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La pasta, la foglia di pomodoro e il Cinsault

L’illusione dell’orto tra pomodoro e Cinsault

Se c’è uno Chef capace di congegnare piatti fortemente innovativi ma, al contempo, risolutamente legati alle espressioni più vernacolari del territorio marchigiano, quello è certamente Mauro Uliassi. Una conciliazione che è andata facendosi sempre più chiara, di menù in menù, fino al Lab 2021 che, più che mai, sembra poter combinare neuroscienza ed edonismo, grazie alla puntuali sollecitazioni al e dal mondo dei sensi. In questo contesto, però, un ulteriore lampo illumina il percorso: la pasta e pomodoro alla Hilde, che dell’indagine di Uliassi sulla decodifica di sapori e odori è l’emblema. La sua sfida, del resto, contempla l’idea di trasferire il profumo del raspo dei pomodori al piatto, evocando le piante di un orto caldo di sole. Curioso, tuttavia, che questa scommessa Uliassi la vinca non tramite il pomodoro ma grazie a un infuso di foglie di fico…

Vegetale. Insomma. Ma non di pirazine, piuttosto di un ché di agreste, di semplice, di genuino. Come questo grande Languedoc Marie-Galante di Domaine Zélige-Caravent, un 100% Cinsault floreale, di eleganza borgognona, affatto “meridionale” per un vino del sud della Francia ma anzi molto slanciato e zelante nel rilanciare, al palato, le sensazioni bucoliche del piatto, di cui potenzia la portata aromatica. Siamo nella denominazione di Pic Saint Loup, nella sottozona di Corconne, in un angolo di Linguadoca tra Montpellier e Nimes su un terreno di ciottoli di ghiaia e calcare. Qui, dove le rese per ettaro sono molto contenute, si vinifica un vigneto di età di circa 35 anni. Le uve, completamente diraspate, vengono fatte fermentare con lieviti indigeni in cemento. Né filtrato né chiarificato, sorso e boccone parlano la stessa genuina, trasognata lingua: quella della natura.

Uliassi Lab 2021: l’infinito (g)astronomico e l’impero dei sensi

Sono definiti, per convenzione, «numeri astronomici» quei numeri che, definendo aritmeticamente l’incommensurabilità dell’universo, non possono essere ‘significati’ se non ricorrendo a espressione matematiche che sfuggono le consuete logiche alle quali si è abituati dalla quotidianità. Eppure questi numeri – costruiti da tanti zeri – non riguardano solo le stelle e le galassie. Assurdamente, ma neppure così tanto se si pensa all’adagio di Ermete Trismegisto, «così in alto come in basso», sono i medesimi che si utilizzano per esprimere un universo molto più piccolo, ma altrettanto complesso: quello della mente umana.

La neuroscienza ci dice (ovvio, per similitudine approssimativa) che nel cervello dell’uomo si sviluppa un processo sinaptico pari al numero dei corpi celesti presenti nella intera Via Lattea. In altre parole sono le sinapsi, ovvero le interconnessioni fra i neuroni, a consentire all’uomo di ‘pensare’, traendo esperienza e conoscenza da ciò che percepisce attraverso i cinque sensi (vista, udito, gusto, olfatto, tatto). Sul molo di Senigallia, fra il porto e la “spiaggia di velluto”, forse di neuroscienza e di numeri astronomici non se ne è parlato in modo approfondito. Ma, invertendo il processo cognitivo, del potere dei cinque sensi in senso gastronomico, sì. E molto.

Mauro Uliassi, che da anni ha abituato la sua sempre più folta schiera di affezionati ospiti a piatti fortemente innovativi ma al contempo legati alle espressioni territoriali e tradizionali di quello scampolo di terra marchigiana divisa tra le dolci colline e l’azzurro intenso del mare, lo dichiara con orgoglio: «nel nostro lavoro ci basiamo sui sensi: è così che riusciamo a veicolare il nostro concetto di cucina». Ed è pure così che, certo forse più empiricamente di un neuroscienziato ma con altrettanta caparbietà, Uliassi e la sua squadra hanno messo a punto un menu, Lab 2021, che, più che mai, riesce a coinvolgere gli organi percettivi, in un viaggio lungo dodici corse, alla scoperta delle gastronomiche potenzialità dell’impero dei sensi.

Il senso del percorso

I Lab proposti da Uliassi, negli anni passati, sono sempre stati caratterizzati da piatti che, anche estratti dal menu e mangiati singolarmente, avevano una loro compiutezza formale, stilistica e gustativa. Il Lab 2021 (che va prenotato in anticipo, ed è proposto al prezzo di 200€) si segnala invece per essere una successione di pietanze completa e conchiusa solo all’interno del percorso. Ed è proprio l’azione del percorrere, attraverso i sensi, a dare un senso al percorso e a costruirne i significati, i limiti, le potenzialità.

