’avvenire gastronomico italiano e che ancora oggi è in grande spolvero e sembra essere tornata ai fasti del passato.

Un ristorante in forma smagliante

In verità, escluso l’inevitabile periodo del complesso rodaggio, il livello di creatività di questa tavola è sempre stato costante. Lo dimostrano piatti come l’ormai classico – ma già migliorato – Salmerino in crosta, di elegante voluttuosità, o la nuova Sogliola “alla cacciatora” in crepinette con una straordinaria quenelle di ketchup ai funghi porcini a latere, capaci, insieme alle spiccate note acetiche e quelle abbrustolite del peperone, di regalare sprazzi di alta cucina mista a sapori della grande trattoria, che rappresentano creazioni complesse ma con tanta profondità gustativa e dimostrano come i dogmi della cucina classica possano essere rispettati anche sostituendo gli ingredienti insostituibili nell’immaginario collettivo. Lo Spaghettino ai ricci di mare, dragoncello e cocco è un altro piatto dal virtuoso equilibrio di sapori, dove l’echino, ingrediente feticcio di Cracco, funge da collettore iodato di note lattico-vegetali ed erbacee aromatiche. Imperioso anche il doppio servizio del coniglio, con la Sella con salsa di frutta secca e cacao che esteticamente ricorda una “royale” ma in verità presenta un gusto italianissimo e la Coscia fondente in cappuccino di lumachine di mare, polenta bianca e midollo, per un finale quasi dolciastro. A chiudere il pasto un’altra creazione iconica ma attualissima nell’articolato registro di sapori: Crocchetta di gianduja, crema di chinotti al maraschino e caviale, un dessert-non-dessert che non vede nè vincitori nè vinti nell’affascinante confine tra dolce e salato.

Il servizio di sala, guidato dal bravo Gianluca Sanso, con una predominante quota rosa, trasuda apprezzabile entusiasmo. Finanche la monumentale carta dei vini che è notoriamente enciclopedica e profonda, oltre che proibitiva, può riservare sorprese inaspettate, così come inaspettatamente piacevoli si sono rivelati alcuni abbinamenti tra il cibo e bevande, non solo alcoliche.

Bisogna tornarci oggi da Cracco, per riprendere il filo di un discorso interessantissimo sulla cucina moderna e d’autore, perso con il passare del tempo e la troppa luce mediatica che si è abbattuta su uno dei più grandi cuochi italiani del nostro tempo. Come vent’anni fa, ancora oggi, vi potrete sorprendere ed emozionare. 

IL PIATTO MIGLIORE: Sogliola alla cacciatora.

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Il nuovo corso gourmet nel lussuoso salotto milanese del Park Hyatt

Dopo la proficua esperienza con lo Chef Andrea Aprea, che in qualche anno ha portato il ristorante del Park Hyatt alle due stelle Michelin, le cucine del lussuoso albergo nel cuore della Galleria Vittorio Emanuele sono state affidate al giovane Guido Paternollo, trentatré anni di cui molti passati a studiare ingegneria prima della folgorazione per l’alta cucina. Sono brevi ma importanti i suoi trascorsi alla corte di grandi cuochi di caratura mondiale: Yannick Alléno, Alain Ducasse e il pluripremiato Enrico Bartolini.

Potrebbero bastare questi tre pesi massimi della cucina per decretare, sulla carta, il successo annunciato del nuovo ristorante fine dining di via Pellico 3, la strada da cui prende, appunto, il nome l’omonima insegna. È anche vero, tuttavia, che non sempre un prestigioso curriculum sia foriero di grandi risultati, soprattutto quando c’è Il rischio di deludere le aspettative perché ci si deve confrontare con i gusti della clientela internazionale – e facoltosa – di un albergo di lusso nel cuore di Milano. Per fortuna che Paternollo e la sua giovane e motivata brigata sappiano il fatto loro e siano anche ambiziosi, lasciando intravedere grandi potenzialità e solide conoscenze tecniche per poter consolidare una cucina già con una interessante centralità gustativa.

