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Il miglior piatto di pasta del 2023

Che si tratti di pastasciutta, di pasta fresca o essiccata, di una sfoglia all’uovo o semplicemente approntata mescolando acqua e farina, diviene chiaro che la pasta abbia mille volti e si presti ad altrettante declinazioni. Un mondo talmente vasto e vario che da tempo abbiamo scelto di occuparcene approfonditamente in questo sito a lei esclusivamente dedicato, dove raccontiamo i formati di pasta esistenti e diamo spazio a tutti quelli che con la pasta ci hanno a che fare ogni giorno: produttori e grandi cuochi. Abbiamo così voluto riassumere l’anno attraverso il miglior piatto di pasta del 2023.

Tra quelli elencati dai nostri autori troverete ricette di tradizione secolare, così come piatti dall’animo estroso e contemporaneo; la solidità e il conforto della cucina che ci riporta a casa e quella che ci proietta in un viaggio alla scoperta di gusti e abbinamenti insoliti. Quale che sia la vostra versione preferita, il bello è proprio questo: la pasta è buona in tutte le salse e può incontrare il gusto di tutti.

Leonardo Casaleno

Cappellaccio di lepre à la Royale: pasta fresca al cioccolato, fegato grasso e tartufo nero – Eugenio Boer – [bu:r]

Pensate ad Escoffier che si ispira a Carême. Poi immaginate di poter conferire un accento italico a un classico intoccabile della cucina transalpina… et voilà: un piccolo medaglione di lepre della misura di pochi centimetri quadrati diventa un delizioso ripieno di un cappellaccio al cioccolato  adornato con tartufo e adagiato su una salsa tirata, come si deve, con cioccolato e sangue dell’animale. È la Lièvre à la Royale secondo Eugenio Boer. Un piatto monocromatico, visivamente affascinante, dannatamente goloso, che cattura l’essenza di entrambe le ricche tradizioni gastronomiche, pur restando, sempre, un piatto di pasta.

Orazio Vagnozzi

Tagliatelle burro e parmigiano – Diego Rossi – Trippa

Chi non ha nella memoria il gusto dolce e casalingo della pasta in bianco? E, se come fa Diego Rossi, arricchisci le tagliatelle di umami, cuocendole nel brodo di pollo e al burro aggiungi del buon Parmigiano, il ricordo diventa sublime!

Leila Salimbeni

Spaghetto Felicetti al caviale ferrarese e panna acida – Cristina Maresi – Le Occare

Minimale, quasi monastico lo Spaghetto Felicetti al caviale ferrarese e panna acida (ma può trattarsi di burro chiarificato o altre emulsioni, a gusto e capriccio di Cristina Maresi, cuoca e ospite tanto sensibile quanto raffinata) de Le Occare, luogo che con la sua potente individualità ha (di)segnato l’indole di tutto il mio 2023. Perché alcuni luoghi restano attaccati addosso e finiscono per abitarti molto più di quanto tu sia in grado di abitare loro. 

Gianni Revello

Spaghetto con olio all’alloro – Matteo Baronetto – Del Cambio

Lo spaghetto è mantecato al momento, c’è una forte componente olfattiva, un elemento decisivo, la spiegazione è già nel profumo (mi viene in mente il sacchetto a maglie non strette pieno di semi di cardamomo caldi messo in tavola a El Bulli nel momento di pausa nel passaggio dal gruppo di piatti “tapas” al gruppo di piatti “caccia”). Infine qui viene posato un disco compresso di parmigiano reggiano. L’elemento balsamico amaro di norma spiazzante in un piatto di pasta, qui diventa sorprendente col molto ben calibrato veicolo oleoso nel ravvivare il carboidrato e nella funzione di stacco, messo circa al centro della quindicina di piatti salati. La gola (pasta, olio, grana) e la testa (alloro, netto) che detta il mood.

Claudio Persichella

Tortelli di pero misso, burro e Parmigiano – Diego Rossi – Trippa

In uno dei templi nazionali della cucina materica e golosa, altissima espressione dell’italico artigianato ecco una paradigmatica sintesi di abilità manuale, assemblaggio perfetto di sapori e sapientissima selezione di materie prime di assoluto livello.

Giovanni Gagliardi

Spaghetto al riccio di mare – Marco Sacco – Piccolo Lago

Quest’anno mi piace premiare il mare che non ti aspetti. Quello assaggiato su un lago. Per l’intensità delle note iodate contrastate meravigliosamente dalla nota di liquirizia regalata dall’aglio nero utilizzato in mantecatura. Un bravo a Marco Sacco ed alla sua squadra.