Con Lab 2021 cuoco e ospite sono chiamati a sostenersi in una sfida comune. Non c’è ragione né sentimento: ma la sensazione tattile del dito che Uliassi invita a utilizzare per tirare su dal piatto ciò che rimane de l’eleganza del riccio (ricci di mare, limone, chinotto, finocchio selvatico, alias levistico), il piatto che, forse in modo sin troppo cerebrale, apre la sequenza. O la suggestione profumata che suscita il gambero rosso con cervella di gambero, zenzero, arancia e cannella (ripensamento del celebre gambero rosso agrumato che tanto successo ha riscosso gli anni scorsi). O la pienezza del gusto della provocante ostrica con rafano, ciliegie, rognone di pecora e maionese alle uova di coregone.

Come staffili, questi tre piatti aprono la successione in modo tagliente, quasi vogliano risvegliare i sensi, e riattivare un processo della conoscenza che devii dal percorso del noto e dalla comodità dell’ovvio. Fra la sogliola al vapore, lattuga e bergamotto (“omaggio a Piergiorgio Parini“) e le lumache ed erbe di sabbia: finocchio marino, asparagi di mare, kalanchoe e ficoide glaciale, il percorso mostra sempre più il suo volto, assumendo senso nei sensi. L’udito si appaga nei suoni delle consistenze delle seppie sporche con fegato di seppia, cipolle di Cannara e foglie di cappero. Mentre la vista si perde nella cromatica costruzione del colombaccio (con paprica affumicata, rancido di prosciutto e peperoni cruschi: uno fra i migliori piatti di cacciagione sinora mai proposti da Uliassi) e la bellissima rilettura di un classico dell’alta pasticceria francese: il Paris-Brest.

Ma un ulteriore lampo illumina il percorso: pasta e pomodoro alla Hilde. Una provocazione? No, non è nello stile di Uliassi, che le provocazioni non ama. Piuttosto ancora un viaggio in profondità fra senso e conoscenza. Una sfida: come trasferire il profumo del raspo dei pomodori – quel buon odore che si avverte, in estate, camminando in un orto ben tenuto – in un piatto? Presto detto: con un infuso di foglia di fico e burro…

Intanto, nelle bianche sale e nella struggente veranda, sinestetico davanzale sulla ‘spiaggia di velluto’, Catia e Filippo – sorella e figlio di Mauro – dirigono con consumata maestria una partitura fatta di giovani sorrisi, spigliata cortesia e sottile finezza. E l’impiantito sulla sabbia, che di sera si illumina di lanterne, con i suoi cuscini e le sue avvolgenti sedute, pare l’ennesima tentazione all’infinito prolungamento di un pasto che si vorrebbe non finisse mai. Mentre la lenta risacca, come un’ancestrale cantilena, come primordiale liquido amniotico, culla dolcemente i sensi spaesando senza una meta che non sia il piacere di un ricordo, la fuggevolezza di un dolce pensiero, la tenerezza di un passato amore.

Della cantina, curata con passione da Ivano Coppari – da sempre con i fratelli Uliassi, sin da quel 1990 quando, lì sul porto, aprirono la loro ‘pizzeria’ – non si può scrivere se non che è ancora più ampia e profonda, spaziando dall’Italia alla Francia, con attente puntate anche nelle altre ‘terre della vite e del vino’. Bollicine e bianchi la fanno ovviamente da padrone, ma non manca pure una vasta e centrata selezione di grandi rossi. Peccato per i ricarichi che, seppur in un tristellato, sono davvero importanti. E forse una maggior intraprendenza con il cliente sulle proposte e sugli abbinamenti non guasterebbe, portando a livello anche un settore forse lievemente in difetto rispetto a sala e cucina.

Una ultima riflessione è doverosa in chiusura. Quando, ancora seduti a tavola, ci si avvierà alla conclusione di questo viaggio attraverso i sensi, moltiplicatore di sensazioni e conoscenze, si scoprirà di non essere arrivati davvero alla ‘fine’. Si scoprirà di essere piuttosto ritornati alla partenza, dopo aver maturato una introspettiva esperienza di senso e di sapere, pronti per una nuova avventura.

La Galleria Fotografica:

Vessillo zoomorfo di tutta l’alta cucina, specie di quella classica francese, la lepre è il grimaldello della consacrazione gastronomica di qualunque chef sin dai tempi di Archestrato da Gela che nella seconda metà del quarto secolo a.C. scriveva che: “Sono molti i  modi e i precetti per preparare una lepre, ma eccellente è mettere la lepre arrosto calda, condita di solo sale, in mezzo a commensali di buon appetito, con la carne ancora un po’ crudetta, strappata a forza (…).” Inopportune ed esagerate sarebbero tutte le altre preparazioni, sosteneva il poeta siceliota, sebbene in tanti, dopo di lui, l’avrebbero smentito.

