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Ristorante Cavallino

Una storia, due storie italiane

Nulla tiene più incollati alla carreggiata del presente – che poi è la cosiddetta “moda” – della devozione nei confronti del passato purché imperlato dalla promessa, e relativa esaltazione, del futuro. È questa tensione, che è prima di tutto una tensione temporale, a determinare l’essenza e, per certi aspetti, la pre-scienza di alcune delle più grandi storie dell’Italia contemporanea. Ne sanno qualcosa il marchio Ferrari e Massimo Bottura che, dal canto loro, condividono ben più che la terra natia.

Un esempio? La passione per le auto veloci e per il cibo lento, binomio che decisamente si corona in questo ristorante che fa degli anni ’70 un’atmosfera futuribile, col nostalgico servizio all’italiana, col vassoio, e il logo del cavallino reiterato in ogni dove, dalla carta da parati all’uncinetto delle tendine alle finestre come se non bastasse, tutt’intorno, l’arrembante boato delle Ferrari che ovunque sfrecciano sulle strade, insolitamente ma comprensibilmente curate, dell’affatto placido centro abitato di Maranello.

Ed è qui, nel redivivo e oggi veramente indomito Cavallino, che Enzo Ferrari detto “il Drake” era solito pasteggiare, preferibilmente in compagnia di un cocktail, in una saletta privata con tanto di maxi-schermo per il Gran Premio e il bar a scomparsa, affacciata sull’auto di turno, posteggiata proprio accanto: la stessa sala che, oggi, è sempre riservata solo ai membri della famiglia oppure a coloro che, freschi dell’acquisto di una Testarossa, desiderano vararla con un pranzo o un brindisi al Cavallino, tanto che varrebbe la pena di comprarla, una Ferrari, solo per questo motivo.

Il passato, futuribile, di Riccardo Forapani

Quanto ai piatti, alcuni di essi, in particolare, stupiscono per l’accelerata sul gusto, davvero vertiginosa e, allo stesso tempo, la capacità di fissarsi in un punto precisissimo della memoria, anche qualora si tratti di esperienze mai vissute. Epifanie e déjà-vu che si innestano nella memoria e nell’enciclopedia di ciascuno, dove vanno a scomodare tutti i sottesi e i riferimenti possibili. Riccardo Forapani, del resto, è uno degli chef veterani della Francescana, donde arriva ordendo qui una cucina aristocratica ma divertente, oltre che divertita, perché capace di rileggere e giocare – davvero! – con tutto il repertorio di piatti della tradizione della Bassa, modenese e Padana, non disdegnando interpolazioni di grande acume e bellezza.

È ciò che accade nel Crème Caramel al Parmigiano Reggiano 36 mesi con l’Aceto Balsamico Tradizionale di Modena a mimare il caramello, straordinario per l’effetto mimetico e, soprattutto, per una golosità che potremmo definire, in una parola, ecumenica. Simile appagamento per il palato, a tratti quasi stordente, è dato poi da quello che si presenta come un viaggio nelle case dei nobili tra Modena, Mantova e Palermo: il risotto alla zucca con coppa di testa, arancia e rafano rilegge un classico della cucina padana enfatizzandone le potenzialità evocative grazie ai potenti contrasti aromatici e trigeminali dell’arancia e del rafano.

Superbo lo scrigno di tortellini di Modena foderato di lingua salmistrata: un manufatto che sembra arrivare dal reparto pasticceria e di smisurata coerenza circa il contesto, nobiliare, dell’esperienza al Cavallino, che i motivi del Duomo di Modena disegnati sul coperchio edibile enfatizzano ulteriormente, rimandando a un tempo in cui l’araldica determinava ancora le sorti dei comuni e, con essi, dell’Italia tutta.

Un piatto sofisticato dove contenitore e contenuto parlano della stessa raffinata opulenza e, allo stesso tempo, della stessa perizia artigianale e ingegneristica, in una parola, della stessa téchne che accomuna Ferrari, Forapani e Bottura stesso, e che si corona oggi, appunto, al Cavallino: un’altra grande storia italiana.

