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Lula pane e dessert

Una grande pasticcere e la sua boutique

Luca Lacalamita, classe 1985, ha alle spalle esperienze importanti: Ferran Adrià, Massimo Bottura, l’Enoteca Pinchiorri. Un grandissimo pasticcere, di grande talento e profondità, che decide di aprire nella sua città, Trani, una panetteria contemporanea.

Il pane la fa da padrone, certo, ma il talento smisurato di questo giovane pugliese non poteva limitarsi a questo. Ecco quindi sfornare deliziose prelibatezze, sia dolci che salate, in una boutique del gusto che vale il viaggio, non solo la deviazione. Due vetrine che affacciano su uno dei corsi più importanti della città, e altrettanti metri quadri – oltre a quelli del locale aperto al pubblico – nascosti per la lavorazione di pane, pasticceria e cioccolato.

Solo 35kg di pane al giorno, che volano via in poche ore, se non prenotati, in cui si stagliano il meraviglioso pane cicoria e fave, accompagnato per la nostra degustazione da carote di Polignano e gel d’olio; un sublime pane integrale con pomodorini e fave fresche e una focaccia con patate cotte a bassa temperatura e pomodorini da urlo.

Poi pralineria, piccoli capolavori di pasticceria in monoporzione, plumcake da paura e panettoni tutto l’anno. Il chou all’olio di oliva, arance, nocciole e cioccolato è un capolavoro, quanto la citazione di pinchiorriana memoria della crostata di frutta e di verdura.

Unico invito? Non tardate troppo e precipitatevi a Trani: qui troverete un talento puro, nitido, di grande scuola pasticciera.

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Haute Couture e Haute Cuisine nel cuore di Firenze

Italianissima e cosmopolita, senza soluzione di continuità. Un po’ come la Firenze che fu, al tempo, la culla del Rinascimento, luogo al centro di scambi culturali ed economici. L’Osteria “fashion” del cuoco numero uno al mondo è semplicemente così. Uno stile inconfondibilmente estroso – a sua immagine e somiglianza – griffato Gucci, una ubicazione di raro prestigio e un museo in cui la moda si adorna dell’intrigante fascino dell’arte moderna… e dell’haute cuisine. Il tutto, appunto, nel cuore pulsante di Piazza della Signoria, patrimonio dell’umanità. È qui che parte la mission di Massimo Bottura il quale, dopo aver stretto la sua amicizia con lo storico ed elitario brand sinonimo di lusso, vuole riuscire nell’intento di trasmettere l’idea di eccellenza gastronomica in uno dei luoghi più battuti dal turismo mondiale, dove il rischio che il cibo passi in secondo piano è altissimo, restando ancorato ai falsi cliché del Bel Paese che da sempre sviano il turismo di massa verso mediocri lidi gastronomici.

“Viaggiando per il mondo”

Alla Gucci Osteria va in scena una cucina rigorosamente internazionale, un po’ perché la patria di Dante Alighieri era un melting pot di culture in epoca rinascimentale, un po’ perché gli ingredienti locali – vedi la prestigiosa Chianina – vengono utilizzati per preparazioni più “street-global-pop food”, giocando (con massimo rispetto e rigore) con l’immaginario collettivo del turista. Così la pregiata razza bovina Toscana finisce in un irresistibile hot dog, mentre il cotechino in un hamburger che richiama i sapori emiliani. Anche quando si vuole “sconfinare” in una zona confortevole, si cerca di trovare un filo conduttore tra Italia e mondo: vedi l’idea della pasta mista di Gragnano, che viene presentata come una bouillabaisse.

“Viaggiando per il mondo” ha detto Bottura in una delle tante interviste fatte, “la nostra cucina interagisce con tutto quello che vediamo, sentiamo e gustiamo”. Questo è il pensiero, come direbbero gli americani, espresso “in a nutshell”, della Gucci Osteria che, chiariamo, non vuole essere la Francescana, ma la genialità del cuoco modenese aleggia prepotentemente nell’aria. Bisogna dare tempo al tempo, anche a un progetto di questa portata, perché far convivere grandi numeri e qualità non è cosa da poco. Bottura ci riuscirà senza dubbio.

La brigata di cucina è stata affidata alla giovanissima cuoca messicana Karime Lopez Kondo, con prestigiose esperienze alle spalle in cucine come Mugaritz, Ryugin e Central (in effetti, visto il vertiginoso numero di coperti macinati a ogni servizio, il fatto suo lo conosce bene) e moglie di Takahiko Kondo, sous chef di Bottura all’Osteria Francescana.

Per il momento possiamo segnalare qualche necessaria sistemazione, soprattutto nei piatti principali come il risotto (mantecato alla perfezione ma poco contrastato nelle acidità) e nella pasta mischiata (con la cottura della pasta un po’ eccessiva, e in cui la salsa era a nostro avviso un filo greve).

