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Il caffè nell’alta cucina

Il caffè è da sempre utilizzato prevalentemente come una bevanda, con il suo effetto stimolante, che dà inizio alla giornata di milioni di persone in tutto il mondo. Sempre sotto forma di bevanda è utilizzato come fine pasto e come collaterale al pasto stesso. La sua degustazione è una vera e propria arte, tanto che ci è sembrato doveroso tracciare un parallelismo con il mondo del vino e approfondire per intero la filiera, a partire dalle piantagioni in cui si coltivano le Cru de Le Piantagioni del Caffè, ormai nostro punto di riferimento in termini di qualità.

Ma fondamentalmente, sia nella sua forma non tostata – verde – ma anche e soprattutto tostato, è un incredibile e versatile ingrediente che si presta ad essere abbinato a molteplici altri ingredienti ed è utile se non fondamentale nella conclusione del cerchio gustativo di un piatto. Le diverse tostature, ad esempio, regalano aromatiche più o meno intense con sfumature di nocciola, vaniglia, cannella che si comportano come una vera e propria spezia, utile alla conduzione ed esaltazione del gusto di ingredienti principali come la carne, la selvaggina e i funghi.

Il caffè come una spezia

Ma anche nelle preparazioni ittiche, magari utilizzando una tostatura più tendente al verde, la “spezia” riveste un ruolo molto interessante. Pensiamo ad un pesce di fondale come la cernia, grassa e consistente, che con una polvere a basso grado di tostatura può avere risvolti interessanti al pari se non superiori all’utilizzo di un pepe. Aromatiche nuove, quasi spiazzanti, per persistenza e lunghezza gustativa espressa. L’aumento di intensità gustativa, donata dalle derive del nostro protagonista, e l’allungamento dei ritorni aromatici del pesce possono portare ad un risultato che, se abbinato ad un carciofo o meglio ancora ad un fungo, ha del sorprendente.

Carlo Cracco e il suo crudo di dentice

Uno dei cuochi, a nostra memoria, che da tempo immemore lo utilizza come spezia e di riflesso come conduttore gustativo è Carlo Cracco. Ricordiamo ancora un crudo di dentice, capesante, lime e caffè che sorprendeva per il risultato gustativo. L’amaro-acido del lime è un connubio formidabile.

Un altro ricordo interessante di applicazione, qui nella sua forma non tostata, è quello che ci presentò lo chef spagnolo Josean Alija nel suo ristorante Nerua di Bilbao. Carciofo, caffè verde, fondo di jamón ibérico ed erbe aromatiche. Anche qui la grassezza del fondo, in abbinamento con la consistenza e il sapore intenso del carciofo, trovavano la chiusura gustativa con l’estratto di caffè verde che riverbera note vegetali molto intense e speziate, in cui la componente che emerge in maniera eclatante è sostenuta dalle erbe aromatiche in abbinamento.

Massimo Bottura e il camouflage

Massimo bottura, in uno dei suoi piatti simbolo, il camouflage, lo utilizza come spezia, annegato in una miriade di altri ingredienti. Però l’evidenza di quanto il gusto si distenda grazie a questo incredibile tocco è palese a tutti quelli che lo hanno assaggiato.

Il mondo dei dessert

La forma di utilizzo più immediata, a memoria, risulta essere l’applicazione nel comparto dolce. Ma come abbiamo evidenziato con gli esempi precedenti anche il comparto salato ne può beneficiare in maniera significativa. Ciò detto dal tiramisù a sorbetti e bavaresi, molteplici sono gli esempi di dolci, anche della tradizione, con una forte connotazione di questo versatile ingrediente.

Stefano Baiocco lo abbina con il cappero

Non mancano anche qui però riferimenti illustri di innovazione, come nello splendido Cappero, caffè e maggiorana di Stefano Baiocco, che a sua volta rimanda a una preparazione del grande Massimiliano Alajmo, altro cuoco che lo usa spesso, spessissimo in qualità di spezia.