Antonio Sgobba

Raviolo amaro, tuma persa, miele d’ape nera e bottarga – Riccardo Fazio – Blum Restaurant

Il piatto di pasta dell’anno è questa pasta ripiena mangiata in riva al mare nella baia di Mazzarò, dove Riccardo Fazio non ha avuto paura di proporre un piatto dalle note amare nettamente percepibili solo elegantemente smussate dal latticino e dalle nuances salmastre. Una creazione originale e dalla lunga persistenza palatale.

Davide Bertellini

Tortellino gratinato al forno a legna con crema di Parmigiano Reggiano 36 mesi – Jessica Rosval – Al Gatto Verde

La magia del fuoco nel nuovo ristorante a Casa Maria Luigia eleva all’ennesima potenza questo iconico piatto di Massimo Bottura

Claudio Marin

Tagliatelle ai funghi – Antonia Klugmann – L’Argine a Vencò

Il coronamento di un tenace lavoro sulla pasta fresca, l’ossessione per gli spessori e le glassature che culmina in una sorprendente compenetrazione tra sfoglia e condimento. Una meravigliosa nota di fumo, che rimanda al bosco. Un piatto che vive dell’equilibrio di un istante. La capacità di innovare ciò che sembra cronicizzato.  

Alfonso Isinelli

Anelletti, estratto di pesci di scoglio, tenerumi e crema di fagioli Cosaruciaru – Gabriele Camiolo – Capofaro Locanda & Malvasia

Affacciati da Salina sullo splendido panorama delle Eolie, si gode a Capofaro della cucina di Gabriele Camiolo, che infonde nei suoi piatti leggibili ma di magistrale tecnica, tutti i profumi e i sapori isolani. In questa magnifica minestra si fondono mare e vegetale, sucpportati dal perfetto e classico formato siciliano, gli anelletti. Una vera goduria.

Fiorello Bianchi

Pasta al non pomodoro – Riccardo Scalvinoni – Il Colmetto

Spaghetto con ciliegie cotte e estratto foglie di fico, delizioso e originale per l’acidità e dolcezza del pomodoro portata invece dalle ciliegie, delizioso.

Gherardo Averoldi

Spaghetto cotto in acqua di pomodoro con ricci di mare e grue di cacao – Stefano Baiocco – Villa Feltrinelli

Piatto spigoloso, complesso e stratificato in cui si sommano molteplici elementi tra loro apparentemente dissonanti ma che rivelano un ineffabile equilibrio ed una infinita profondità.

Giacomo Bullo

Gigli al Ciliegiolo, seppia e olivello spinoso – Bruno Cossio – La Trattoria di Enrico Bartolini

A ricordare le radici toscane, il famoso giglio. A suggellare uno dei piatti meglio riusciti del 2023 a tema pasta, Bruno Cossio de La Trattoria di Enrico Bartolini a L’Andana dallo spirito maremmano. I gigli sono qui cotti in una vigorosa riduzione di ciliegiolo, finanche ad una nota di caramello. La forma perfetta sposa e raccoglie la dolce salsa di cipolla incontrando la fresca acidità irriverente dell’olivello spinoso. Chiude la seppia in fondente tessitura. Piatto complesso nella costruzione tecnica ma dannatamente goloso.

Gianluca Montinaro

Pasta Arsa – Jessica Rosval – Al Gatto Verde

Nelle barchesse che circondano i curati giardini di Casa Maria Luigia (il magnifico relais modenese di Massimo e Lara Bottura) ci si diverte a sovvertire, come da ‘filosofia botturiana’, i dettati classici della cucina. Sicché, come i gatti diventano verdi, anche la pasta può diventare un risotto. È proprio quello che fa Jessica Rosval, ai tavoli – disinvolti e raffinati al contempo – di Al Gatto Verde. Qui la pasta è «arsa»: ovvero bruciata, poi cotta come un risotto e accompagnata da sfilettature di biancostato e da sciroppo d’acero. Il risultato? Una pietanza cosmopolita che, attraversando l’oceano, lega una idea canadese di barbecue al feticcio per eccellenza della tavola italica. Sentori di fumo, molteplici tendenze dolci, il grasso vellutato della carne, l’aromaticità dello sciroppo d’acero… un piatto sì complesso e tecnico, ma centrato sul gusto e di piacevolezza estrema!