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Il nuovo capitolo di Massimo Bottura 

Tanto si è scritto su quest’ultimo menù di Massimo Bottura all’Osteria Francescana. Fiumi di parole legate all’omaggio che il cuoco modenese fa a molti suoi colleghi, contemporanei e non e, più in generale, alla cucina italiana. Un percorso storico-filologico che si snoda lungo tutto il periodo e i protagonisti della rinascita e ancor di più della costruzione del modello di alta cucina contemporanea che possediamo, oggi, in Italia.

E, da buon ambasciatore, il leader Maximo ripercorre, in 18 atti, questo fil rouge storico con maestria, imprimendo il suo sigillo, la sua maturità palatale e filosofica nonché culturale alle preparazioni. Cosa che fa in maniera rispettosa ma, al contempo, provocatoria, traslando su un piano differente le preparazioni, trasformandole, trasfigurandole e rendendole contemporanee, aggiungendo e incorporando tutto il suo sapere maturato in giro per il mondo e costruito su una sensibilità culturale e palatale davvero unica.

Tutte le ricette sono sostanzialmente un pretesto da cui partire, una libera ispirazione, finanche una licenza poetica che viene presa e di prepotenza traslata in una dimensione completamente diversa, trasfigurando l’originale. Non in forma caricaturale, sia inteso, ma aggiungendo punti di vista, proiezioni e in qualche caso lenti di ingrandimento che focalizzano l’attenzione sui dettagli, spesso trascurati, ma qui invece elevati al massimo grado di potenza.

L’emblema di questo concetto è, senza dubbio, la Zuppa fredda di carbonara di Gianfranco Vissani ma, per certi versi, anche l’insalata di spaghetti freddi di Gualtiero Marchesi. Il primo di cui sono enfatizzate le note dolci-salate, è contestualizzato proprio nel ruolo di passaggio tra il salato e il dolce: qui la crema inglese al pepe unita al caviale e al gelato al pecorino è una esplosione totale tanto più che proporzioni e dosaggio rendono questo piatto davvero indimenticabile, nonché stimolante per chi sa riconoscere la doppia citazione del cono rovesciato: una sfoglia di buccia di banana che, nella sua complessa lavorazione, ricorda il guanciale e in cui si assommano i concetti cari a Massimo Bottura di lotta allo spreco e di citazione del piatto Oops mi è caduta la crostatina al limone, ribaltando la prospettiva della presentazione.

Il secondo, invece, proiettato in una dimensione totalmente differente, con il miso di spaghetti, la pasta di seppia e i gomitoli di verdure a ricreare un paesaggio surreale e un rimando ancestrale davvero formidabile.

E ancora la cipolla di Salvatore Tassa da grasso-fondente-casearia si trasforma in un biscotto sfoglia di Parmigiano Reggiano e cipolla, in cui ciò che più stupisce è il contrasto tra la versione originale e questa, asciutta, astringente, quasi biscottata. E poi le capesante ripiene di mortadella di Fulvio Pierangelini vengono ribaltate, dalla versione originale, e diventano dei ravioli, peraltro piatto simbolo del cuoco di San Vincenzo in doppia citazione, il cui ripieno è proprio la capasanta. Piatto a geometria fissa, con le proporzioni e il connubio degli ingredienti dosati al millimetro che rendono la capasanta molto più protagonista del piatto originale, ribaltando con il fantastico chowder di finocchio sul fondo tutti i pensieri e le priorità gustative della versione nativa, proiettandolo nello spazio iper gustativo.

L’opera omnia della cucina italiana: una riflessione sul gusto e sulla leggerezza

Ma potremmo continuare all’infinito nell’analisi – grammatica, semantica – di queste trasfigurazioni dove ciò che più ci preme osservare è come questo insieme di piatti assurga a vero e proprio menù, anzi meglio a una partitura come già abbiamo avuto modo di constatare in passato, in cui ogni elemento non è fine e grande al contempo da solo, ma fa parte appunto di un’opera che ha un inizio, una fine e, soprattutto, una sua ritmica nella scansione, dove la scelta e la collocazione di ciascun piatto e la concatenazione col precedente e col successivo è frutto di un pensiero d’insieme profondo e articolato.