Ecco quindi che l’attenzione verso l’impiego del suddetto, meglio se di grande qualità come quello de Le Piantagioni del Caffè, come spezia o come ingrediente, può aprire le porte ad abbinamenti innovativi, performanti e decisamente originali.

La Galleria Fotografica:


Vessillo zoomorfo di tutta l’alta cucina, specie di quella classica francese, la lepre è il grimaldello della consacrazione gastronomica di qualunque chef sin dai tempi di Archestrato da Gela che nella seconda metà del quarto secolo a.C. scriveva che: “Sono molti i  modi e i precetti per preparare una lepre, ma eccellente è mettere la lepre arrosto calda, condita di solo sale, in mezzo a commensali di buon appetito, con la carne ancora un po’ crudetta, strappata a forza (…).” Inopportune ed esagerate sarebbero tutte le altre preparazioni, sosteneva il poeta siceliota, sebbene in tanti, dopo di lui, l’avrebbero smentito.

Ecco le migliori versioni degli ultimi anni.

Nel ripieno delle paste

Massimiliano Alajmo, Le Calandre, Rubano (PD)

Presso uno dei migliori ristoranti d’Europa, paradiso non solo per gli appassionati ma anche per i profani, la lepre è, come tutto, del resto, uno dei motivi stagionali di Massimiliano Alajmo. Qui, la si ritrova ben avviluppata nel menù di novembre: autunnale per antonomasia.

Antonio Biafora, Hyle, San Giovanni in Fiore (CS)

Presso il piccolo gioiellino-giocattolo di Antonio Biafora, un ristorante bomboniera con poco più di una decina di coperti, lo chef si esprime in tutto il suo talento e la sua profondità, la stessa con cui ispezione il territorio, in una veste contemporanea. E l’obiettivo è ampiamente centrato e riuscito, con una cucina davvero sottile, elegante e moderna come questi agresti bottoni di lepre, borragine e succo d’albicocca: paradisiaci!

Cristophe Pelé, Le Clarence, Paris

Piccolo luogo di incanto, già sede di Château Haut-Brion, a Parigi, con una cave da fare invidia a molti. È qui che Cristophe svuota i frigo a ogni servizio, proponendo una cucina di totale e completa improvvisazione. Perché salse, fondi e tutte le basi dell’alta scuola classica francese sono preparate fresche ogni giorno, con un tocco impeccabile, partendo da quanto offre il mercato: in questo caso, solo il fondo della lepre a impreziosire un raviolo ripieno di funghi porcini su cui è assiso il fegato grasso d’oca. Chapeau!

Risotti

Davide Palluda, All’Enoteca, Canale

Da Davide Palluda il palato fa fatica a comprendere dove finisca la tradizione e inizi la modernità. I suoi sapori s’impongono alla coscienza perché importanti, decisi, centrali, complessi ma senza un ingrediente di troppo come nel riso, ginepro e lepre: un Carnaroli cotto in acqua, mantecato con burro, ginepro e aceto, servito al tavolo direttamente sul piatto dove è gia stato posizionato il ragù di lepre con un ristretto di barbabietola. Un piatto bellissimo, oltre che golosissimo.

Enrico Bartolini al Mudec, Milano

All’alba dei suoi quarant’anni, onusto di successi e riconoscimenti, Enrico Bartolini ha compiuto una scelta coraggiosa quanto inattesa: quella di reinterpretare i propri piatti più celebri, alla luce della contemporaneità. Kaiser Soze di questa rielaborazione, il riso e latte, dove alla salsa si melograno e al civet di lepre si aggiunge la pungenza del pepe verde, a rendere l’insieme incredibilmente multisfaccettato.