La sala è giovanissima e si muove con disinvoltura tra i tavoli. La cantina è discreta e il prezzo, considerate location e qualità, è a nostro avviso corretto.
Nel complesso, la Gucci Osteria è un luogo di irresistibile fascino, divertentissimo e informale, nel quale il “Bottura-pensiero” è appannaggio di tutti; sì, perché è giusto che sia così, almeno a Firenze, uno dei centri nevralgici del mondo.

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Ode al gusto nel segno modenese

Una galassia di riconoscimenti, il vertice delle classifiche, ma anche convegni, partecipazioni accademiche, progetti solidali. Nell’universo culinario di Massimo Bottura, il self made chef trova il tempo di prendersi cura, affidando a una brigata capitanata da Bernardo Paladini,  della Franceschetta 58, sorella minore, in nome e in riconoscimenti per ora, ma non in qualità della celeberrima Osteria Francescana.

La parentela tra queste due realtà è facilmente intuibile mirando al gusto in primis, e alla consapevole valorizzazione della tradizione gastronomica italiana poi. Tradizione che porta fortuna, classica ma non per questo banale, storica ma non intoccabile. Il solco gastronomico italiano/regionale si delinea perfettamente in tutta la carta della Franceschetta: archetipo del Bottura prima di tutto modenese, e poi internazionale.

Il fil rouge dei piatti volutamente famigliare

I piatti esprimono quell’italianità precisa intrinseca nella memoria di ciascuno che li assaggia. Vi è qualcosa di familiare e ben riconducibile alle nostre tavole. Il menu viaggia infatti dal Nord al Sud dell’Italia, attingendo alla tradizione e cogliendone la sua portata: alleggerire dove oggettivamente necessario o amplificare dove piacevolmente richiesto.

Dunque, il Merluzzo mantecato del Settentrione incontra il Peperone crusco lucano, con ceci e nocciole, sposandosi in quella dolcezza che racconta sapori per almeno due terzi dello Stivale. La Cernia con pesto di pomodori secchi, olive, capperi e brodo di cipollotto rosso, sconfina apparentemente nell’orientale con la presenza del daikon, ma nell’attimo riaffiora la conturbante mediterraneità di sapori, che fondendosi tra loro riposizionano il gusto, nel tipico calore meridionale.

Con l’Emilia Burger poco da dire, molto da godere. Modena one bite: impasto del cotechino, salsa verde (spettacolare!) e maionese rigorosamente all’Aceto Balsamico Tradizionale, il tutto racchiuso da un soffice panino da hamburger. Il difetto: purtroppo Troppo buono! Ci sono poi i Tortellini in crema di Parmigiano Reggiano, con unica nota stonata data dall’eccessiva stagionatura scelta del formaggio usato nella fonduta: troppo forte in relazione al ripieno già molto saporito del tortellino.

Il dolce non eguaglia il salato, eppure il tutto è in perfetta armonia. La Zuppa inglese, simbolo in Emilia di golosità zuccherina, in questa veste è ariosa nella parte solitamente più pesante della crema grazie all’impiego del sifone, trovando ulteriore spazio nell’infuso speziato in completamento del piatto.

In una narrazione gustativa la ring composition nel viaggio della Franceschetta è curiosa, dinamica, divertente, fa arricchire e, come tutte le cose alle cui si è affezionati, ritorna alla mente grazie ai suoi sapori. Durante il pasto, quasi proverbiale, la sguardo ogni tanto va alla vetrata del ristorante dove capeggia quella scritta in rosso fiammante, nel tipico layout newyorkese, “I ♥ Modena”, e allora capiamo davvero quanto di nascosto possa essere svelato in quella tradizione che ha così tanto da raccontare con maestri e chef come questi.

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La maturità

Ecco Osteria Francescana oggi. Ecco Massimo Bottura. Ecco Giuseppe Palmieri. Andrea e Luca Garelli. Davide Di Fabio, Denis Bretta, Kondo Takahiko.
Ecco il refettorio, le mani aperte verso il prossimo, mani pronte a  dare ma anche a ricevere: un luogo dove uscire diversi da come si è entrati. Food for soul, il pensiero dietro al gesto, l’epidemia di entusiasmo. Il pensiero (nato in tempi non sospetti) di spezzare l’abbinamento piatto-vino, magari servendo un cocktail.
E la convinzione che tutto questo non sarebbe stato possibile senza l’Osteria Francescana. Senza quelle good vibrations che si avvertono nell’aria, che si vedono negli occhi vivi di chi ha deciso di passare buona parte della propria giornata in questo luogo. Questo è il laboratorio, la bottega rinascimentale.
Dove si è raggiunto un tale grado di consapevolezza da non avere più paura di niente, perché non si può essere più incasellati in qualcosa di specifico. E quando non si può più essere incasellati, allora si è liberi e capaci di tutto.

“Tutto”, come il nome dell’ultimo incredibile menù in casa Francescana.