Un altro aspetto che ci preme sottolineare è, poi, l’estrema leggerezza e ariosità di queste preparazioni. Mai, finora, la leggerezza s’era manifestata con tale efficacia nel repertorio di Massimo Bottura. Ma questa volta il cuoco modenese si è superato ancora una volta rendendo tanto lievi quanto più incisive, al gusto, le sue preparazioni. E proprio il gusto è un altro aspetto su cui riflettere perché in tutti, o quasi, i piatti s’è svolta un’analisi gustativa atta a valorizzare il gusto, le sue derivate e le sue componenti di allungo con una perizia mai incontrata, finora, in un menù degustazione. Qui scomposizione e ricomposizione gustativa raggiungono vertici impensabili soprattutto con il germano ripieno di Anguilla di Igles Corelli, che ricorda un viaggio in Oriente, in Giappone, nella fattispecie, tanto è trasfigurato e innalzato. 

Partendo da quest’ultimo piatto un cenno è d’uopo sulla faraona, piatto che ci ha davvero impressionato. E che apre lo spiraglio all’ennesimo ragionamento su questo percorso, ovvero il sottile e trasversale gioco sulle consistenze. Siamo, difatti, al cospetto di un menù in cui la quasi totale assenza di consistenza domina prepotentemente. Abbiamo passato gli ultimi dieci anni, almeno, a sentirci ripetere che la parte croccante di un piatto, la sua compostezza e struttura, fossero fondamentali. E che senza una componente croccante o, in qualche modo, tenace il piatto sarebbe risultato incompleto. Ebbene questo paradigma è stato completamente annientato da un menù che è quasi privo di consistenze eppure totalmente armonico, lieve e morbido, tenue nel morso e nella masticabilità e che pertanto dimostra, ancora una volta, che ogni dogma è fatto per essere demolito. 

Perché la filosofia di cucina e del lavoro sulle consistenze è indiscutibilmente un percorso elevato e, a nostro avviso, centrato, ma ciò non mortifica o sminuisce il suo opposto, se saputo amministrare, ovvero il lavoro sull’assenza o, meglio, sulla inconsistenza delle consistenze. Appunto.

Chiudiamo questa nostra scheda, ora, con un plauso a Beppe Palmieri e a tutta la squadra della Francescana per aver pensato un percorso di abbinamento, qui descritto nelle didascalie, tanto originale quanto mai centrato e preciso. Segno che il talento non alberga solo nel Grande Capo ma in ogni singola individualità che anima il numero 22 di Via Stella.

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L’estetica di Karime Lopez

Una presa di posizione capillare sulle cose del mondo edibile. Così ci appare l’estetica formale dei piatti di Karime Lopez da Gucci Osteria, che spesso è tanta e tale da irrompere, fino anche a travolgerla, la parte sostanziale. Ma a ben vedere si tratta di una seduzione, quella estetica, non solo legittima ma anche sacrosanta considerando che siamo seduti precisamente nella sala attigua alla boutique, dalle cui vetrate si vedono “sfilare” i clienti intenti a saggiare l’ultima stagione di Alessandro Michele, stilista e direttore creativo di Gucci, coi suoi esotismi e le atmosfere, spesso e volentieri, anche naïf.

Optiamo quindi per il menù “Capitolo Rinascimento“, con un intruso dalla carta, il risotto Vongo-La, di cui ci intriga la presenza della scapece e che consideriamo – vedremo poi a ragione – la prova del nove di ogni cuoco che si rispetti. A proposito della carta, stride invero le giustapposizione di proposte come “salumi“, “selezione di formaggi” e “tortellini in crema di Parmigiano Reggiano” (chiaramente un compromesso con Firenze e l’ubicazione del ristorante, in Piazza della Signoria) con piatti come “La nascita di Venere“, “Arriva il Sole” e così via.

Ciò precisato, tuttavia, il menù di Karime Lopez volta alto e vola, soprattutto, leggero: bambinesco nelle scelte cromatiche è preciso nella concezione, nitida, e molto efficace da un punto di vista eidetico. Curcumis melo è un’estrazione freschissima di verdure di stagione, sormontante da un nido, che è quasi un nodo, di gamberi rossi di Mazara: il brodo, che nella sua semplicità serba tutte le virtù corroboranti del consommé, è un gazpacho verde molto limpido nonché un ottimo inizio, anche da solo, dopo la carrellata di appetizer che sono essi stessi un gioco tra forma e sostanza, visto che ciascun involucro, un bombolone, un’oliva, e così via, trattiene ripieni concentrati di italianità, come la caponata.