Tentazioni agresti: lepre e lumache

Giovanni, Restaurant Passerini, Paris

Giovanni Passerini, seppur quarantenne, è già un cuoco e un imprenditore maturo. Ha creato un luogo d’elezione, vicino alla Bastiglia, che è il regno dell’italianità più pura. Semplice, ma non per questo non ricercato, dove con puntiglio e maniacalità si ripropongono assiomi della cucina italiana, come questa insalata improvvisata di erbe aromatiche, lumache e cuore di lepre.

Massimo Bottura, Osteria Francescana, Modena

Un piatto che è in tutto e per tutto trompe-l’œil di un paesaggio, una suggestione, un ricordo, e che è vessillo di una maturità che corrisponde, nel caso di Massimo Bottura, all’interiorizzazione di una verità: quella di esistere nella relazione e nella comunione col mondo, di cui il piatto è tributo. Anche in questo caso lumache e lepre si uniscono, per dare vita a un paesaggio campestre.

Il famoso “civet” di lepre

Nicola Portinari, La Peca, Lonigo (VI) novembre e gennaio 2019

Era scontato che una preparazione tanto classica non poteva che trovarsi se non nella casa della grande, alta cucina del ristorante di “lusso”. Una caratteristica che, a La Peca, convive tuttavia con uno squisito senso di familiarità: la valorizzazione della “casa” e la capacità di far sentire qualunque cliente come avvolto in una nuvola di comfort. Il lusso spogliato della altezzosità e portato al livello della vera eleganza, come questo piatto, tanto elegante quanto succoso e disinvolto.

Cristophe Pelé, Le Clarence, Paris

Torniamo dunque a Le Clarence dove, nella stessa visita, Cristophe Pelé ha dedicato alla lepre alcune memorabili declinazioni, come in questa personalissima e affascinante preparazione, in cui gli sfilacci di lepre convivono con l’aragosta e con importanti lamelle di tartufo bianco. Una combinazione sublime, e nobilissima.

Tra Civet e Royale

Davide Oldani ne “Il Tinello”, Cornaredo (MI)

Non di rado, la grandeur sta nel mezzo e, in questo caso, nel punto di incontro tea il civet e la royale. E se il primo è un mla royale è, come vedremo, il punto più alto di realizzazione della lepre, in congiunzione con funghi, foie gras e tartufo nero pregiato: qui le due tecniche s’incontrano in una doppia declinazione, dove il colore è restituito nella sua più naturale essenza.

Christian Milone, Trattoria Zappatori, Pinerolo

La cucina di Christian Milone è dichiaratamente, profondamente legata alla terra; è una cucina dell’orto, di elementi vegetali, di sensazioni amare, acide, a volte terrose. Una cucina che, anche quando osa, mantiene una componente di concretezza e senso del gusto che non rende mai le preparazioni eteree o fini a sé stesse. Marcate note vegetali, freschezza, leggerezza, ma anche omaggi alla classicità d’Oltralpe nella sua lepre, a metà strada tra civet e royale visto che il fondo è tirato proprio con foie gras e tartufo nero.

À la royale

Cristophe Pelé, Le Clarence, Paris

Ancora una volta Pelé, dove la lepre alla royale acquisisce una piccola licenza sulla ricetta classica (1775), che qui vi riportiamo. La preparazione originale, a opera del cuoco di corte Marie-Antoine Carême, prevede una lepre disossata e marinata col Cognac. Per la farcia vengono usati i tartufi neri del Périgord, insieme ad altri funghi, come le trombette dei morti, il lardo tagliato sottile e a cubetti. Il fegato e il cuore vengono spadellati con burro e scalogno, e deglassati col Cognac per poi essere aggiunti alla farcia della lepre stessa. Completano il ripieno blocchi interi di foie gras  di anatra, distesi lungo l’intera superficie dell’animale. Con ago e spago la lepre viene chiusa e ricucita. Segue una marinatura nel vino insieme alle spezie, per circa 6 ore, fino al momento in cui viene infornata e cotta a temperatura molto bassa. Viene servita tiepida, cosparsa con il fondo di cottura ridotto della lepre, ottenuto dalla carcassa arrostita e deglassata più volte con il Porto. Ecco, non pago a tutto questo Pelé aggiunge, sulla sommità, un cubetto di anguilla caramellata.