Ecco le migliori versioni degli ultimi anni.

Nel ripieno delle paste

Massimiliano Alajmo, Le Calandre, Rubano (PD)

Presso uno dei migliori ristoranti d’Europa, paradiso non solo per gli appassionati ma anche per i profani, la lepre è, come tutto, del resto, uno dei motivi stagionali di Massimiliano Alajmo. Qui, la si ritrova ben avviluppata nel menù di novembre: autunnale per antonomasia.

Antonio Biafora, Hyle, San Giovanni in Fiore (CS)

Presso il piccolo gioiellino-giocattolo di Antonio Biafora, un ristorante bomboniera con poco più di una decina di coperti, lo chef si esprime in tutto il suo talento e la sua profondità, la stessa con cui ispezione il territorio, in una veste contemporanea. E l’obiettivo è ampiamente centrato e riuscito, con una cucina davvero sottile, elegante e moderna come questi agresti bottoni di lepre, borragine e succo d’albicocca: paradisiaci!

Cristophe Pelé, Le Clarence, Paris

Piccolo luogo di incanto, già sede di Château Haut-Brion, a Parigi, con una cave da fare invidia a molti. È qui che Cristophe svuota i frigo a ogni servizio, proponendo una cucina di totale e completa improvvisazione. Perché salse, fondi e tutte le basi dell’alta scuola classica francese sono preparate fresche ogni giorno, con un tocco impeccabile, partendo da quanto offre il mercato: in questo caso, solo il fondo della lepre a impreziosire un raviolo ripieno di funghi porcini su cui è assiso il fegato grasso d’oca. Chapeau!

Risotti

Davide Palluda, All’Enoteca, Canale

Da Davide Palluda il palato fa fatica a comprendere dove finisca la tradizione e inizi la modernità. I suoi sapori s’impongono alla coscienza perché importanti, decisi, centrali, complessi ma senza un ingrediente di troppo come nel riso, ginepro e lepre: un Carnaroli cotto in acqua, mantecato con burro, ginepro e aceto, servito al tavolo direttamente sul piatto dove è gia stato posizionato il ragù di lepre con un ristretto di barbabietola. Un piatto bellissimo, oltre che golosissimo.

Enrico Bartolini al Mudec, Milano

All’alba dei suoi quarant’anni, onusto di successi e riconoscimenti, Enrico Bartolini ha compiuto una scelta coraggiosa quanto inattesa: quella di reinterpretare i propri piatti più celebri, alla luce della contemporaneità. Kaiser Soze di questa rielaborazione, il riso e latte, dove alla salsa si melograno e al civet di lepre si aggiunge la pungenza del pepe verde, a rendere l’insieme incredibilmente multisfaccettato.

Tentazioni agresti: lepre e lumache

Giovanni, Restaurant Passerini, Paris

Giovanni Passerini, seppur quarantenne, è già un cuoco e un imprenditore maturo. Ha creato un luogo d’elezione, vicino alla Bastiglia, che è il regno dell’italianità più pura. Semplice, ma non per questo non ricercato, dove con puntiglio e maniacalità si ripropongono assiomi della cucina italiana, come questa insalata improvvisata di erbe aromatiche, lumache e cuore di lepre.

Massimo Bottura, Osteria Francescana, Modena

Un piatto che è in tutto e per tutto trompe-l’œil di un paesaggio, una suggestione, un ricordo, e che è vessillo di una maturità che corrisponde, nel caso di Massimo Bottura, all’interiorizzazione di una verità: quella di esistere nella relazione e nella comunione col mondo, di cui il piatto è tributo. Anche in questo caso lumache e lepre si uniscono, per dare vita a un paesaggio campestre.

Il famoso “civet” di lepre

Nicola Portinari, La Peca, Lonigo (VI) novembre e gennaio 2019

Era scontato che una preparazione tanto classica non poteva che trovarsi se non nella casa della grande, alta cucina del ristorante di “lusso”. Una caratteristica che, a La Peca, convive tuttavia con uno squisito senso di familiarità: la valorizzazione della “casa” e la capacità di far sentire qualunque cliente come avvolto in una nuvola di comfort. Il lusso spogliato della altezzosità e portato al livello della vera eleganza, come questo piatto, tanto elegante quanto succoso e disinvolto.

Cristophe Pelé, Le Clarence, Paris

Torniamo dunque a Le Clarence dove, nella stessa visita, Cristophe Pelé ha dedicato alla lepre alcune memorabili declinazioni, come in questa personalissima e affascinante preparazione, in cui gli sfilacci di lepre convivono con l’aragosta e con importanti lamelle di tartufo bianco. Una combinazione sublime, e nobilissima.

