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Cracco Portofino

Il buen retiro di Carlo Cracco nel Golfo del Tigullio

La residenza estiva di Carlo Cracco non poteva che trovarsi a Portofino. Lo Chef, infatti, benché veneto di origine, ha finito per incarnare, nel corso della sua carriera, molte cose, tra cui la città di Milano di cui rappresenta l’estensione di un’italianità mercuriale, colta e cosmopolita, la stessa che colloca a Portofino la sua seconda casa al mare, o la raggiunge per celebrare gli anniversari più importanti. Ma questa storia, tuttavia, è anche una “fenice”, giacché rinasce dalle ceneri di quello che già fu il Pitosforo che, negli anni Cinquanta, attirava il jet set nazionale e internazionale nel Golfo del Tigullio, sempre per merito della capacità della famiglia Vinelli d’interpretare l’aire du temp. Cosa, questa, che fa magnificamente anche oggi affidando a Carlo Cracco, da luglio 2021, il timone della sua storia contemporanea. 

Qui, ogni elemento della natura è racchiuso in un ambiente diverso: due terrazze e un pergolato al sole, come vuole l’immaginario ligure; la roccia in cui è incastonato, invece, il bar, con l’imponente bancone a ferro di cavallo; ultimo ma non ultimo il mare che, oltre a dominare ogni affaccio, è anche l’elemento che abita la sala da “dentro”.

Quanto al menù, bisogna premettere che la brigata di Cracco Portofino è orchestrata, e ottimamente, da Mattia Pecis: giovanissimo talento – classe 1996 – Mattia è nato sotto il segno di Cracco dove approda nel 2015 dopo aver fatto il periplo delle migliori cucine dello Stivale. Ma è precisamente a Portofino che Pecis trova la sua casa contemporanea, introiettando lo spirito del tempo mediante un uso centrale dell’elemento vegetale, che diventa il proprio topos di riferimento: siamo pur sempre in Liguria, del resto, benché pied dans l’eau e, così, questo regno viene ritratto in ogni piatto, quasi come fosse un trompe-l’œil, in tutto il suo nitore, la sua intima fragranza, la sua turgidità caduca e, pertanto, preziosa. Ne è un esempio, e lapalissiano, “L’orto di Iva“, ovvero un segmento di porro cotto sotto la creta di cui la consistenza, croccantissima, magnifica la commovente freschezza. Un vegetale che, in tal guisa, assurge all’importanza di una carne complici alcuni passaggi come il bel servizio al guéridon e l’uso del fondo che, seppur vegetale, è profondo come fosse a base di carne, che ricorda pure nella masticazione. Siamo, dunque, al cospetto di un clou, che tale deve apparire sia esteticamente che gustativamente. 

Quanto al mare, esso si fa veicolo per la tradizione come accade nel bel Cappon magro cui, pure, avrebbe giovato, a corroborare, un giro d’olio più generoso o di salsa verde. Sempre in termini di eloquenza, e di Zeitgeist, si fa notare anche lo Spaghettone con estratto di amarena, scampo crudo e provola affumicata: non è la prima volta, infatti, che a uno spaghetto viene demandato il compito di introiettare un frutto, o l’essenza dello stesso, come a dire che buona parte dell’avanguardia gastronomica italiana possa passare proprio tramite un veicolo trasversale, e versatile, come la pasta: la nostra pasta nazionale.

Il menù, comunque, prosegue spedito, senza inutili complicazioni, servendosi dell’assist di un Leitmotiv importante: quello, appunto, dell’elemento vegetale. Ciascun piatto, infatti, è vestito e avviluppato da una salsa, una laccatura, un gel, un brodo, un fondo, sempre di verdure, capace di creare dinamiche gustative costantemente differenti ed evocando suggestioni da mondi lontani – vedi il Ramen – o vicini, se non vicinissimi come accade nel caso del pesto nel golosissimo Collare di ricciola con le verdure.