Luigi Taglienti, Lume, Milano 

Da Luigi Taglienti la chiusura della parte salata del menu viene affidata a un’icona della cucina borghese transalpina, presentata in chiave moderna. La sua lièvre à la royale viene farcita con foie gras, tartufo, rognone e nappata con la sua salsa di cottura, legata fuori fuoco, e servita con patate noisette e uno spinacino di fiume.  Sontuosità ai massimi livelli.

Antonio Guida, Seta, Milano

Apparentemente semplice, direte voi, la strada verso la classicità. Niente di più falso, se è vero com’è vero ch’essa è lastricata di difficoltà, non ultimo il paragone indefesso coi giganti della cucina. Stavolta, tuttavia, la lièvre à la royale di Antonio Guida è ancora più intensa e vibrante, nonché vessillo di una cucinapiù gagnairiana che mai, con tanto di capriccio: la ruota di pasta di Gragnano, a indicare le origini dello chef.

Gian Piero Vivalda, Antica Corona Reale, Cervere (CN) coming soon

Una delle migliori royale dell’anno, qui veramente realizzato a regola d’arte. Equilibrio perfetto tra farcia e carne, salsa da manuale tirata col sangue, come vuole la tradizione, morbidezza e tenerezza filologicamente rispettate, ma con una turgidità delle carni che non ne smaterializza la consistenza, anche se la tradizione lo vorrebbe.

Eugenio Boer, Bu:r, Milano

Una cucina con una timbrica classica davvero importante, quella di Eugenio Boer, che corona in questa splendida royale di lepre, ingentilita e rinfrescata dalla provvidenziale riduzione di vino e di visciole. Un piatto in cui salse, fondi, riduzioni, concentrazioni e dove l’uso, imperioso, delle componenti lipidiche, corona un piatto dai sapori molto precisi e definiti.

Braci, salmì & co.

Massimiliano Poggi, Trebbo (BO)

Il goloso filetto di lepre al pepe verde rappresenta per Massimiliano Poggi l’occasione di una rivisitazione importante, nonché la realizzazione di una salsa che ci ha costretto alla scarpetta: una demi-glace molto persistente che strizza l’occhio alla scuola francese, a conferma di quanto le basi siano, qui, decisamente solide.

Gianluca Gorini, Da Gorini, San Piero in Bagno (FC)

Menzione d’onore per la lepre, mandarino, estratto di ginepro e timo cedrino di Gianluca Gorini: una materia prima quasi indescrivibile (la scioglievolezza di questa carne va toccata con mano per essere creduta) e una perizia nella gestione di equilibri gustativi (ematicità, balsamicità, acidità) e strutturali, da vero fuoriclasse.

Mauro Uliassi, Uliassi, Senigallia (AN)

La Lepre in salmì con croccante di carbonella (oliva nera marchigiana) sfoggia, oltre a una materia prima strepitosa, una maestria assoluta nella gestione degli equilibri interni, con una salsa di un’eleganza e di una leggerezza sopraffina, cui il tocco “marchigiano” conferisce vivacità texturale e gustativa. I piatti di cacciagione non fanno altro che confermare la grande mano di Mauro Uliassi anche su questo versante, dove le grandi preparazioni classiche diventano letture attualizzate e alleggerite, appropriate anche durante le torride estati marchigiane.

Trittici iberici

Mateu Casañas, Oriol Castro ed Eduard Xatruch, Disfrutar, Barcellona

In soli quattro anni questo ristorante si è imposto sulla scena gastronomica mondiale vantando uno dei pedigree più creativi. Disfrutar è un ristorante al contempo magico e informale, in cui rimanere semplicemente e felicemente estasiati a ogni assaggio, tra effetti speciali mai fini a se stessi, momenti divertenti ma anche didattici, che generano l’equazione perfetta della felicità.