Tra Civet e Royale

Davide Oldani ne “Il Tinello”, Cornaredo (MI)

Non di rado, la grandeur sta nel mezzo e, in questo caso, nel punto di incontro tea il civet e la royale. E se il primo è un mla royale è, come vedremo, il punto più alto di realizzazione della lepre, in congiunzione con funghi, foie gras e tartufo nero pregiato: qui le due tecniche s’incontrano in una doppia declinazione, dove il colore è restituito nella sua più naturale essenza.

Christian Milone, Trattoria Zappatori, Pinerolo

La cucina di Christian Milone è dichiaratamente, profondamente legata alla terra; è una cucina dell’orto, di elementi vegetali, di sensazioni amare, acide, a volte terrose. Una cucina che, anche quando osa, mantiene una componente di concretezza e senso del gusto che non rende mai le preparazioni eteree o fini a sé stesse. Marcate note vegetali, freschezza, leggerezza, ma anche omaggi alla classicità d’Oltralpe nella sua lepre, a metà strada tra civet e royale visto che il fondo è tirato proprio con foie gras e tartufo nero.

À la royale

Cristophe Pelé, Le Clarence, Paris

Ancora una volta Pelé, dove la lepre alla royale acquisisce una piccola licenza sulla ricetta classica (1775), che qui vi riportiamo. La preparazione originale, a opera del cuoco di corte Marie-Antoine Carême, prevede una lepre disossata e marinata col Cognac. Per la farcia vengono usati i tartufi neri del Périgord, insieme ad altri funghi, come le trombette dei morti, il lardo tagliato sottile e a cubetti. Il fegato e il cuore vengono spadellati con burro e scalogno, e deglassati col Cognac per poi essere aggiunti alla farcia della lepre stessa. Completano il ripieno blocchi interi di foie gras  di anatra, distesi lungo l’intera superficie dell’animale. Con ago e spago la lepre viene chiusa e ricucita. Segue una marinatura nel vino insieme alle spezie, per circa 6 ore, fino al momento in cui viene infornata e cotta a temperatura molto bassa. Viene servita tiepida, cosparsa con il fondo di cottura ridotto della lepre, ottenuto dalla carcassa arrostita e deglassata più volte con il Porto. Ecco, non pago a tutto questo Pelé aggiunge, sulla sommità, un cubetto di anguilla caramellata.

Luigi Taglienti, Lume, Milano 

Da Luigi Taglienti la chiusura della parte salata del menu viene affidata a un’icona della cucina borghese transalpina, presentata in chiave moderna. La sua lièvre à la royale viene farcita con foie gras, tartufo, rognone e nappata con la sua salsa di cottura, legata fuori fuoco, e servita con patate noisette e uno spinacino di fiume.  Sontuosità ai massimi livelli.

Antonio Guida, Seta, Milano

Apparentemente semplice, direte voi, la strada verso la classicità. Niente di più falso, se è vero com’è vero ch’essa è lastricata di difficoltà, non ultimo il paragone indefesso coi giganti della cucina. Stavolta, tuttavia, la lièvre à la royale di Antonio Guida è ancora più intensa e vibrante, nonché vessillo di una cucinapiù gagnairiana che mai, con tanto di capriccio: la ruota di pasta di Gragnano, a indicare le origini dello chef.

Gian Piero Vivalda, Antica Corona Reale, Cervere (CN) coming soon

Una delle migliori royale dell’anno, qui veramente realizzato a regola d’arte. Equilibrio perfetto tra farcia e carne, salsa da manuale tirata col sangue, come vuole la tradizione, morbidezza e tenerezza filologicamente rispettate, ma con una turgidità delle carni che non ne smaterializza la consistenza, anche se la tradizione lo vorrebbe.

Eugenio Boer, Bu:r, Milano

Una cucina con una timbrica classica davvero importante, quella di Eugenio Boer, che corona in questa splendida royale di lepre, ingentilita e rinfrescata dalla provvidenziale riduzione di vino e di visciole. Un piatto in cui salse, fondi, riduzioni, concentrazioni e dove l’uso, imperioso, delle componenti lipidiche, corona un piatto dai sapori molto precisi e definiti.

Braci, salmì & co.

Massimiliano Poggi, Trebbo (BO)

Il goloso filetto di lepre al pepe verde rappresenta per Massimiliano Poggi l’occasione di una rivisitazione importante, nonché la realizzazione di una salsa che ci ha costretto alla scarpetta: una demi-glace molto persistente che strizza l’occhio alla scuola francese, a conferma di quanto le basi siano, qui, decisamente solide.