Gianpietro Miolato

Chitarra, Kombucha al Pomodoro arrosto, Pepe verde, Olio di Baccelli, Kefir all’Aceto di Gelsomino e Bottarga – Richard Abou Zaki e Pierpaolo Ferracuti – Retroscena

Piatto intenso, temerario, giocato su una spinta acida all’apparenza eccessiva ma funzionale a unire tramite nuances fermentative elementi di terra e mare in un connubio indimenticabile. Un piatto audace e non accondiscendente; semplicemente ottimo.

Marco Bovio

Culurgiones con riduzione di marmitako e tonno fresco – Dabiz Muñoz – RavioXO

La fusione tra un raviolo tipico di Ogliasta, una ricetta tradizionale Basca e un sushi giapponese? Ebbene sì, dalla folle mente dello chef Dabiz Muñoz, arriva questo piatto saporito e attraente. Un culurgiones fatto alla perfezione, servito con una riduzione di stufato di tonno (marmitako) ed una lucida fetta di tonno. La distruzione di mille preconcetti in un sublime boccone.

Andrea Mucci

Fusillone Zaccagni, triglie, salsa di fegati, olive nere – Simone Parisotto – Insight Eatery 

Il fusillone in tal caso rappresenta un formato di pasta ideale sia per il buon legame con la salsa, densa, ottenuta dal recupero di fegatini da più pesci dell’Adriatico, che per la vista, con una bella congiunzione cromatica. Le triglie dal canto loro, caratterizzate da gusto terroso, amplificano i sapori, rifiniti dalle olive nere, che ricordano la loro ottima predisposizione per condire e arricchire piatti di mare. Da apprezzare l’idea di cucina a scarti zero.

Matteo Baronetto: un cuoco sensibile

Nel panorama gastronomico italiano, Matteo Baronetto occupa un posto peculiare – fieramente periferico -, eppure così straordinariamente incisivo, grazie alla sua unicità. Un cuoco che ha vissuto la fase più luminosa della cosiddetta avanguardia – gli anni milanesi -, per prenderne poi le distanze, senza accanimenti, così da poter agire libero da condizionamenti esterni e guidato solo dalle proprie intuizioni, le quali lo conducono incessantemente alla scoperta – o ideazione? – di legami tra ingredienti distanti oppure a dare nuova linfa vitale a percorsi apparentemente già esauriti (la scaloppina, la salsa civet, il saltimbocca…).

Il talento del cuoco risiede proprio nella sensibilità e, quindi, nella capacità di rendere visibile l’invisibile o cogliere il mistero in ciò che è (a prima vista) conosciuto – con passaggi che a tratti varcano la soglia dell’onirico – : un approccio che porta con sé la tribolazione consistente nel prendere costantemente le distanze dalle strade già percorse, dalle tendenze, dagli infiniti dover-essere di cui la cucina è disseminata. Il risultato è una cucina di intelletto, in cui l’ingrediente e la tecnica diventano vettori, il substrato su cui poggiano le idee, poiché queste ultime sono il vero punto di contatto tra il cuoco e il commensale: con l’assaggio le menti delle due parti entrano in contatto e “vedono” la stessa cosa. Una cucina che non nega il gusto – non sempre quantomeno – ma che non si esaurisce in esso, prestandosi così a più livelli di lettura. Per questo motivo, i menù di Matteo Baronetto poco si addicono a venir rappresentati attraverso la fotografia (nonostante siano di rara bellezza): l’acme sta nell’assaggio, per l’appunto, l’istante in cui il cibo si fa idea e scatta la scintilla. Quel momento è difficilmente rappresentabile e intuibile (a differenza di piatti che, alla vista, già si prestano a essere “pregustati”). Allora, non è un caso se in “Iconiche similitudini” – il libro che il cuoco ha recentemente dato alle stampe – la fotografia abbia lasciato posto all’opera grafica, scelta che – in una logica corrispondenza – lo accomuna ad un altro cuoco-artista, quel Alain Passard i cui piatti, così semplici alla vista – quasi “banali” e, perciò, indecifrabili -, sono in grado di trasportare verso sensazioni prima sconosciute (e non preconizzabili). La profondità di questa cucina può essere colta nel suo pieno al “tavolo dello chef”, il luogo in cui le intuizioni di cui si è detto spesso nascono o vengono concretizzate per la prima volta, ove la sperimentazione ed anche l’errore – non necessariamente un disvalore – che ne può conseguire sono parte del patto cuoco-cliente: i risultati decantati di questa riflessione – non tutti – si ritroveranno, poi, a tempo debito, nei menù offerti in sala che, quindi, non sono affatto “altra cosa”.