Meno felice, almeno il giorno della nostra visita, la Tostada di mais viola, piatto poco o nulla contrastato, certo funzionale per calmierare la fame. Accademico, anzi antologico, invece, il succitato risotto Vongo-la. Precisissimo per cottura, temperatura e mantecatura, la progressione del sapore è sorprendentemente à rebours: dapprima incalzano vivaci le note assai saporite e agrumate della scapece che, a poco a poco, sfumano in un acquerello delicatissimo, deliziosamente bon ton. Su tutt’altro registro, invece, In Fondo al mare, un piatto che, crediamo, piacerebbe moltissimo al maestro di Karime, nonché nostro ideale anfitrione, Massimo Bottura. Qui i calamari sono smaterializzati ma iperconcentrati in una sorta di fondo di cottura che avviluppa i ditalini, rinfrescati nel morso, randomico, di verdurine di stagione sferificate semplicemente dal taglio. Un gioco, vero, ma anche un virtuosismo che parla moltissimo della linea scelta da Gucci Osteria.

Meno ispirato Gadus, Gadus, Gadus, un merluzzo alla mugnaia con asparagi bianchi, anche in osmosi, la cui virginale rotondità e delicatezza finisce per soccombere, soprattutto dopo i ditalini. Piuttosto semplice, benché molto evocativo negli aromi, infine, il dolce Sfiorivano le viole.

Grazia e bellezza, comunque, la fanno da padroni. E Rinascimento sia!

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Tòla Dòlza: il pranzo della domenica a Casa Maria Luigia

Uno degli effetti meno prevedibili di questa Tòla Dòlza è quello di inoculare, nelle corde di chi la vive, la nostalgia di un’esperienza mai vissuta. Nella fattispecie, indossare un cappellino coordinato, stile Royal Ascot, per assistere alla corsa dei cavalli del disegno di Bert in Mary Poppins. Colpa, forse, del cocktail di benvenuto, propedeutico, tra le altre cose, per calarvi nell’atmosfera mentre i musicisti accordano gli strumenti per il concerto che comincerà di lì a poco, quando tutti gli ospiti saranno finalmente seduti davanti al giardino all’inglese di Casa Maria Luigia, la dimora di campagna di Massimo Bottura e Lara Gilmore, e si darà inizio alle danze (culinarie). 

Il giorno successivo a questa nostra visita Jessica Rosval verrà incoronata cuoca dell’anno per L’Espresso e non è un caso perché è proprio a lei che si deve questa ulteriore estensione dell’universo di Massimo Bottura, divenuta popolare anche presso i modenesi attirati da questo ritorno al pranzo della domenica, replicato di domenica in domenica, tutte le domeniche, a mezzogiorno in punto per tutto giugno, ma al crepuscolo in luglio e agosto.

L’orto e la brace di Casa Maria Luigia

Il menù, che ha un costo di 95€, comincia per tutti allo stesso momento, è a sorpresa, ma sappiamo che prevede l’unione di due istanze: quella imposta dalla tecnica, la brace e il fumo, e quella esatta dalla materia, che arriva per lo più dall’orto. Come succede con le prime zucchine della stagione, cui viene dedicato un piatto dove queste, piccole ma tornite, campeggiano intagliate come calamari e impreziosite di riccioli croccanti a enfatizzarne la parte tenera e l’evocativa dolcezza.

Questo entusiasmo per le piccole cose è, crediamo, il segreto della felicità, e Casa Maria Luigia è un luogo decisamente felice come dimostra anche la struggente ricotta con tartufo bianco e polline di primavera, un boccone ghiotto all’inverosimile agitato da contrasti tanto provvidenziali quanto risolti tra loro: la nota empireumatica della brace, l’acidità lattica della ricotta di Rosola e quella, fiorita, del polline, assieme alla profondità retrolfattiva del tartufo.