Gianluca Gorini, Da Gorini, San Piero in Bagno (FC)

Menzione d’onore per la lepre, mandarino, estratto di ginepro e timo cedrino di Gianluca Gorini: una materia prima quasi indescrivibile (la scioglievolezza di questa carne va toccata con mano per essere creduta) e una perizia nella gestione di equilibri gustativi (ematicità, balsamicità, acidità) e strutturali, da vero fuoriclasse.

Mauro Uliassi, Uliassi, Senigallia (AN)

La Lepre in salmì con croccante di carbonella (oliva nera marchigiana) sfoggia, oltre a una materia prima strepitosa, una maestria assoluta nella gestione degli equilibri interni, con una salsa di un’eleganza e di una leggerezza sopraffina, cui il tocco “marchigiano” conferisce vivacità texturale e gustativa. I piatti di cacciagione non fanno altro che confermare la grande mano di Mauro Uliassi anche su questo versante, dove le grandi preparazioni classiche diventano letture attualizzate e alleggerite, appropriate anche durante le torride estati marchigiane.

Trittici iberici

Mateu Casañas, Oriol Castro ed Eduard Xatruch, Disfrutar, Barcellona

In soli quattro anni questo ristorante si è imposto sulla scena gastronomica mondiale vantando uno dei pedigree più creativi. Disfrutar è un ristorante al contempo magico e informale, in cui rimanere semplicemente e felicemente estasiati a ogni assaggio, tra effetti speciali mai fini a se stessi, momenti divertenti ma anche didattici, che generano l’equazione perfetta della felicità.

E il trittico di lepre che segue ne è la dimostrazione:

 

La Porchetta

Soprattutto nella stagione estiva, dove il panino fuori porta è un momento di piacevole aggregazione nelle località di vacanza come in città, la porchetta ha però origini lontane, che la fanno risalire fino all’epoca etrusca. In verità, il divin porcello è sempre stato al centro di attenzioni diverse. Dai riti sacrificali dedicati agli Dei così come, via via, lo si trova, acconciato diversamente nelle presentazioni, ma non nella golosa sostanza, alle tavole del popolo come a quelle dei nobili per arrivarea noi, attrezzati di apemobili e streetfurgoni nel corso dei vari festival al cibo di strada dedicati.

Una dietrologia

Iniziò Apicio a raccontare delle varie preparazioni che ci si poteva inventare con il maialetto arrostito (o allo spiedo con gli esemplari più adulti). Molte le varietà a seconda della dotazione di cui si farciva il ventre, svuotato delle sue interiora. La versione più nobile era quella a doppia farcitura: sottopelle un misto di pepe, bacche d’alloro, garum, vincotto, olio e poi nella cavità dello stomaco dove ci potevano stare cervella cotte, uova crude, uccellini, pinoli. Ma vi erano molte altre varianti. C’era chi assemblava, oltre alle uova, altre carni, pure di vitello, come beccafichi, finocchio, ma anche pinoli, tordi, datteri, chiocciole sgusciate e via banchettando. La vulgata lo descriveva come Porcus troianus, a memoria del famoso cavallo utilizzato da Ulisse per espugnare la città, come descritto da Virgilio, solo che qua, al massimo, si attentava a tassi di colesterolo tutti da dimostrare.

Nel Medioevo il maiale mantenne il suo status di animale prediletto dal popolo in quanto il suo allevamento era tutto sommato agevole, bastava governare le bestie allo stato brado tanto che il valore di un bosco veniva stabilito in base al numero di maiali che vi si poteva allevare. Maiale che copriva tutta la stagione alimentare, con le sue carni consumate fresche, al momento della mattanza, nel periodo invernale e, per il resto del calendario, ci pensavano le numerose elaborazioni degli insaccati. La stagione estiva, invece, vedeva prevalere il maiale passato al forno, il quale poteva essere quello del fornaio stesso (in maniera tale da tenere attive per 24 ore le braci con cui si confezionava il pane) come è vero che erano molti anche gli stessi macellai ad avere in dotazione un piccolo forno per trattare il maiale.