E il trittico di lepre che segue ne è la dimostrazione:

 

Una Barbera Superiore d’autore

Famiglia talentuosa, quella dei Bottura. Sì, perché la grande fama dello chef Massimo si affianca alle inclinazioni del fratello maggiore, Marco Bottura, che nel mondo dell’enogastronomia è entrato con mani, piedi e gran palato. Fine degustatore, appassionato di vini piemontesi e produttore di vino: Marco Bottura racconta la sua passione per il mondo enologico attraverso i frutti della terra di Langa.

Siamo a Sinio, centro rurale e turistico risalente all’epoca medievale situato sulle colline della Bassa Langa, a pochi passi da Serralunga. Qui, Marco ha preso in affitto mezzo ettaro, da cui trae la sua interpretazione di Barbera d’Alba, supportato dalla collaborazione – che nasce innanzitutto come un’amicizia – con Paolo Manzone, noto produttore di Serralunga.

L’avventura di Marco Bottura inizia con la vendemmia 2015, prima raccolta delle uve per la sua Barbera d’Alba Superiore DOC “Marco Bottura”. Prodotta in tiratura limitatissima – circa 3.000 bottiglie – la Barbera di Marco Bottura affina in tonneaux francesi da 500 ml.

Una vita agli esordi, quindi, che noi abbiamo voluto esplorare nei suoi primi anni, per la precisione il 2016 e il 2017. Entrambe le annate hanno evidenziato una Barbera di stile moderno, un vino elettrizzante che, grazie all’affinamento breve in barrique ben armonizzato alla muscolarità tipica della Barbera di Langa, esprime un sottofondo speziato capace di esaltare la naturale vivacità del vitigno.

Barbera d’Alba Superiore DOC “Marco Bottura” 2016

È una Barbera dal colore rosso rubino intenso, quasi impenetrabile, a cui l’affinamento in barriques dona un lieve riflesso granato. Al naso si percepisce un profumo intenso, vinoso, con sentori di more,  ribes nero e violetta sullo sfondo di una seducente nota di spezia dolce. In bocca il vino è denso, asciutto e con una spiccata acidità, che insieme alla sapidità dona al sorso scorrevolezza. Il finale è lungo, con buona persistenza aromatica e un retrogusto di cacao amaro. Gran bella Barbera.

Barbera d’Alba Superiore DOC “Marco Bottura” 2017

Come il 2016 il colore è rosso rubino intenso, con un lieve riflesso granato. Il profumo è complesso, vinoso, con sentori floreali e fruttati di rosa, di mora e confettura di prugna, impreziositi da note di spezie orientali. In bocca il vino è morbido, denso e ricco di struttura, perfettamente bilanciato da un’acidità salina che rende il sorso scorrevole e armonico. Finale persistente, dal retrogusto di cacao amaro e cannella. Una Barbera, questa 2017, che ci ha piacevolmente sorpreso.

We all are connected under one roof

Partiamo con il titolo, molto evocativo, e quasi paradigmatico, di uno dei piatti simbolo di questo nuovo percorso dell’Osteria Francescana perché è qui che tutto, a nostro avviso, ha inizio. È l’inizio di una nuova era, dopo una tragedia che ha segnato tutto e tutti, ma in cui i grandi condottieri sono un esempio e un traino per la collettività intera. Massimo Bottura, da uomo, crediamo abbia sofferto quanto ogni essere umano degno di questo nome per i momenti difficili appena trascorsi. Eppure il suo innato entusiasmo, unito a una grandissima dose di talento e di responsabilità, gli ha fornito un’energia unica e intensa nello studio e nella progettazione di questa rinascita.