Un’incredibile densità di pensiero

In occasione dell’ultima visita, abbiamo avuto modo di confrontarci con un percorso complesso e stimolante, un intreccio di diverse suggestioni, dall’utilizzo sapiente – ed acuto – dei grassi, alla celebrazione del gesto, passando per le assenze come strumento di riflessione, senza abbandonare la cifra stilistica delle “similitudini” che, anche per chi si è seduto più volte a questo tavolo, rappresenta un’inesauribile fonte di stupore. Le similitudini, per l’appunto, sono oramai la sineddoche della cucina baronettiana: una componente di un approccio complessissimo che a volte, erroneamente, viene “ridotto” ad una delle sue componenti. In realtà, la ricerca del simile non è l’obiettivo perseguito dal cuoco, quanto la leva, il punto di partenza, il cannocchiale, il metodo con cui approcciarsi alla realtà e da cui derivare infiniti risvolti e riflessioni. Ad esempio, in Albume, caviale e burro nocciola convivono la celebrazione dell’importanza del gesto – quello di racchiudere le uova di storione in un velo di albume, senza scorciatoie – e il parco utilizzo del burro nocciola (il grasso, per l’appunto) a stimolare il ricordo di un “uovo all’occhio di bue”. Un passaggio che fa inevitabilmente venire alla mente il Pachino di Disfrutar, il quale, tuttavia, è frutto di un escamotage “tecnologico”, dal  risultato certamente ludico e goloso ma meno “sottile”.

Un’immagine fedele del Baronetto di ora si ritrova, poi, in Espardenya (cetriolo di mare) di seppia e foie gras, in cui la seppia viene tagliata a strisce e cotta versandovi sopra dell’acqua bollente non salata – ancora, la gestualità – : la texture rimanda immediatamente al cetriolo di mare mangiato al Nerua pochi mesi fa. A lato, viene servito del foie gras sciolto in padella da cospargere sul boccone bianco: la golosità – e quel sapore tipico del pesce cotto in padella – grazie ad un solo accenno di materia grassa. In Albume d’uovo come una steak tartare, una mirepoix d’albume viene condita come fosse una classica tartare: in questo caso, il gioco di corrispondenze non funziona – mancano cremosità e parte ematica – ma non lascia indifferenti poiché “l’errore” consente di analizzare la genesi del piatto e il meccanismo di funzionamento delle similitudini. Un passaggio straordinario – forse quello più incisivo – è Verza e civet di radicchio, in cui la salsa civet è preparata con radicchio e sangue di volatile (rispetto alla tradizione francese la carne scompare dalla salsa e dal boccone): la lucidità della salsa è quella che conosciamo e la complessità gustativa rara, tra l’amaro e l’acido del cioccolato (che non c’è), oltre a quella nota ematica che ci era mancata nel piatto precedente. In Gianduiotto di gelatina di brodo di manzo e maionese al sugo di carne la texture del nervo bollito o stufato viene riprodotta con una gelatina di brodo di manzo (qui, però, il gusto della carne è presente, a differenza della tradizione, dove si mangia “la consistenza”): un piatto che fa venire alla mente “Gnocchi and parmesan sauce“, servito da Aduriz proprio in questa cucina, in un rapporto di specularità (lì il tendine c’era ed era dissimulato sotto la forma di uno gnocco ricoperto di salsa al parmigiano). Da ultimo, la “memoria storica” di Passione Gourmet deve necessariamente tenere traccia di Animella e mozzarella – un piatto assaggiato nella precedente visita di luglio -, uno dei più straordinari dello scorso anno (e non solo): due ingredienti distanti – ma dall’identica testura – e un assaggio sorprendente, che sfugge alla razionalità. La cucina di Matteo Baronetto è una voce solitaria – unica -, attualmente una delle più fertili nel panorama europeo, insensibile al contesto gastronomico attuale, inespressiva di tendenze e, per questa ragione, tremendamente affascinante.

IL PIATTO MIGLIORE: Verza e civet di radicchio.

La Galleria Fotografica:

Matteo Baronetto, La Table du Chef e la Nuova Cucina Italiana

Matteo Baronetto è stato per diciotto anni al fianco di Carlo Cracco, nel periodo in cui il cuoco di Creazzo era considerato uno dei massimi esponenti della cucina d’avanguardia a livello internazionale. Nel 2014 il trasferimento alle redini di Del Cambio, un ristorante le cui origini risalgono al 1757 e che ha visto sedersi ai propri tavoli, tra gli altri, Friedrich Nietzsche e Honoré de Balzac.