Tutto quello che arriva in tavola arriva, s’è detto, dalla brace, dove Jessica armeggia con poco più di due persone a coadiuvarla e che rappresenta un affettuoso tributo alle estati passate sul lago, nel Canada da cui proviene, con la famiglia e soprattutto col padre, da cui ha imparato i segreti del fuoco. Dalla brace arriva così anche la focaccia, col disarmate profumo dei semi di finocchietto selvatico che fanno da trait d’union con la crema alle mandorle, che è quasi un hummus per concentrazione. Così come le cozze risi e bisi e i finti marshmallow arrostiti, com’è d’uopo, sugli stecchi, nonché per le succose, scagliose carni del baccalà cotto nel latte e gratinato sul legno, con la crema barbecue a contrastarne la morbidezza. Un intermezzo, prima del secondo, ce lo offre il pancake come una tigella, su cui viene versato non uno sciroppo d’acero bensì un balsamo benefico, preludio alle tenerissime punte di manzo glassate nell’aceto balsamico e cosparse di pollini e pistilli color “strawberry fields“, forever soprattutto per quanto concerne la persistenza al palato.

Per questo c’è bisogno di Amari, ovvero di un boccone che, tributandosi al più ostico dei sapori, resetta il palato tra i due regni del dolce e del salato, irrorando le papille di un succo che sgorga dal morso, croccante, alle foglie dei radicchi imbibiti dell’acqua di una granita di arancia amara: una escalation ton sur ton che è perfetto preludio di un dolce finalmente dolce, vivaddio: la Pavlova-Rosvalda che, ribattezzata alla maniera della sua creatrice, fiammeggia il sapore nostalgico delle meringhe e le combina con le polpe sugose e turgide di piccole pesche di vigna appena scottate.

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L’Osteria Francescana nella campagna modenese

Che l’Osteria Francescana abbia un posto nell’empireo della gastronomia contemporanea è indubbio, ma non è scontata la maniera in cui questo primato venga difeso anno dopo anno anche in seguito alle chiusure forzate. Alla corte di Massimo Bottura, invece, la prima impressione è stata quella di trovarsi in un luogo perfetto, come se tutto fosse a regime, collaudato già da molto tempo. Eppure, era tutto o quasi una novità, a cominciare dalla location: l’Osteria Francescana si è infatti trasferita, per il mese di maggio, in campagna da Luigina, la “polisportiva” di Casa Maria Luigia, come ama definirla il suo creatore.

Degli ex fienili restaurati e arredati con le museali opere d’arte della collezione personale dello chef e con le auto che hanno fatto la storia dell’automobilismo. Tutto ciò generalmente fa da cornice a una palestra, al biliardo e al calcio balilla, ma per qualche settimana si sono aggiunti i tavoli dell’Osteria con vista sulla campagna Modenese.

With a little help from my friends en plain air

Il menù With a little help from my friends si ispira alla musica e riprende il percorso proposto prima della chiusura, ma si arricchisce di nuove creazioni e di qualche classico rimaneggiato (come l’Aulla in carpione e Chicken Chicken Where Are You?): una degustazione studiata nei dettagli, con le giuste pause, proprio come in uno spartito musicale, dove colpisce per intensità Autumn in New York, una morbidissima anguilla arrosto abbinata al cetriolo e al caviale, mentre Strawberry Fields spiazza il palato col celeberrimo contrasto del risotto alle fragole, fresco e acido, amplificato dalla nota dolce del gambero rosso e dal sentore fumé dato dalla salsa di mozzarella.

Il merluzzo in salsa di curry è, invece, un viaggio vero e proprio nel Sud-Est Asiatico, fortemente evocativo, qui curry, cocco, basilico e coriandolo si alternano armonicamente senza oscurare l’eccezionale merluzzo. Ma nel percorso c’è anche spazio per l’opulenza di una zuppa di piselli e fave con lumache e royale di foie gras ricoperta da una millefoglie di Parmigiano Reggiano: un omaggio a Paul Bocuse a all’Emilia, come a farci presagire il menù che lo chef dedicherà, di qui a poco, ai grandi cuochi della sua vita.

Tra le portate dolci, ci limitiamo a dire che la nuova versione della Vignola rasenta semplicemente la perfezione col suo intenso gelato di amarene e l’eccelsa ciliegia di cioccolato.

Un’esperienza sublimata dal servizio e dalla sala, diretta da Beppe Palmieri, e composta da ragazzi con una genuina passione per l’accoglienza che si alternano ai tavoli con i giusti tempi, instaurando abilmente un rapporto empatico col commensale. Un’esperienza a tutto tondo per i cinque i sensi e per l’intelligenza emotiva che abita ciascuno di noi.

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