Una triade virtuosa, quella tra porchetta, macellaio e panettiere che, come vedremo, incontreremo ancora. La prima testimonianza della Porchetta come protagonista della cultura materiale di una comunità la si trova a Bologna dove, dal 1254 al 1796, si è tenuta la Festa di San Bartolomeo il 24 agosto. Nata per festeggiare la cacciata di Re Enzo, figlio di Federico II, che era venuto per combattere le città guelfe, era un evento che si sviluppava con tutti i crismi dell’epoca medioevale con tanto di palio per i cavalieri in cui, al secondo classificato, veniva regalata un porchetta. Porchetta che poi, agghindata con la corona d’alloro, veniva gettata, assieme ad altra selvaggina, dalla ringhiera del palazzo degli anziani al popolo, che se ne disputava con ferocia (cosa poteva la fame) brandelli di quanto riusciva a raccogliere.  E porchetta che, nel tempo, ha continuato ad essere regina dei banchetti principeschi e cardinalizi, tanto che Martino de’ Rossi, il cuoco del Patriarca di Aquileia Ludovico Trevisan, detto anche “Cardinal Lucullo”, codificò per primo in una ricetta ripresa poi da Bartolomeo Sacchi (“Il Platina”) il quale, oltre ad essere Direttore della Biblioteca Pontificia, gettò le basi dei moderni trattati di gastronomia con il suo “De honesta voluptate et valetitudine”, uscito nel 1474.

L’epoca rinascimentale che vide il trionfo dei banchetti della nobiltà come della nuova borghesia mercantile. Innumerevoli gli esempi di elaborazione del maiale passato al forno con farciture diverse. Proposto con le anguille, posto che da sempre le si sono considerate il maiale del mare, per la grassa succulenza delle carni, ma anche la porchetta ai maccheroni che lasciò sul suo cammino una serie di palati infranti (mista oltre che all’immancabile formaggio, con pepe, cervella trite, prosciutto), così come la porchetta alla corradina (con carni di vitello, parmigiano, fette di tartufi e uova) per arrivare infine alla Romana ovvero “condita” nei suoi interni, oltre che con il sale e pepe di prammatica, con soli rami di rosmarino. Tolta dal forno dopo circa quattro ore di cottura essa riluce di un’intrigante cotenna divenuta nel frattempo rossa e croccante.

Il confine tra finocchietto selvatico e rosmarino

Su queste basi della porchetta romana si sono poi inserite tutte le varie declinazioni di un prodotto che ha salde tradizioni in tutta l’Italia centrale, con diverse realtà che ne rivendicano la primogenitura anche se, invero, essa non è altro che un’eredità tramandata dall’epoca antica e poi perfezionatasi nei vari territori in base ai locali usi e costumi in tema di materie prime relative, tanto che se tra Castelli romani e Toscana meridionale nella farcitura si privilegia il rosmarino tra Umbria, Marche e Romagna si usa invece il finocchio selvatico.

In letteratura e nelle arti

Talmente radicata nella storia del paese la porchetta non poteva che lasciare tracce a futura memoria nella letteratura e, più tardi, nel cinema come ben descritto da Giovanni Ricciotti nel suo “La Porchetta, una tradizione antica” (Panozzo Editore, 2016). Citata nella “Secchia rapita“, la si ritrova nell’800 descritta come “porcelletto ripieno” da Massimo d’Azeglio a dar gioia monastica ai frati in banchetto. Quegli iconoclasti dei futuristi se nelle loro opere bandirono ogni vestigia di antica tradizione, anche alimentare, eliminarono la pastasciutta ma salvarono la porchetta. Al fascino di questa non si sottrasse nemmeno Pirandello. Tra i vertici di una letteratura forse minore del ‘900, non potè mancare il sommo poeta, ovvero Gabriele d’Annunzio che, nel 1927, “confinato” nella sua reggia di Gardone Riviera, si vide recapitare dall’allora Ministro dell’agricoltura, Giacomo Acerbo, un perfetta porchetta romana confezionata apposta per lui a rinverdire il ricordo dei bei tempi della giovinezza. Fu così che nacque l’ode “La Purchetta d’Oro”. Tuttavia i vertici delle letteratura “porchettara” li ha raggiunti Carlo Emilio Gadda in uno dei suoi romanzi più famosi “Quel pasticciaccio brutto de via Merulana” dove, tra le varie vicende narrate, si descriveva una piazza colma di porchettari che, mentre affilavano i “cortelli”, uno lungo e uno corto, strillavano tentatori “ciavemo la bella porca de Ariccia, con un bosco de rosmarino in de la panza”. Indimenticabili anche i passaggi a lei dedicati da Orio Vergani, giornalista, critico d’arte, fondatore dell’Accademia Italiana della Cucina che, nel gustare una porchetta pochi mesi prima della sua prematura scomparsa, andò a rinvangare “la vecchia Roma di quarant’anni fa e l’appetito dei venti”.

Tracce più recenti le troviamo poi tra le pagine di penne del calibro di Giorgio Saviane (ne “Lo stivale allo spiedo”) o, recentissimo, Marco Malvaldi nel suo “Buchi nella sabbia”. Cultura materiale (la Porchetta) e cultura cinematografica sono andati spesso a braccetto con il cameo più divertente probabilmente legato a “C’eravamo tanto amati” di Ettore Scola (1974) dove un imperturbabile Romolo Catenacci “marchese della cazzuola”, interpretato da Aldo Fabrizi, per festeggiare con le maestranze fa calare da una gru, sul tavolo imbandito, una porchetta avvolta nella bandiera tricolore al suono delle trombe. Così come episodi con la porchetta protagonista (o comprimaria complice) li troviamo pure nel “Satyricon” di Federico Fellini o nel più recente “Una moglie bellissima” di Leonardo Pieraccioni.