Vocazione classica e anima mediterranea

Segnali che vanno ben al di là degli auspici all’assaggio di piatti che, oltre alla curata componete estetica, presentano compiutezza gustativa e rigore tecnico. C’è vocazione classica, di salse e intingoli concentrati e un’anima mediterranea che emerge in maniera netta dal combinato utilizzo di pesci e crostacei, erbe e verdure di stagione e interessanti speziature, che siano aromatiche o piccanti ma certamente dosate al millimetro. È concentratissimo nella sua essenza salmastra lo Spaghetto alla chitarra, zafferano ed estrazione di zuppetta di pesce, apparentemente un esercizio stilistico che mette in risalto i trascorsi del cuoco Paternollo in Francia con la rievocazione di una bouillabaisse che viene fatta ridurre ad essenza (sulla stessa scia delle “estrazioni” di Alléno) e poi mantecata con lo spaghetto. In verità si tratta di un piatto riuscitissimo nel gusto e persistente nella sua componente più interessante, quella della zuppa di pesce, la cui salinità viene accentuata da un profumatissimo zafferano e diventa ancor più briosa con la lieve piccantezza del peperoncino che esce sul finale. Anche il Rombo confit, confettura di alghe allo yuzu, emulsione di piselli, cassolette primaverile e lumachine di mare lascia intravedere le evidenti doti tecniche di Paternollo, che risaltano l’ingrediente principale nonostante il ricco accompagnamento a latere. Il discorso cambia nei Tortelli con ‘nduja di suino nero di Calabria, ricotta di pecora e melograno dove abbiamo riscontrato poco mordente, in quanto l’insaccato calabrese tende a latitare rimanendo fin troppo avulso dall’insieme degli ingredienti tra i quali spicca, invece, il latticino, oltre all’acidità del melograno. Freschezza e piacevolezza si ritrovano anche nei dolci, senza particolari complessità tecniche ma tutt’altro che banali al gusto.

L’ambiente è lussuoso ma al contempo sobrio e non lascia spazio a distrazioni; il personale di sala, giovane e premuroso, è guidato dalla brava Giusy Chebeir. La carta dei vini è fornitissima e custodisce anche etichette e annate importanti, con un ricarico consono all’insegna e all’ubicazione del ristorante.

IL PIATTO MIGLIORE: Spaghetto alla chitarra, zafferano, estrazione di zuppetta di pesce.

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Le innovative sovrapposizioni narrative di Enrico Croatti

Moebius è lo pseudonimo scelto dall’artista Jean Giraud, che si era ispirato al creatore del simbolo di infinito; le sue opere esploravano le frontiere dell’inconscio e del sogno. Autore di mondi rarefatti e fantascientifici in cui avevano luogo immaginifiche trasformazioni fisiche sullo sfondo di spazi astratti e indefiniti. La realtà si mescolava all’irrealtà, dando luogo a innovative sovrapposizioni narrative. Moebius è il nome e la fonte di ispirazione di un locale affascinante, ricavato da un deposito tessile in disuso, divenuto un contenitore con cocktail bar, un angolo per vendita vinili, spazio concerti, tapas bar e, sospesa a quattro metri d’altezza, una piattaforma. Qui ha preso forma l’idea più avanzata di ristorazione di Enrico Croatti che, dopo varie esperienze prestigiose, locali e estere, in questo spazio sospeso, ha sviluppato un luogo di sperimentazione, con cucina a vista, Chef’s table e una trentina di coperti. La sperimentazione è nell’approccio alla cucina di Croatti, la voglia di esplorare e di divertire, con piatti che sono, comunque, sempre centrati sul gusto, con sovrapposizioni fra Emilia Romagna, Spagna e Oriente.

Rimini 1982 Pro

Rimini è il luogo di provenienza, 1982 l’anno di nascita dello Chef e “Rimini 1982 Pro” è il percorso degustazione più completo e a mano libera del Moebius, nel quale le sovrapposizioni narrative si susseguono nei vari piatti. Il Risotto alle canocchie ti porta direttamente in Romagna e sa di mare, mantecato proprio con le canocchie e con le stesse, crude e gratinate, appoggiate sul risotto, risulta essere molto intenso e buonissimo. Seppia e piselli è un piatto decisamente intrigante per la sua complessità e peculiarità, grazie all’apporto di un pesto verde messicano, pasta di lime, dashi e un estratto di bosco che è un fondo, super umami, ottenuto dalla cottura di dodici tipi di funghi. Goduriosi gli Agnolotti con ripieno di ossobuco, serviti come plin, nel tovagliolo, da intingere, con le bacchette, in un fondo bruno con una intensa salsa allo zafferano e gremolada, un piatto che è divenuto, oramai, un signature dish; destabilizzante ma riuscito il siparietto teatrale del servizio al tavolo che, per questa portata, inscena una lite fra sala e cucina. Insolito ma vincente un piatto dall’impiattamento minimal, molto materico, con l’accostamento dell’Agnello, cotto alla brace, con il gambero rosso crudo e fave, da mangiare, assolutamente insieme, in un gioco di consistenze, dolcezza, iodosità e sapidità. Il Branzino, ucciso con il metodo Ikejime (che mantiene la qualità della carne prima di essere congelato) con salsa di carote viola, ravanelli e uova di trota ha una deriva sul dolce che potrebbe essere corretta con un po’ più di acidità. Carino il trittico con gli asparagi protagonisti, alla brace, in accompagnamento a un chawanmushi sempre di asparagi e caviale, che termina con il vegetale avvolto da alga nori; in realtà avremmo preferito, come fruizione, nella prima parte, avere l’asparago lamellato e posato direttamente sul chawanmushi. Il Piccione “bruciato” gioca in modo divertente sull’aspetto visivo, presentato non come tale ma come cioccolatino (in realtà ricoperto di cacao) e servito con pera Nashi, avvolta da una salsa di gorgonzola.