Anche stavolta, insomma, Carlo Cracco – anche qui a Portofino – ci regala un’altra grande prova d’autore, nonché la riprova che la cucina altro non è che un altro modo, alla stregua di ogni arte, di interpretare lo spirito del proprio tempo e del luogo in cui dimora.

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Carlo Cracco, Dinner Club e la Galleria

Carlo Cracco, si sa, è cuoco poliedrico e mediatico ma il suo ultimo contributo televisivo, Dinner Club, distribuito e prodotto da Amazon Prime, ci ha sorpreso molto. Un format vincente, che affronta i giacimenti gastronomici del nostro paese con un piglio internazionale adeguato, senza scadere nella macchietta italica. Con una buona dose di ironia, divertimento e con partner davvero perfetti, ogni puntata veicola la nostra cultura e la nostra storia attraverso la scoperta del cibo e delle risorse di cui l’Italia è così ricca. Carlo, da padrone di casa, lo fa con piglio inedito e molto meno impostato di ciò che è avvenuto nelle sue partecipazioni televisive sino ad ora, tanto che la maturità e l’efficacia raggiunta va di pari passo con ciò che avviene, oggi, in Galleria Vittorio Emanuele.

Avanguardia italiana in Galleria

Che Carlo Cracco fosse un cuoco di razza, che esprimesse una cucina molto personale e unica, che fosse stato uno dei protagonisti di spicco dell’avanguardia culinaria italiana, era evidente sin dalla nostra ultima visita. Al suo fianco oggi c’è Luca Sacchi, cresciuto al suo fianco, vero e proprio partner in crime del cuoco vicentino: è questa sinergia ad aver proiettato la cucina del ristorante Cracco verso una dimensione che ci ha davvero entusiasmato. Maturità, precisione, personalità sono le cifre stilistiche espresse con una decisione e determinazione tali che si affiancano a freschezza e vivacità, tipiche dell’ardore giovanile. Questo, a nostro avviso, è il risultato di una maggiore serenità di approccio al progetto di alta cucina che i due hanno intrapreso qualche tempo fa, ma che a causa della partenza difficile, prodigata da un cambio di sede e di struttura non da poco, e dal periodo pandemico, ha subito degli innegabili rallentamenti.

Ma oggi il ristorante Cracco marcia decisamente ad una velocità altissima, coniugando lo stile e la sapienza del maestro vicentino con l’estro di Luca Sacchi, pasticcere prestato alla cucina, che trasporta tecniche, impiattamenti e visioni dell’arte della pasticceria nel mondo salato, con una padronanza ed efficacia davvero uniche. Ne sono un nitido esempio il bombolone alle alghe e ricci di mare e il think green: tecnicamente e concettualmente due dessert, proiettati nel mondo salato. L’uso sapiente, peraltro, del sale, tenue, e la veicolazione di ingredienti in forma naturale, traccia la rotta verso l’esplorazione dell’insapore, del neutro, come combinazione in perfetto equilibrio di acido-dolce-sapido e amaro.

Una vera avanguardia, questa, che trova il suo paradigma nei due piatti citati ma anche nello spaghettone zenzero e pomodoro, in cui l’equilibrio tra le componenti è tutto, e tale da trasformare il piatto da fantastico quale è a tragicamente inespressivo. Ma non è così. Qui, in Galleria Vittorio Emanuele, si assiste alla rinascita di un grande interprete sia in termini di cucina e che di stile personale.

I piatti alla carta, poi, sono molto più confortevoli e in buona parte indirizzati a un mercato, e dei clienti, che cercano meno stimoli e più rassicurazioni, ma se venite in galleria vi consigliamo il menù degustazione, oggetto della nostra visita.

Evviva Cracco, evviva Luca Sacchi, evviva il gruppo di giovani ragazzi, con particolare menzione per il sommelier Gianluca Sanso, che vi faranno vivere intense emozioni, palatali e non solo.

La Galleria Fotografica:

Stellato, ovvero come far diventare un modesto cuoco un Masterchef

Dopo aver trascorso mesi con sistemi di delivery di ripiego, motivati dalla ricerca di una soluzione imprenditoriale per gestire l’emergenza, ora iniziano a vedere la luce progetti pensati appositamente per questo scopo: ossia concepiti e ottimizzati esplicitamente per la consegna a domicilio anche a molti km di distanza dal luogo di produzione, come Stellato.

