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Sustanza

Non solo cibo, ma storia e cultura al centro di Napoli

La Galleria Principe a Napoli, sita in posizione culturalmente strategica tra il Museo Archeologico, il teatro Bellini e l’Accademia delle Belle Arti, è stata, a partire dalla sua inaugurazione, nel 1883, un punto d’incontro per i napoletani. Soprattutto, al suo interno, l’attività intrapresa dal procidano Scotto Ionno che nell’anno dell’inaugurazione della galleria fondò un cafè chantant che portava il suo nome, ed ebbe per un lungo successo tra spettacoli e incontri culturali. Un luogo d’incontro che, a partire dagli anni ’30, cominciò a perdere la sua centralità, per poi, dopo la seconda guerra mondiale, essere sede di vari uffici pubblici fino all’abbandono di qualche anno fa. A riportarlo in vita l’imprenditore Luca Iannuzzi con un lungo lavoro di ristrutturazione che ha aperto la strada ad altre intraprese nella Galleria. Il nuovo Scotto Ionno, che mantiene la struttura dell’epoca, è una caffetteria, un bistrot, a pranzo, e cocktail bar al piano terreno, dove a disposizione dei clienti c’è anche una ricca biblioteca. Al primo piano è arrivato, dopo la lunga permanenza milanese al 28 Posti, Marco Ambrosino, che prosegue il suo discorso sulle culture gastronomiche e non solo dei popoli del Mediterraneo, in uno spazio più ampio, dove la ricerca sui piatti può svolgersi in maniera ancor più adeguata.

In giro per il Mediterraneo

Sustanza si chiama il ristorante, a sottolineare l’insieme di forma e materia, in senso aristotelico, un nucleo fondante da cui tutto si muove. Nel caso di Ambrosino è il Mediterraneo, culla di civiltà e conoscenze, dal quale si dipanano culture, storie, persone, tradotte in piatti in cui tutti i popoli affacciati su questo mare, anche i più apparentemente lontani, finiscono per riconoscersi in gusti alla fine diretti e leggibili. Ed è proprio così, a partire da quel Brodo di pane e verdure fermentate con la tecnica del Solera, che risveglia l’appetito e comincia a scuotere la memoria, introducendo al Pomodoro ramato arrosto, tartufo nero, mandorla, olio di argan, noce moscata, servito su un’acqua ricavata da sette diversi tipi di pomodoro, piatto materico che gioca tra acidità, dolcezze e amaro. E ancora l’Ostrica come potrebbero servirtela in una spiaggia del nostro mare, laccata con lievito di birra, a sostituire il pane, e acqua dello stesso mollusco, olio di macchia mediterranea, anice stellato e cumino.

Si dovrebbe avere più spazio per parlare delle Trottole, del Tempeh di alici, di quegli Spaghetti cotti nel vino ossidato serviti a fine pasto ad aprire il percorso verso il dolce. Ne resta solo per provare a descrivere quel piatto che in realtà sono quattro, dove un Agnello cotto nel fieno e una Pecora all’harroje (“dimenticata sui fuochi”, in albanese) incontrano lo spiedino delle loro frattaglie; la melanzana con aglio nero, il limone stagionato, il labneh (un formaggio libanese) di mandorla; i fagioli in zuppa serviti in una pagnotta con garum di agnello e semi di finocchio in conserva.

Sustanza insomma è un vero e proprio viaggio che lascia senza parole, ma a pancia e testa piena, fatto in un ristorante che ha appena due mesi di vita e a cui va già stretto il voto che gli assegniamo oggi, ma solo perché siamo sicuri che presto sarà molto più alto.

IL PIATTO MIGLIORE: Agnello e pecora – agnello cotto nel fieno, pecora “all’harroje” con la sua salsa, cetriolo alla griglia, finocchio di mare; melanzana, aglio nero, limone stagionato, lebneh di mandorle; spiedo di ritagli di pecora e agnello, scarola macerata; pagnotta di semola, zuppa di fagioli, garum di agnello, semi di finocchio in conserva.