L’incarnazione di una città e, nel contempo, un baluardo della tradizione. Di primo acchito, due mondi distanti e dalla difficile convergenza. Se non ché, come spesso accade, a fare la differenza sono le persone, la loro passione – od ossessione – e la capacità di fronteggiare la complessità, individuando legami e connessioni invisibili ai più. Ad oggi, la cucina di Matteo Baronetto ha raggiunto una profondità tale da saper soddisfare chiunque. Dal turista che si reca da Del Cambio con il desiderio di assaggiare un classico della cucina torinese eseguito magistralmente all’appassionato più incallito, perennemente alla ricerca di una cucina autenticamente autoriale, anche sfidante.

A questi ultimi – ma anche a chi, più semplicemente, desidera esplorare nel profondo l’idea di cucina del cuoco – è rivolto il “Tavolo dello chef”, un bancone di marmo affacciato direttamente sui fornelli e capace di ospitare un massimo di quattro commensali. Sin da subito, ci si rende conto di come lo scopo di questa soluzione sia quello di instaurare un dialogo e un confronto con l’avventore, una sessione di cucina jazz in cui le due parti si scoprono e si influenzano vicendevolmente, in una dinamica che trascende il cibo in senso stretto per sfociare in una relazione umana, elemento verso cui il cuoco piemontese dimostra di voler investire molto, anche accantonando alcune sovrastrutture che spesso – e soprattutto negli ultimi anni – caratterizzano il rapporto chef-cliente. 

Misteriose risonanze e avanguardia come riflessione sulla tradizione

Il percorso servito a le Table du Chef corre lungo due fili conduttori che si alternano o coesistono. Da un lato, vi è la ricerca di “similitudini” tra le diverse portate – spesso servite “in parallelo” – ma anche all’interno del singolo piatto dove ingredienti apparentemente distanti si mostrano imprevedibilmente affini in un inesauribile gioco di rimandi e collegamenti, estremamente stimolante. Dall’altro lato, molti passaggi evidenziano uno sguardo inedito – ma estremamente rispettoso – nei confronti della tradizione. 

Un manifesto di questo binomio è rappresentato da Ostrica alla Rockfeller il mitile e gli spinaci sono ricoperti da un’ostia inumidita e brunita, cui si aggiungono due gocce di limone – a cui viene affiancato, in un parallelo, Alga nori, cavolo nero, caviale, crema di latte e olio al cavolo nero. I due piatti sono accomunati da un perfetto equilibrio tra note “verdi”, sapide e iodate e, nel contempo, l’accoppiata cavolo nero-alga nori evidenzia un’inaspettata somiglianza tra le consistenze dei due ingredienti. Un passaggio di rara eleganza è, poi, costituito dagli scampi al vapore, meringa salata all’italiana, olio di nocciola e marmellata di limone salato: un caleidoscopio di stimoli gustativi in perfetto equilibrio, cui viene affiancata una brunoise di kiwi giallo e patate, in un altro gioco di corrispondenze. 

In Moscardino e foie gras, il fegato grasso – sciolto delicatamente in padella – è chiamato a “sostituire” le interiora del mollusco, in un risultato complessivamente davvero notevole: l’inganno funziona sia in termini di vista che nella percezione delle textures al palato, ma a colpire è soprattutto il gusto. In Seppia e lardo e Lardo di mandorla gli spunti sono ancora una volta numerosissimi, nonostante l’estetica monacale e la monocromia del piatto: la corrispondenza tra il colore e la texture di seppia e lardo, la grassezza di quest’ultimo e della pomata di mandorla, le poche gocce di tintura al rosmarino che rievocano le tipiche note aromatiche del lardo. Quanto ai ravioli di gnocco alla bava, sono a loro volta il frutto di una riflessione su un piatto della tradizione: per assicurare il perfetto equilibrio quantitativo – e, quindi, gustativo – tra gnocco e condimento, entrambi vengono racchiusi in un raviolo di pasta fresca finissima: i limiti della tradizione vengono superati attraverso un utilizzo strumentale della stessa e, così facendo, un “difetto” diventa un’occasione di valorizzazione e consapevolezza. Accade anche nell’accoppiata tra rognoncini di coniglio e salsa alla luciana, in cui la nota animale delle interiora arricchisce il piatto in termini di complessità, oltre a ovviare a un inconveniente della preparazione classica, in cui spesso il polpo – dopo aver disperso i propri umori nel pomodoro – risulta privo di sapore.