La maturità è una fase ideale in cui interfacciarsi con il mondo. La maturità non è la completezza, la chiusura precisa di un percorso. Anzi, trova la sua forza proprio nella consapevolezza della propria incompletezza, della propria necessità di tendere a qualcosa di più grande. L’interiorizzazione di una verità: di non essere il centro di sé stessi, ma di esistere in quanto in comunione con gli altri, nel gesto quotidiano del dare e ricevere. La maturità è la libertà. La libertà di non gonfiarsi o sgonfiarsi a seconda di quello che dicono gli altri, la libertà di fare qualcosa in modo diverso, anche se si è sempre fatto così, la libertà di saper tornare indietro senza sentirsi in colpa, di girare a sinistra anche se tutti dicono di girare a destra. La libertà della lista di attesa, del servizio “a modo mio”, del sottovuoto e della piastra rovente. La libertà data dalla convinzione e dall’equilibrio.

Il nuovo menù: ancora un passo in più

L’ennesimo, assurdo e impensabile rialzo dell’asticella. Il servizio al tavolo di un liquido nel comporre ogni piatto di portata richiama la Francia nella forma, ma nella sostanza se ne discosta anni luce. Acidità, umami, profumi inebrianti e un viaggio senza meta tra Oriente e Occidente, tra passato, presente e futuro.

La classicità di un dessert al cioccolato tecnicamente perfetto e la transavanguardia di una sogliola mediterranea che spezza e riallaccia ponti.
Il viaggio nella cucina rinascimentale estense con la Tarte tatin di frattaglie di germano, piccione e pernice e poi il Riso tra un’anatra all’arancia e un’anatra alla pechinese, con la grattugiata di arancia bruciata, che è gesto, sostanza, forma e pensiero.
Il migliore menù in Francescana di sempre?
Sì, ancora una volta.

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Cucina italiana contaminata: il sunto dell’intrigante cucina di Yoji Tokuyoshi

Cos’è la contaminazione secondo il pensiero di Yoji Tokuyoshi?
Innanzitutto è il rigore delle tecniche applicate alla tradizione italiana. È l’estetica nipponica che passa attraverso “impiattamenti” a volte artistici, altre ludici e comunque sempre originali e vede l’introduzione di stoviglie disegnate e pensate appositamente per i piatti concepiti.

E’, soprattutto, l’amore e l’attaccamento ai meravigliosi ingredienti della nostra penisola, con i quali vengono create combinazioni di sapori che si innestano nella tradizione dando luce ad un piacevole ibrido estremamente leggibile. Tanto divertente e golosa, quanto intrisa di pensiero, una cucina personale che sorge dall’incrocio tra due culture gastronomiche che hanno pochi rivali nel mondo.

Yoji ha ormai quasi staccato il cordone ombelicale che lo lega al suo noto mentore, evolvendo e sviluppando i concetti appresi, come quest’ultimo ha fatto, nel tempo, con i suoi maestri; lo sgombro Gyotaku o l’anguilla in polvere sono solo imprescindibili retaggi di un’esperienza difficilmente ripetibile che rendono omaggio con fierezza al periodo creativo trascorso in Via Stella e sono, senza dubbio, espressione di cucina in costante evoluzione. Ogni portata viene servita con un elemento liquido a latere, a volte un brodo, a volte un succo, quasi intingolo di accompagnamento, mai avulso dal piatto principale, capace di apportare un valore aggiunto in termini di risvolti gustativi. Una trovata che funziona e che, a memoria, è una peculiarità nel panorama nazionale attuale.

Come l’estratto di olive e pomodori verdi che accompagnano lo splendido spaghetto alla chitarra con ricci di mare, con lo iodio in allungo, o il magistrale piccione “mediterraneo”, con mandorle fresche, pistacchi, finocchietto ed altri ingredienti provenienti dalla amata Noto, servito con il brodo del suo mangime (mais), a creare un intrigante gioco di consistenze voluttuose con risvolti dolci, amari e marini, sapientemente bilanciati. Un colpo d’ala preceduto da una stimolante accoppiata di lingua e coda di rospo, tanto buona quanto è bella la mise en place. Da non perdere, infine, il signature di Tokuyoshi: cemento e terra, un piatto che non è mai uscito dalla carta, un esempio di equilibrio, golosità e azzardo.

Nonostante si possa fare ancora di meglio con la frittura del cannolo di baccalà, un filo troppo unto, o con il Tiramisù al Parmigiano, abbastanza evanescente, ci è piaciuto tutto, molto di più rispetto all’ultima visita, constatando di fatto una cucina più matura e strutturata, sicura e anche estremamente piacevole.

Cantina in crescita, ma ancora distante dal livello del cibo. Sul servizio, comunque volenteroso, si può e si deve migliorare in considerazione del livello della cucina. In una serata con la sala stracolma, abbiamo notato qualche piccola dimenticanza o la mancanza di alcune piacevoli consuetudini formali.