Sagre, feste e tavole imbandite

Giunta ai tempi nostri la porchetta è regina delle varie sagre di paese così come nell’ultima moda dei raduni di Street Fooder, i cultori del Cibo di strada. La Sagra più titolata (1950) è quella di Ariccia, patria della porchetta alla romana che, grazie a una disciplinare che si è via via perfezionata dal lontano 1896 è giunta, nel 2011, a conquistarsi il prestigioso traguardo di Indicazione Geografica Protetta (IGP). Anche qui viene ripresa l’antica tradizione bolognese in cui, al culmine della festa, si lanciano alla folla, dai balconi e dai carri allegorici, gustosi panini.

Molte altre le sagre porchettare di rilievo, tra cui quella di San Savino, nell’aretino, dove nel 2010, con l’utilizzo di 65 maiali si è composta la Porchetta da Guinnes, con i suoi 44 metri e 93 centimetri di lunghezza. Su tutte si pone la Sagra delle Sagre così si sono autodefiniti in quel di San Terenziano di Gualdo Cattaneo nel perugino dove, dal 2011, si svolge “Porchettiamo”, una sorta di summa del sapere porchettaro di strada e d’autore e dove, a fine maggio, giungono cuochi globe trotter da diverse regioni, Calabria compresa, con licenza di reinterpretare, secondo gusto ed estro, la ricetta classica. Ecco allora l’umbro Marco Bistarelli vincere il titolo nel 2011 con il suo originale panino con porchetta d’agnello (del quale fegato e coscia si abbinano alla pancia del maiale) o il sardo Mauro Ladu che, poco tempo fa, ha vinto con il suo panino con capocollo di maiale sardo, brasato alla birra, con mirto e crema di ricotta.

Tra le stelle vale ricordare quella, bistellata, di Mauro Uliassi di Senigallia, balzato agli onori della cronaca con il suo panino alla porchetta con porchetta, uno street food d’autore in cui lo stesso panino è stato conciato con il grasso suino per insaporire a mille la già gustosa pietanza. Un’intuizione che, nel primo dopoguerra, avevano già avuto i fratelli Beltrame i quali, a Treviso, proponevano alla golosa clientela quella che si potrebbe definire la “porchetta una e trina”, come ha ricordato Beppo Zoppelli, storico editore e Accademico della Cucina, a proposito di una pratica che vedeva rosolare nel forno contemporaneamente tre porchette (ma rigorosamente di coscia di maiale, cioè prosciutto e qua sta l’originalità della porchetta trevisana), che venivano poi sgrassate e il lardo residuo veniva poi spedito al fornaio Casellato, che così vi impastava i suoi panini. Le cotenne, nel frattempo, venivano sbriciolate e mescolate al sale che poi veniva sparso sul gustoso affettato, prima di esser servito al piatto con il relativo panino.

A conclusione di questo excursus non possiamo non parlare di come il fascino della porchetta abbia colpito l’attenzione – e il palato – dei vari continenti, complici ovviamente i ricordi e le tradizioni dei nostri emigranti. In Canada, a Sudbury, è considerato il piatto tipico della città tanto che vi si svolge un’originale lotteria, il Porchetta Bingo, dove i proventi della vendita vanno destinati in beneficenza. In Australia vi è una catena di 70 locali che propone il meglio della cucina italiana con il richiamo di “Porchetta, eat live love”. Nelle sue inchieste la stampa americana, dal New York Times a Newsweek, ha individuato la porchetta tra le migliori specialità dell’Italian Food se non addirittura una delle cinque cose da assaggiare almeno una vota nella vita tanto che, a New York, Sarah Jenkins, titolare del notissimo “Porchetta”, è considerata un’autentica star.

 * In copertina un frammento di “C’eravamo tanto amati” di Ettore Scola

Mauro Uliassi e il suo R’n’B culinario, tra selva marina e caccia

Le onde sottili del mare si spengono al chiaro di luna sulle spiagge di velluto di Senigallia. Lo chef camuffa la stanchezza da fine servizio scherzando con la sua brigata, mentre sorseggia un infuso al biancospino direttamente dalla pentola.
La sorella Catia e il figlio Filippo rassettano la sala, mentre il cuoco passeggia fluttuando sul bagnasciuga, canticchiando Fly me to the moon di Sinatra.
Lo spirito soul di Mauro Uliassi è sintetizzabile in una scena come questa.
Umano troppo umano, capace di cogliere il massimo dalla semplicità che lo circonda, nella vita così come in cucina.