Da ultimo il dessert, in cui la golosità del gelato di bonet trova come contrappeso una granita di Barolo chinato, a conferire note amare e aromatiche. Insomma, un pranzo a Del Cambio è un percorso ricco di stimoli, sfumature, citazioni e rimandi, alcuni dei quali difficili da trasporre per iscritto ed altri che necessitano di qualche tempo per essere metabolizzati. In particolare, il tema delle “similitudini” rappresenta una riflessione davvero personale e originale, carica di suggestioni: ci si accorge che ingredienti che si somigliano per consistenza, texture o resa estetica quasi magicamente si sposano anche al palato. C’è qualcosa di inspiegabile, quasi misterioso, che forse ha a che fare con la natura nel suo profondo. Un approccio lontano da cliché e un’avanguardia sussurrata fanno di Matteo Baronetto uno dei migliori interpreti dalla cosiddetta “nuova cucina italiana”. 

La Galleria Fotografica:

Cento di queste forchettate

Abbiamo deciso di suggellare la fine di questo anno solare con un’inconsueta classifica, la nostra classifica, dedicata all’italianità a tavola per antonomasia: la pasta. Per risvegliare il senso di appartenenza e, se non proprio l’amor patrio, quantomeno il gusto di essere italiani e così introdurvi, piatto dopo piatto, forchettata dopo forchettata, uno dei nostri progetti più ambiziosi di questo imminente 2020.

ALBERTO CAUZZI

Cappelletti alla genovese, zuppa forte di piccione, yogurt acido, lampone e funghi di Antonino Cannavacciuolo

La pasta ripiena è spesso utilizzata dallo chef partenopeo per perseguire il suo credo legato alle contaminazione tra Nord e Sud, tra la sua terra adottiva e la sua terra d’origine. Una commistione realizzata con classe ed eleganza estrema, come in questa pasta in cui la genovese del ripieno, dolce e sugosa, si amalgama incredibilmente con il dolceforte di piccione. Chiudono il cerchio le acidità di yogurt e cristalli gelati di lampone, la terrosità del brodo di funghi e il piccione, dalla nota ematico-piccante: un piatto tanto classico, tanto italiano, tanto sottile ed elegante, oltre che profondo e contrastato. Un inno alla pasta italiana.  

ANDREA GRIGNAFFINI

Cacio e 7 pepi alla brace di Errico Recanati

Sulla base dello stile narrativo di Errico Recanati che triangola spiedo, griglia e fumo ecco una Cacio e Pepe che parte dalla cottura della pasta alla brace, ovviamente dopo pre-cottura in acqua bollente prima e passiva poi. La brace quindi interviene in ripasso (per 5/6 minuti) con tecnica del cappello. Così si ottiene una sorta di breve affumicatura a caldo.  Il cacio si sdoppia tra la classicità del Parmigiano e il genius loci del Formaggio di Fossa che moltiplica peraltro l’idea di affumicatura. La base casearia è pronta per essere innervata dai 7 pepi mixati ad hoc: Timut, Lungo, Selvatico del Madagascar, Verde naturale della giungla, Bianco, Sichuan, Nero di Sarawak. L’affumicato precede il boccone, l’amido dello Spaghettone Benedetto Cavalieri si diffonde sul cacio, il pepe riverbera e punteggia.

ORAZIO VAGNOZZI

Pasta agli anemoni di mare di Antonio Guida

Il mare nel piatto in un’interpretazione tanto personale – quella di Antonio Guida – quanto universale, nei colori, nei profumi, nei sapori e nelle consistenze. Un piatto dall’equilibrio perfetto.

DAVIDE BERTELLINI

Le tagliatelle di patate con tartufo bianco d’Alba di Matteo Baronetto

Tanto semplice quanto straordinariamente buono: la consistenza incredibile della pasta di patate con cui sono realizzate le tagliatelle e lo spessore perfetto con cui sono tirate ne fanno il piatto di pasta antonomastico dell’anno appena trascorso.  Un mix di sapori, consistenze ed emozioni che rimandano all’ infanzia ma, al tempo stesso, alla contemporaneità e al grande carattere, oltre che alla filosofia, di questo grande chef italiano.

ALESSANDRO PELLEGRI

La Lasagna alla Bolognese di Luigi Taglienti

Un piatto realmente popolare, di cui è difficile – per non voler utilizzare il termine “impossibile” – trovare due versioni uguali in due case diverse. Nella versione proposta da Luigi Taglienti esso viene preso e, senza snaturarne né l’idea, né la forma né tantomeno l’esecuzione, viene sparato nell’iperspazio dell’alta cucina: gusto, finezza, golosità e italianità all’ennesima potenza. Un piatto in grado di posizionarsi, con pari spessore e dignità, tanto in una proposta alla carta quanto in un menù degustazione. Sublime.