Un percorso degustazione vario, intrigante, che ha un suo fascino, al quale contribuisce indubbiamente la location e qui, sospesi su una piattaforma, all’interno del Moebius, un locale di grande modernità e di bellezza, si travalica l’ordinario, si sta bene e si pensa di ritornare.   

IL PIATTO MIGLIORE: Seppia, il suo nero, piselli, dashi, pesto verde, lime, estratto di bosco.

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Le 4F di Fascino

Siamo all’interno dell’affascinante Fondazione Prada, dove svetta l’affascinante ristorante Torre con un’affascinante vista sullo skyline di Milano. Qui lo Chef Lorenzo Lunghi affascina con la sua cucina, quindi 4F: fascino della location, dell’interior design, dello skyline e della cucina. Torre è sì il ristorante di fine dining all’interno di Fondazione Prada, ma vive e dovrebbe vivere ancora di più di propria luce: fa specie che sul sito non ci sia ad esempio il menù e quindi non si possa comprendere l’offerta gastronomica; fa specie anche che non ci sia un profilo dedicato sui social più importanti, così come il fatto che non esista ufficialmente un menù degustazione ma solo una carta, pure abbastanza stringata, anche se poi a richiesta lo Chef si diverte a improvvisare e a creare piatti che riescono a sorprendere.

Abbiamo già raccontato qui di Lorenzo Lunghi, giovane ma non giovanissimo, toscano, e del suo passato con Fulvio Pierangelini e poi allo Chateaubriand e Saturne. Quello che colpisce di lui è la cifra stilistica assolutamente distintiva e la vis creativa che rende piatti che, leggendoli sulla carta o, quando presentati, sembrerebbero “normali”, ma che in realtà hanno sempre quel qualcosa, uno sprazzo di luce che li trasforma. Piatti belli, intensi e gustosi con le componenti di  freschezza, sapidità, dolcezza, acidità e profumi che giocano insieme e divertono il palato. Salse squisite e perfettamente dosate, uso intelligente e intrigante di erbe e della componente vegetale a valorizzare la proteina sia pesce sia carne. 

Tecnica, creatività e palato

L’iniziale Tartare di dentice con noci fresche, olio alla cipolla e consommé affumicato è bella da vedere e porta una grande freschezza al palato, per iniziare bene il percorso degustazione; interessante il piatto “vegetale” con Asparagi bianchi, lardo, crema di scamorza e salsa olandese, gustoso e sapientemente equilibrato nelle varie componenti. Originali gli Spaghettoni con pomodoro verde, mela, bottarga, ricotta affumicata e crisantemo con un bel gioco su sapidità, acidità e dolcezza. Iodio, grassezza e dolcezza si amalgano perfettamente nel piatto con i pregiati Rossetti, calamaretti spillo, cipolle arrosto e le due salse, al nero di seppia e alle mandorle. Super gustosa la Guancia di dentice alla brace, ricoperta di fiori d’acacia e accompagnata dai piselli, così come l’Agnello, crema di pistacchi, fave e bruscandoli, squisito. Sulla parte dolce, interessante il pre-dessert con la componente vegetale che rinfresca e pulisce il palato nel Brodo di rabarbaro con mirtilli, mousse di sambuco, gelato e olio alla verbena, mentre non spicca per creatività il dolce vero e proprio.

Come detto, auspichiamo soprattutto che si vada sulla strada di valorizzazione sempre più identitaria del locale, dando spazio e ufficializzando un percorso degustazione e, di conseguenza, mettendo giustamente sempre più in luce il talento di Lunghi. Da lui ci aspettiamo uno sviluppo più creativo proprio sulla parte dei dolci che lo porterà, tranquillamente, a migliorare il punteggio.

IL PIATTO MIGLIORE: Agnello, crema di pistacchi, fave e bruscandoli.

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