Studiato durante il lockdown con la sua brigata, questo menù è opera di quell’unico agente collettivo che è l’Osteria Francescana. Un leader, del resto, si riconosce dalla capacità di tracciare la via. Questo, Bottura, ha fatto coi suoi ragazzi. Discutendo, stimolando, imprimendo energia creativa e mettendo a disposizione il suo straordinario palato, fisico e mentale. Ecco quindi, ancora una volta, il superamento del limite, il posizionamento dell’asticella ancora più in alto. Fin dal titolo e dall’ispirazione, arrivata da uno degli album più rivoluzionari della storia della musica pop-rock e che sarebbe riduttivo, del resto, confinare al mero ambito musicale.

Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band” è stato, da tanti punti di vista, un album rivoluzionario che ha cambiato e connotato anche gli equilibri stessi all’interno dei Beatles. Cosa c’entra questo con la nuova primavera sbocciata in via Stella? C’entra che questa “stella” brilla e infonde energia all’intero Paese  con un menù costruito con una tecnica sopraffina, ma ben celata, e il contributo poliglotta di tutta la brigata in una sinfonia perfetta guidata da un direttore d’orchestra tanto geniale quanto folle, benché in maniera impeccabile.

Il ritorno del menù

Dal punto di vista più generale, si tratta di un menù con un senso compiuto dall’inizio alla fine, in cui ogni passaggio è sequenziato e cadenzato alla perfezione. Non solo una straordinaria sequenza di piatti, dunque, ma una sinfonia d’insieme in cui ogni passaggio ha una connessione profonda tra il precedente e il successivo. E poi la distanza da cui Bottura ha osservato l’Italia. Come ha giustamente descritto l’amico Gabriele Zanatta in questo splendido articolo l’Italia ma, sopratutto, Modena, è questa volta un vero e proprio filtro visivo, una lente che arrangia, osserva e traduce il mondo intero. Non s’è mai vista così poca “modenesità” in un menù di via Stella, ma solo apparentemente, appunto, è così. Perché ogni passaggio è imbevuto di storia, di cultura, di tecniche dal mondo guardate sempre e comunque attraverso gli occhi di un italiano e, per la precisione, di un modenese.

Ecco quindi che gli straordinari dumplings, realizzati con una pasta talmente sottile da sciogliersi in bocca al contatto con la saliva, sono ripieni di una pancia di maiale cucinata al barbecue e laccata con sciroppo d’acero e con una salsa New England clam chowder con delle vongole stratosfericamente provenienti da Goro. Un giro del mondo su un ottovolante dei sapori che tocca l’Asia, poi l’America, arriva prepotentemente in Europa e approda in Emilia-Romagna. Un tripudio di sensazioni e di sapori che solo un palato assoluto come il suo sa mettere a punto così formidabilmente.

Ma potremmo citare anche il risotto fragole e Lambrusco, irrisione di un classico kitch anni Ottanta – oltre che piatto simbolo della nouvelle vague culinaria italiana- in cui la mozzarella affumicata è fondamentale per arrotondale gli spigoli di un abbinamento, fragole e lambrusco, davvero formidabile. Oppure un merluzzo al curry verde da commozione, in cui non finiresti mai di attingere da quella salsa paradisiaca.

Nemmeno il pane, posto all’inizio del pranzo, con la sua sfogliatura delicata e il tocco dolce del miele di Casa Maria Luigia, non dimentica di assestare il suo, di colpo. Insomma, una serie di elementi, e potremmo continuare ancora, forse all’infinito, che si susseguono con un ritmo spaventosamente importante, intenso, profondo.