Lume, Luigi Taglienti

LEONARDO CASALENO

Il tagliolino al tartufo di Diego Rossi 

Come può un piatto di pasta arginare l’idea di un cibo popolare? Basta mettere molti tuorli e tirare un tagliolino di callosità ed elasticità inappuntabili, unire brodo di pollo con tanto Parmigiano Reggiano e tantissimo burro, mantecare il tutto e, dulcis in fundo, affettarci sopra qualche fetta di tartufo bianco. Solo già la salsa che ne sortisce ha un equilibrio raro, che già parla per sé, ma l’allungo irresistibile del tubero lo rende magico. È la magia di un piatto semplice che si veste d’opulenza, in trattoria, lì dove alta cucina e tradizioni danzano senza soluzione di continuità.

ROBERTO BENTIVEGNA

Garganelli con astice, porcini e tartufo nero di Nicola Portinari

Il piatto “inclusivo”: capace di unire invece che dividere, che mette d’accordo tanto il gourmet quanto il gourmand, il seguace della creatività così come il fedele alla classicità estrema. Perché è semplicemente perfetto, per gusto, tecnica e precisione stilistica. Un grande classico de La Peca, un piatto da grandissimo ristorante.

GIACOMO BULLO…

Penne, burro ai ricci di mare, capesante essiccate, erbe spontanee e seppia ai carboni di Moreno Cedroni

Proprio un piatto di pasta consacra Moreno Cedroni al rango del fuoriclasse: un piatto assoluto dove la carica gustativa della capasanta è amplificata grazie all’uso della liofilizzazione, cui si unisce il vigore delle erbe selvatiche essiccate e poi passate sulla brace e la seppia appena scottata. La nota empireumatica del fuoco impressa sulle erbe si sposa con la dolcezza del riccio regalando sentori e ricordi di una grigliata di pesce sul mare del litorale di Marzocca.

…e FILIPPO BOCCIOLETTI

Più che un piatto di pasta “il” piatto di pasta, tale da rappresentare, iconograficamente, il manifesto del corso nobile del celebre carboidrato italico. Innanzitutto al posto della posata classica è sagacemente imposto all’ospite l’uso di una pinza, che costringe a gustare le penne una ad una: il ritmo “lento” va a nobilitare l’elemento nazional-popolare. Poi, la mano del maestro fa il resto: il burro ai ricci di mare insieme alla polvere di capesante dona sapidità, l’ortica e le seppie ai carboni l’amaricante e una textura da manuale, per un equilibrio d’insieme di ingredienti apparentemente antitetici davvero superlativo. La stellina composta di ricci di mare liofilizzati, da sbriciolare tra le dita sulle penne completa il servizio, confermando una tecnica all’avanguardia ma anche quella componente ludica tanto caratteristica di Moreno Cedroni. Un piatto che, a distanza di mesi, è ancora ben impresso nella memoria.

CLAUDIO PERSICHELLA

Pasta e cipolla di Andrea Leali

Un grande piatto di pasta che con maestria e solo apparente semplicità si anima degli ingredienti che lo compongono, in questo caso differenti tipologie e cotture di cipolla, tirandone fuori un concerto di sapori con gradazioni che si avvicendano in modo sorprendente e definito.

LEILA SALIMBENI

Spaghetto mantecato al burro di genziana, caciotta di capra, scorzetta di bergamotto candito di Gianluca Gorini

Servito alla fine del menù degustazione, una deflagrazione: un ko dei sensi. L’onda d’urto è spaventosa e somiglia alla carica, sia metaforica che letterale, di una capra appena uscita dal bosco: una capra che ha fatto incetta, per la precisione, di radici, cortecce e d’altre forme, tutte boschive, di amarezza. L’amaro purissimo della genziana e quello agrumato del bergamotto proiettano la percezione in una dimensione di gusto praticamente infinita: avanguardia pastorale.   

GIANPIETRO MIOLATO

Spaghetti freddi alla carbonara con uova di salmone e caviale di Massimiliano Alajmo

O di come semplificare la complessità con una profondità di pensiero impressionante. Dissimulazione e reinvenzione; nello specifico: la sapidità delle uova di pesce, in sostituzione del guanciale, e la base all’uovo a garantire quella rotondità capace di legare gli ingredienti, senza nostalgia, in un servizio a bassa temperatura. Una scelta straniante che permette tuttavia alla componente ittica di sprigionare tutta la propria potenza, facendo spiccare un salto vertiginoso, tanto immediato quanto ragionato.