Il progetto di Stefano Ciotti, chef stellato del Nostrano di Pesaro, e Simone Sabaini, noto ai più gastrofanatici come l’artefice del progetto Sabadì, vanta la loro duplice, impeccabile anima: Stefano è il cuoco, colui che ha pensato e ideato le ricette, Simone ci ha messo, dalla sua, l’esperienza imprenditoriale e la mania estrema nella ricerca della perfezione logistica. E il mix è tanto ben riuscito quanto coeso. Dopo il nostro ordine abbiamo ricevuto il pacco il giorno successivo. Sarebbe stato possibile consumare, tenendoli in frigorifero, le preparazioni fino a tre giorni successivi.

Noi aggiungiamo, non ce ne vogliano i gastrostrippati del puro e del fresco, che un passaggio in congelatore avrebbe allungato ancor maggiormente la shelf life di questa meraviglia di preparazione. Dal sito, molto ben strutturato e ottimizzato, si evince chiaramente quale sia la proposta dei menù, che varieranno comunque nel tempo e sono concepiti per tentare tutti i palati e tutte le possibili richieste (c’è anche un menù interamente vegetariano, quello della nostra prova) con l’aggiunta di fuori menù, anch’essi concepiti per cambiare costantemente.

La formidabile macchina da guerra messa in piedi dal duo ha, però, un aspetto tanto originale quanto apparentemente scontato: la cura maniacale nel prevedere potenziali errori di preparazione. Se approfondite la vostra conoscenza di Stellato attraverso i tutorial predisposti scoprirete come nulla è lasciato al caso, neppure i piccoli errori domestici, possibili e anzi frequenti per i cuochi amatoriali.

Ecco quindi che, con poca fatica e davvero scarso impegno, potrete regalarvi prestazioni stellate anche se nella vostra cucina non cucinate mai, o quasi mai! Questo è il vero, grandioso plus di questo delivery che per una volta, al cospetto della vostra amata o dei vostri amici, vi farà sentire Masterchef per una sera. E che masterchef!

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A Novara c’è fermento grazie al Masterchef Antonino Cannavacciuolo

Il Teatro Coccia è il tempio della lirica novarese. Dedicato a Carlo Coccia, per più di trent’anni maestro di Cappella del Capitolo del Duomo nonché direttore del Civico Istituto Musicale “Brera”, è qui, in quelli che furono i locali del teatro, che Antonino Cannavacciuolo ha aperto la prima delle due “succursali” della casa madre, Villa Crespi. Il grande cuoco-Masterchef ha messo alla guida delle cucine del cafè e del bistrot Vincenzo Manicone, ragazzo cresciuto e maturato alla sua corte il quale possiede, invero, il dono dei predestinati: il senso del gusto, dote paradossalmente rara in questo mestiere.

Ed è proprio grazie a questo gusto che Vincenzo elabora creazioni eleganti, con le giuste geometrie e proporzioni tra gli ingredienti, con una grande capacità di saucier che lo rende, a tutti gli effetti, un grande interprete dell’alta cucina classica. Mai un tocco fuori posto, mai un eccesso e – del resto da un capofila partenopeo come Cannavacciuolo non potevamo aspettarci altro – grande elaborazione tecnica, soprattutto nelle prime pietanze. Come il riso, decisamente intrigante, con le note amare della cipolla bruciata e l’acidità del pomodoro giallo, che controbilanciano la dolce grassezza degli scampi. Un riso volutamente tenuto al dente, cucinato ed elaborato in modo tale che ricorda tanto una paella, con le sue ossidazioni pronunciate e il tocco amaro della parte leggermente e volutamente bruciata in padella. Splendidi, poi, anche gli spaghetti, serviti consapevolmente ancorché lievemente bassi di temperatura, così costruiti per non ossidare la componente iodata del piatto e mantecati con una splendida crema di anguilla affumicata e salsa aioli da manuale. Ed è proprio questo il quid: l’impiego equilibrato di salse e fondi di cottura non appesantisce, anzi, fa veleggiare leggeri nel mondo della classicità, senza rinunciare nemmeno a qualche guizzo creativo. Il risultato finale? Tremendamente buono, goloso, elegante e pieno, in una parola, ricco.