Un’esperienza, quella all’Osteria Francescana, che non si deve mancare per nessun motivo, anche grazie al connubio ancor più stretto tra  cucina e sala. Qui Beppe Palmieri ha svolto, con Massimo e con tutto il gruppo, un lavoro straordinario di coesione sugli abbinamenti: abbandonato quasi totalmente l’alcol (in stagione estiva ancor di più), presente in dosi omeopatiche, ha compiuto un’opera di unione inscindibile con la cucina elevando addirittura alcuni piatti già straordinari come con il grande e geniale uso dell’acqua aromatizzata alle erbe di Casa Maria Luigia, due gocce di Riesling tedesco e acqua tonica, nonché un tripudio come il Sauternes, perfetto nelle sue imperfezioni scorbutiche, a nobilitare i dumplings di cui si parlava dianzi, in maniera eccelsa.

Terminiamo dunque come l’ultima volta: il migliore menù in Francescana di sempre? Sì, ancora una volta, è primavera! Evviva!

La galleria fotografica:

Il successo come forma di evoluzione

Quantunque si potrebbe pensare all’esperienza formativa, qualunque essa sia, come a un momento definito nel cammino dell’uomo, esistono scuole la cui esperienza continua a riecheggiare nel corso di tutta una vita. Sono le scuole migliori, solitamente, le quali insegnano, tra le altre cose, che a scuola ci si trova sempre, perennemente dediti a quell’esercizio del sé che caratterizza, nella migliore delle ipotesi, qualunque forma di evoluzione. 

Una scuola come questa instilla nei suoi alunni una certa propensione alla lucidità: una sorta di shining che permette loro di vedere le cose per quelle che sono, e di presagirle, magari, tanto che chi ci arriva, ad ALMA, ha già fatto buona parte del lavoro. Come Giovanni Biaggini il quale, dopo anni di sport agonistico e già avviato verso una fiorente carriera immobiliare, è oggi General Manager di Dry Milano: “ALMA mi ha dato indipendenza; dopo il Master in Managment della Ristorazione ero un professionista ambito grazie – anche – alla rete di contatti acquista: colleghi di master, professori, professionisti e aziende. Una mente aperta, qui, ha incredibili possibilità.” Ne sa qualcosa anche Tommy Monari che, dopo lo stage all’Enoteca Pinchiorri nell’ambito del Master Sommelier ALMA-AIS, grazie al network della Scuola ha coronato il sogno di diventare Brand Ambassador di una prestigiosa Maison di Champagne: “ALMA mi ha insegnato a vedere il mio futuro in una prospettiva che non sembra finire mai: tutto quello che imparo germoglia oggi dentro di me e, come lo Champagne, si stratifica anno dopo anno diventando parte della mia riserva personale.” Per non parlare, poi, della straordinaria ascesa di Nello Ciulli: una vita dedicata al pane e alla panificazione tradizionale, che oggi perpetua in maniera affatto tradizionale al fianco di Niko Romito, per cui porta avanti i progetti di ricerca legati al grano autoctono abruzzese.

C’è poi stato chi, tramite la lucidità e l’indipendenza fornite da ALMA, ha compreso esattamente quale fosse la propria collocazione nel mondo: come Beatrice Venturini, tornata alla Madonnina del Pescatore dopo lo stage svolto in occasione del Corso Superiore di Sala Bar e Sommellerie, o Federica Russo, che si trova esattamente dove e come vorrebbe essere: “Sono molto determinata e perfettamente convinta di ciò a cui aspiro: voglio essere “una pasticciera in rosa” che, col proprio lavoro, porta in alto il valore della pasticceria femminile.” Come lei, ma con un’estensione di tipo etico, Federico Polito, che da ALMA ha mutuato il carattere necessario a placare quelle sete di conoscenza che l’ha portata dapprima nelle cucine di Stati Uniti e Regno Unito, quindi a comprendere il valore civico e sociale della propria professione che oggi esercita accanto ai ragazzi della comunità di San Patrignano nel ristorante Vite. Binita Debnath, invece, dopo una laurea in ingegneria informatica è tornata alla sua passione di sempre, la cucina e, tramite ALMA, ha trovato il suo habitat proprio all’interno della Scuola, dov’è Capo Partita presso i corsi di Panificazione Moderna e i Corsi Internazionali.