FRANCESCO ZITO

Pasta mista in zuppa di crapiata, bisque di gamberi agli agrumi, crema di foie gras al Cardenal Mendoza, pesto di prezzemolo e tartare di gamberi  di Vitantonio Lombardo 

È un piatto visivamente ed emotivamente di impatto: è l’omaggio più bello e buono a Frank Rizzuti, compianto chef e prima stella Michelin in Basilicata. Gusto deciso, sapori netti, definiti e bilanciati caratterizzano una vecchia ricetta della tradizione materana, arricchita e nobilitata dal foie gras e dalla quenelle di tartarre di gambero. Il risultato è strepitoso… e commovente!

Al tavolo dello chef, la cucina classica del futuro

Fondato nel 1757, il ristorante Del Cambio di Torino è tornato a nuova vita, negli anni più recenti, anche in seguito al restauro terminato nel 2014. Oggi, siamo al cospetto di un ristorante di altissimo livello, annoverabile non solo tra i più belli d’Italia ma anche – e soprattutto – tra gli indirizzi di riferimento, sempre in italia, per la cucina. Del resto, da quando ne ha preso le redini, lo chef Matteo Baronetto ha introdotto una cucina di personalità con creazioni originali lontane dalle mode, dove i sapori degli ingredienti utilizzati vengono esaltati da preparazioni e abbinamenti insoliti, mai banali, con il risultato di piatti squisiti, equilibrati e gustosi. Con queste premesse arriviamo, carichi di aspettativa, al suo chef’s table.

Stavolta non ci sediamo nella meravigliosa Sala Risorgimento, né nella contemporanea Sala Pistoletto; rinunciamo anche all’ampia scelta della carta – le cui numerose proposte spaziano dal classico al contemporaneo includendo tre menu degustazione – per navigare nel mare aperto di un menu a mano libera, con piatti inediti, vista sulla cucina e presenza, costante, dello chef, ad aumentare il livello della nostra aspettativa.

Bisogna ammettere, del resto, che il tavolo dello chef è un privilegio. Davanti al piacevole spettacolo della brigata di cucina che, con millimetrica precisione, esegue i piatti più disparati, lo chef ci coccola dando sfogo alla sua libertà creativa, proponendoci pietanze di eccezionale valore. Che hanno una caratura ed un tenore profondamente diverso da ciò che viene proposto in sala, questo è bene dirlo. Simultaneamente il sommelier suggerisce, attingendo da una lista dei vini molto ben fornita di etichette, sia italiane che straniere, accostamenti che si dimostrano veramente azzeccati.

Del Cambio: le similitudini di Matteo Baronetto

E veniamo ai piatti, alcuni dei quali basati su quelle che Baronetto definisce “similitudini”, ovvero una serie di inattese combinazioni di ingredienti differenti capaci di esprimere sensazioni gustative simili, ricche di contrasti tonali – per dirla in pittura – con l’obiettivo di valorizzare gli ingredienti per assonanza facendo emergere meglio la loro essenza.  E così, oltre alla concordanza legnosa del cece con la nocciola assaggiati in altre occasioni, l’irresistibile amarezza agrumata dell’amarena e dell’oliva taggiasca, la dolcezza balsamica delle puntarelle e del finocchio, la delicatezza lipidica del midollo e della capasanta e l’assonanza cromatica gustativa delle zucchine tonde e dell’avocado, a far da protagonisti di piatti indimenticabili. Per non parlare, poi, di alcuni capolavori come il Ramen piemontese (brodo di manzo, tajarin, peperone, acciuga, bagnetto verde, fungo, rapanello e rondella di porro), l’animella (con pomodoro, kiwi, dashi, raviolo e gelatina), la seppia e lardo con nigiri rovesciato, la quaglia con zuppa di crostacei e la triglia con la testina di maiale.

Un’esperienza straordinaria quella al ristorante Del Cambio, figlia di un uomo, prima ancora che di un cuoco, cui non piace riposare sugli allori. Sereno e consapevole dei propri mezzi, Matteo Baronetto continua a creare delizie proponendo una cucina contemporanea autoriale fatta di continue innovazioni e rivisitazioni, realizzate con tecnica e sensibilità.

Oggi, una cucina contemporanea e innovativa che potrebbe diventare la cucina classica del futuro con una notevole differenza di valore – e non potrebbe che essere che così – tra table du chef e ristorante alla carta.

A proposito di aspettativa, ampiamente superata!

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