In questo contesto, anche la battuta, la capasanta e l’anatra erano compiutamente equilibrate, l’unico appunto che sentiamo di fare è che ciascuna di queste portate scontava una leggera flessione per quello che attiene la centralità del piatto rispetto ai collaterali. Dettagli che, se sistemati, potrebbero ulteriormente far volare questa cucina verso traguardi nettamente superiori.

Completano il quadro un servizio all’altezza, seguito da ragazzi molto giovani ma preparati e attenti, e da una carta dei vini interessante nelle proposte e articolata quanto basta. Nella bella stagione il vero lusso è poter pranzare o cenare sul terrazzo del teatro, con vista su Piazza Martiri della Libertà.

Peranto, se finora le rotte dei gastro-fanatici non prevedevano particolari fermate a Novara, adesso è d’uopo  pensare a una deviazione: perché questo chef e questa cucina meritano decisamente.

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Non si ferma mai, Antonino Cannavacciuolo

I fitti impegni televisivi, l’appagamento di un successo di pubblico e di critica e, soprattutto, un pressoché costante sold-out: fattori che potrebbero indurre in più di una tentazione o, quantomeno, in un rilassamento fisiologico. Lungi dall’essere così: nella sua bomboniera di Orta San Giulio, Antonino Cannavacciuolo spinge, e spinge forte. Spinge sulla location, con novità graditissime quali una terrazza rinnovata con tanto di bar esterno e la possibilità di pranzare/cenare all’esterno (possibilità per ora purtroppo riservata ai soli ospiti delle camere).

Ma soprattutto spinge, ed è questo che a noi interessa ancor di più, sulla cucina. Sempre personalissima pur nella sua indiscutibile neoclassicità, fruibilissima da qualsiasi palato e pur costantemente sorprendente anche per i più avvezzi: una cucina solare, verace, magistralmente calibrata sia sul piano gustativo che texturale (quest’ultimo elemento che si rivelerà importantissimo in più di un’uscita). Un inno alla mediterraneità che non disdegna neppure frequenti incursioni estetiche e concettuali, al di fuori dei confini nazionali. La carta non evolve alla velocità della luce, ma le nuove proposte non mancano, come pure le evoluzioni di piatti già in precedenza incontrati e, in entrambi i casi, i risultati non hanno mancato di entusiasmarci.

Un manuale di alta gastronomia

Le tagliatelle di fagioli, cozze e trippa di baccalà sono un piccolo compendio di alta scuola gastronomica: di come sia possibile rivisitare un grande classico senza che l’interesse venga meno; lo spaghetto allo zafferano, ricci di mare e quinoa croccante è un modello di perfetto equilibrio gustativo e texturale, con acidità e croccantezza a perfetto contrappunto vivacizzante alla prorompenza del riccio. Il sontuoso maialino in porchetta, albicocche, carote e finferli è solarità allo stato puro mentre la quaglia, scampo, veli di ostrica sorprende per l’inattesa armonia e uno sviluppo orizzontale che pare infinito. Il dolce miele, aloe vera e polline evita abilmente il tranello teso da un risultato troppo stucchevole – il quale, considerando la materia di partenza, non è così scontato – raggiungendo una leggiadria davvero inattesa.

Il tutto, sostenuto da una macchina ormai perfettamente collaudata in cui tutto, ma proprio tutto, funziona alla perfezione dall’arrivo alla partenza.

Vale quindi la pena di armarsi della pazienza necessaria per accomodarsi a questa tavola ma, a tal proposito, due consigli: se pernottate, siete in pole position; per gli altri, invece, non sottovalutate le possibilità di prenotare con un last minute!

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