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Il bacino del Mediterraneo

Milano e i suoi Navigli poco fuori dal centro città rappresentano un luogo culturalmente e socialmente vivo e dinamico; è qui che da qualche anno Marco Ambrosino, originario di Procida, ha deciso di insediarsi e portare la sua visione di cucina. 28 Posti, con i suoi piccoli spazi, è un luogo dalle mille influenze, sia nel design degli interni che nei gusti e profumi delle pietanze, i quali provengono dai paesi che si affacciano sul bacino del Mediterraneo. Una location con un ambiente semplice, rilassato e dinamico con la possibilità di godere del pasto anche nel dehors quando il tempo e le temperature lo permettono.

Una filosofia di cucina e uno studio, quelli di Ambrosino, che hanno portato lo Chef a fondare il “Collettivo Mediterraneo”, dove porta avanti i suoi studi e le sue ricerche sulle culture e le tradizioni annesse delle popolazioni che vivono questa parte di orbe terracqueo.

Un viaggio culturale prima ancora che gustativo

Il menu degustazione di 28 Posti è la rappresentazione di un grande studio sulle tecniche, sui prodotti e sulle ricette, che vengono poi trascese e applicate al gusto e ai prodotti al quale lo Chef è affezionato. Un percorso dinamico nel quale si gioca disinvoltamente con sapidità, acidità e leggeri amari, e la cui ricerca finale è la profondità gustativa. Su tutti i piatti del percorso, spiccano, ancora, l’Ostrica alla brace glassata al lievito, aronia, lentisco, succo di insalata del pastore dove il gioco tra la sapidità e grassezza dell’ostrica, la nota lattica del lievito e l’acidità dell’aronia portano lunghezza, dinamicità e profondità, così come la “Pasta e Fagioli” e vino fortificato di pasta servito come dessert; un grande lavoro sul carboidrato, a cui Ambrosino ci ha da sempre abituati, qui in combinazione col legume dove entrambi gli elementi vengono lavorati in modo da aumentarne la profondità gustativa ed estrarne tutte le sfumature possibili. Un piatto che si sviluppa in modo orizzontale e verticale ampliando le nuance e lo spettro dei due ingredienti.

Il risultato è una tavola dinamica, vivace e spaziale che porta a fare un viaggio culturale e di conoscenza dei profumi e sapori del “Collettivo Mediterraneo” scoprendo sfumature e sapori persi o dimenticati; dove forse l’unico appunto è in alcuni casi una sapidità leggermente eccessiva e, nelle Trottole, una salsa che va a coprire e arrotondare, non permettendo al piatto di esprimersi al meglio.

In complesso, si ritrova qui una cucina di alto spessore gustativo e culturale, unica nel panorama meneghino e italiano dove ricerca, studio e personalità vanno di pari passo, cui solo lo spazio di lavoro così ristretto, per lo Chef e la sua brigata, costituisce, in ultima analisi, il limite. Non solo spazio fisico ma anche prospettico di sviluppo.

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Marco Ambrosino, l’alchimista mediterraneo

Marco Ambrosino è una mente in continuo fermento creativo. Uno chef di grande spessore culturale, sociale e professionale che, anno dopo anno, stagione dopo stagione, da 28 Posti continua il suo processo di ricerca storico-culturale nel recupero di cibi e tradizioni del bacino mediterraneo, indagando tecniche sperimentali di fermentazione.

Così ha dato anche vita al Collettivo Mediterraneo dove, insieme a colleghi di varie discipline, si propone di “raccontare la multiculturalità proprio del bacino che ci ospita, la biodiversità, la salvaguardia dei mari e del suolo, la promozione della pesca etica, dei produttori, degli allevamenti e dell’agricoltura sostenibile, la divulgazione delle culture del Mediterraneo.