L’esercizio di una professione è l’esercizio del sé

Così lo scorso 8 ottobre, in occasione della Cerimonia di Apertura del XVI Anno Accademico di ALMA, Massimo Bottura ha parlato sostanzialmente della possibilità che la cucina gli ha dato di essere libero. Come uomo, lui rappresenta una delle menti più feconde – e più libere – della contemporaneità e non è un caso che la professione del cuoco sia coincisa, per lui, con attività come quella di parlare alle Nazioni Unite del cambiamento climatico e sociale in atto. Tramite il suo percorso, il suo esercizio del sé, Bottura ha edificato la Nuova Cucina Italiana e, tramite la cucina che è solo una delle sue muse, un’altra è la musica, ha inventato un nuovo linguaggio. Per fare un esempio, per riferirsi al turismo innescato dalla cultura enogastronomica italiana lui parla di “stranieri arrivati in Italia per masticare il territorio” e, anche solo ad ascoltarlo, non si può non fare caso al suo modo di comunicare: lo fa per immagini e, di conseguenza, con un lessico, ma soprattutto con una sintassi, fuori dall’ordinario. 

Dal privato al pubblico: il cammino verso la libertà

Come detto, bisogna considerare il fatto che siamo al cospetto di un uomo sostanzialmente libero. Come lo è diventato? Tramite la strada, lastricata di vincoli, limitazioni e costrizioni imposte della cultura: “conoscere tutto per dimenticare tutto” è una delle sue più celebri massime ed è per questo motivo che, tra le altre cose, la sua sintassi è tanto particolare. Della lingua, la sintassi rappresenta, infatti, proprio il vincolo, la gerarchia: solo chi ne conosce le regole può permettersi di aggirarle e, svincolandosi, liberarsene. È in questo cammino verso la libertà che s’identifica l’evoluzione dell’uomo, libero infine anche dal tempo: “nel mio futuro ci sarà sempre futuro”, dice a tal proposito, perché la prospettiva con cui guarda il mondo è ancora quella del bambino, o del sognatore, che poi sono la stessa cosa. Come fare, dunque, per restare bambini? Secondo lui, lasciando una finestra aperta all’inaspettato, e alla la bellezza, che sono i due antidoti per non perdersi nell’abbrutimento dell’automatismo, della quotidianità, della routine. “Uno spazio sempre aperto per l’inaspettato, come anche per l’errore, cogliendo il lampo di luce nelle tenebre insegna a vedere il mondo da una prospettiva diversa: non si tratta solo di un esercizio creativo o di raccontare una storia; si tratta di comunicare un messaggio, un credo, una rivoluzione, che permette di passare dal lavorare per la propria realizzazione personale a lavorare al servizio della società. 

La bellezza salverà il mondo

In questa prospettiva è nata la sua rivoluzione, da lui battezzata Food for Soul. E una prospettiva analoga, perché strettamente orientata verso la minimizzazione dello spreco, all’etica individuale e all’educazione civica abita anche ALMA. “Sono convinto – afferma lui richiamandosi a Gualtiero Marchesiche il bello e il buono siano due facce della stessa medaglia: l’uno non può fare a meno dell’altro.” Ecco dunque il segreto del cuoco, come dell’uomo: saper accogliere ed esercitare la bellezza che, come qualità estetica, impone una sensibilità disposta a riconoscerla. Una qualità salvifica, questa, perché una volta compresa, la bellezza, non si può fare a meno di esigerla a tutti i livelli dell’esistenza. È tramite la bellezza che si realizza la rivoluzione: “Per cui quel vi auguro, ragazzi, è di avere il coraggio di credere nella bellezza e nel cambiamento che essa comporta. Di portarlo avanti, questo cambiamento, con passione, impegno e immaginazione. Questo – conclude – è quello che ci salverà.