Video-Intervista: “Quanto è importante il confronto con il cliente?”

Dagli anni ’90 questo ristorante aggrappato alla spiaggia, riesce a mettere d’accordo indistintamente critica, incalliti gourmet e una clientela del tutto normale.
Il fattore che fa la differenza risiede nelle personalità dello chef, di sua sorella e di tutta la gang Uliassi: capaci come pochi di ascoltare qualsiasi spunto critico del cliente, mettendosi in discussione e attuando una crescita costante applicata ad ogni dettaglio. L’esito di questo approccio è una cucina rhythm & blues: rigorosa e disinvolta al tempo stesso; radicata nella tradizione in movimento, con infiltrazioni contaminate che si nutrono di viaggi, profumi, sapori e suggestioni mai statici. Un perfetto equilibrio tra selva di mare e caccia. Perché il territorio marchigiano racconta naturalmente una simbiosi tra questi due ecosistemi. Basti pensare all’alzavola, ostriche e granaglie: un piatto che narra il tragitto del volatile che becca i semi lungo le rive del mare e assimila le sfumature iodate degli elementi circostanti.

Video-Intervista: “Come cuocere e trattare la Caccia?”

Inconsapevole e fortunato, o consapevolmente fortunato, Mauro cresce fin da subito in un contesto ristorativo: dal locale anni ’50 dei nonni, transitando per il bar dei genitori, che gli trasmettono una visione empatica della vita e un forte senso pratico nel lavoro. Si immedesima con fantasia e carattere da scavezzacollo, negli amati libri di Huckleberry Finn: pescando, sparando a beccacce e conigli. Affascinato dalla vita di campagna e sperimentando inconsapevolmente la connessione tra mare e caccia. Durante la scuola si mantiene da solo, facendo gavetta in grandi alberghi e ristoranti locali, dove incontra il suo storico maestro Lucio Capannari (Cordon Bleu) e apprende il valore della fatica.

Video-Intervista: “Quali sono i tuoi ‘Maestri’?”

Conserva un animo ribelle e da viveur, non curandosi troppo del percorso professionale, fino all’incarico di insegnate in un istituto alberghiero a soli 23 anni. Poi la svolta: è grazie a una cena preparata per il compleanno di Chantal (primo vero amore e sua futura moglie) che Mauro scopre il piacere di cucinare per gli altri, acquisendo consapevolezza del suo talento ai fornelli. Supportato dalla famiglia, decide di acquistare un ristorante sulla spiaggia, ingaggiando sua sorella Catia nel progetto: figura cardine nell’accoglienza e nel servizio in sala, dotata di incredibile charme, competenza e sensibilità in veste complementare al lavoro promosso in cucina. Nasce così il Ristorante Uliassi, tracciando un percorso fatto di successi e cambi di rotta dettati dalla voglia di migliorare.

Video-Intervista: “Raccontaci l’esperienza a El Bulli da Ferran Adrià”

Dai volumi intensi di lavoro del ’98, con una cucina di mare solida e lineare; l’identità muta dopo il viaggio verso la Mecca di Ferran Adrià. Immerso nel mondo di El Bulli, insieme a chef come Moreno Cedroni e Massimo Bottura, Mauro viene travolto dall’enfasi di ricerca creativa del maestro e dal suo messaggio di libertà espressiva. Rientrato a Senigallia, grazie al team storico composto da Luciano Serritelli, Michele Rocchi e Mauro Paolini (marito di Catia), rimette in moto il processo di sperimentazione, partorendo il concetto di “LAB”. Un menu sperimentale che cambia ogni anno dopo la chiusura stagionale del ristorante.

Nel 2003 nasce il primo piatto di caccia, Tagliatelle tordi e raguse, a sancire un nuovo tratto distintivo. Dopo la seconda stella Michelin, ancora voglia di crescita: l’ingresso del figlio Filippo, a movimentare con professionalità e freschezza il servizio in sala, e l’idea “StreetFoodGood”, promuovendo il cibo da strada di qualità su un food-truck itinerante.

Oggi, il Lab 2017 sintetizza eleganza e profondità di sapori salmastri, in perfetto binomio terra/mare; equilibrio millimetrico nella sequenza dei piatti, contraddistinti da una ricerca evolutiva sui tagli meno nobili del pesce.
L’excursus professionale di Uliassi prosegue autentico, tutelando una cucina dalla forma tanto godibile e immediata, quanto complessa e innovativa per chiunque abbia volontà di coglierne le sfumature più raffinate.
“OhYeah!”

Video-Intervista: “Cos’è l’autenticità in cucina e come si ritrova nel Lab 2017?”