Cibarsi di cultura

Da 28 Posti va in scena una cucina di inclusione sociale e culturale: un melting-pot di gusto, una tavola che piace e che arricchisce il palato di sapori davvero nuovi e unici, molto centrati sull’umami che si sprigiona grazie all’intelligente utilizzo di salse derivate da koji, miso e garum. Perché Marco Ambrosino lavora da anni su materie a lui molto affini, a partire dai vegetali, o come il pesce povero, l’ostrica e l’agnello, prediligendo cotture alla brace, studiando e ricercando continuamente nuove tecniche di conservazione e fermentazione, ponendo grande attenzione a ridurre al minimo, se non azzerare, gli scarti.

Sedersi al tavolo di 28 Posti significa dunque farsi guidare in un percorso più o meno lungo, in questo periodo particolare o da 6 o da 8 portate, ed entrare nel mondo del giovane chef procidano dove alcune delle portate sono poi in realtà rappresentate da più elementi, in una logica di presentazione e condivisione da meze medio-orientale.

La sua cucina, negli anni, si è sempre più affinata e centrata sul gusto con connotazioni decisamente peculiari: uno dei suoi signature-dish sono, non a caso, gli spaghettini in acqua di pasta fermentata e miso di ceci neri, una pasta condita di pasta emblematica del concetto di gustosa unicità. In questo percorso siamo rimasti particolarmente colpiti da due piatti: gli gnocchetti di pane “maturato” per due anni, serviti in una zuppa di orzo fermentato e tabacco, decisamente interessanti proprio perché diversi, e l’ostrica alla brace, foriera di un sapore, ancora una volta, unico, grazie a una invenzione vera e propria dello chef: un ippocrasso di vino di pasta.

La volontà della circolarità totale

Una filosofia, quella della circolarità totale, che prevede di annullare gli scarti: come accade nel rombo. Con la pelle e la corona si ricava una sorta di “testina”, la coda viene fatta macerare nello shio koji di Tumminia e servita come tartare, il collo viene usato per farne una crocchetta, con il fegato usato come salsina.

Sui dessert, che non sono mai stati la parte forte dell’esperienza di Marco Ambrosino ai 28 Posti, si nota però un continuo miglioramento. In particolare, spicca un gelato con cacao di tumminia auto-prodotto, sciroppo di pane e salsa acida a base di orzo, inoculati di spore di aspergillus di diverso tipo, spuma di pane raffermo tostato. Un dolce decisamente originale e insolito nel gusto, di pane all’ennesima potenza.

Ci si diverte in tutto il percorso, con talvolta qualche eccesso come nella tartare di rombo che, per la macerazione e per il beurre blanc, presenta note eccessive di grassezza, così come per l’altra portata con il rombo dove il filetto, peraltro cotto perfettamente, risulta essere un po’ troppo coperto dalla salsa bernese ricavata dalla pelle del pesce.

Sono però solo dettagli in un percorso che non può che essere apprezzato, essendo una esperienza decisamente stimolante per il palato e per l’intelletto, fatta da uno chef che mette la sua indubbia bravura, fatta di anima, cuore e testa, nel lavoro della sua vita.

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Una grande cucina in un piccolo bistrot

A due passi dai Navigli, da qualche anno ha trovato casa uno dei bistrot più interessanti nell’ambito della ristorazione milanese. 28 posti è cucina contemporanea interpretata dal talentuoso Marco Ambrosino che, oltre ad avere un’idea ben precisa di cucina mutuata dalle esperienze al Melograno di  Libera Iovine e al Noma di Copenhagen, ha a cuore l’etica del suo mestiere e le sorti del pianeta e, così facendo, va oltre l’idea di cucina fine a se stessa per diventare un progetto di inclusione sociale, un’idea di sostenibilità ambientale nonché una finestra sui piccoli produttori. 

Il locale, discreto e raccolto, è frutto di lavori di ristrutturazione eseguiti dai detenuti dell‘Istituto Penitenziario di Bollate e la Onlus Liveinslums che all’interno del carcere ha avviato un laboratorio di falegnameria, ha realizzato i tavoli e l’arredamento minimal del ristorante.

Ogni due mesi, un crescendo di sensazioni ed emozioni nuove…

Il menu cambia ogni due mesi. Si può scegliere fra 3 differenti menu degustazione di 5, 8 e 10 portate, con la costante presenza in carta di alcuni cavalli di battaglia.

Già le entrée manifestano ciò che accadrà di lì a poco: una combinazione di dolcezze, sapidità e acidità risveglia il palato, che difatti inizia a fremere, e accoglie l’ottimo  Brodo di cavoli e legumi, bevuto con una cannuccia di sedano a fare da consommé alla Verza col suo estratto  fermentato e una cialda di tartufo nero e al Chiajozza, un souvenir del mare, da cui lo chef proviene: crudo di canocchie, cavolo cappuccio, gelato di riccio di mare, olio di pino marittimo, sabbia di carapaci di canocchie. Simile ma già più urbanizzata l’Ostrica alla brace marinata nel suo garum, salmoriglio, rape in conserva, olio al caffè: un piacere per gli occhi e per il palato dove le sfumature aromatiche della brace, l’amaro del caffè e della rapa sono alleggerite dal salmoriglio a rilasciare freschezza. 

È quindi il momento della Palamita con tamari di cicerchie, capperi di sambuco, finocchio di mare, mela cotogna e caviale di cefalo – eccezionale, quest’ultimo – che precede i Bottoni di semola ripieni di fave secche affumicate, estratto di cavoli fermentati, olio di arance amare, foglia di mirto. Lo spunto è interessante, ma la temperatura di servizio (troppo calda) e il supporto non aiutano ad apprezzare completamente il piatto. Sempre la temperatura, troppo fredda, stavolta, è il tallone d’Achille dello Spiedo di agnello marinato nel suo garum.

…e sorprese

 Un Patè di cosce e fegati con polvere di carota fermentata  e una leggera Ricotta di mandorla ed erbe a chiusura, lascerebbero intendere che la cena viri verso i dessert.

Ma è in arrivo una sorpresa, un grande classico di Ambrosino, gli Spaghettini con acqua di orzo fermentata e miso di ceci neri. Senza dubbio un gran piatto: gusto rotondo e grande equilibrio, quasi un pre-dessert. I dessert, tutti nel solco del dolce-non dolce, sono interessanti e sostanzialmente ben eseguiti. Spicca però, per originalità e carattere, il Gelato di miso di tumminia, tempeh di orzo, gel di kombucha di cachi. 

Una bella esperienza in un posto informale dove soddisfare il vostro appetito tanto quanto la vostra voglia di conoscere, e toccare con mano, una cucina mai scontata e sempre sorprendente. E su Marco Ambrosino ci sentiamo di scommettere per una crescita ed evoluzione ulteriore, forse senza i difetti strutturali di una cucina che ne limita, per spazi e ingombri, il talento e le possibilità.

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Il ristorante sui Navigli dell’allievo di René Redzepi

Nella città meneghina, dove le nuove aperture si rincorrono giorno dopo giorno e le attività commerciali fra bar, ristoranti e gelaterie, sono oltre 7 mila, spiccare con la propria proposta risulta assai difficile.

A meno che non si abbia un’identità forte, come nel caso di 28 posti, il ristorante dello chef Marco Ambrosino in zona Navigli, aperto da 5 anni con una forte vocazione etica oltre che gastronomica. Gli arredi sono stati realizzati con legno di recupero dai detenuti dell’Istituto penitenziario di Bollate, molti degli oggetti utilizzati in sala e in cucina sono autoprodotti nella baraccopoli di Mathare e nel laboratorio del ferro di Jua Kali a Nairobi, mentre le lampade, ideate dal designer spagnolo Alvaro Catalan De Ozon, sono state realizzate a partire dal PET – materiale con il quale sono costruite le bottiglie d’acqua – con un gruppo di indigeni emigrati a Bogotà all’interno di un progetto di cooperazione sociale.

E la cucina non è da meno. Lo chef Marco Ambrosino, dopo l’esperienza al Noma di René Redzepi, ha preso le redini del 28 Posti, contribuendo a diffonderne il nome nel capoluogo lombardo, grazie a un innalzamento della qualità dei piatti. Dopo un periodo iniziale nella quale si poteva ancora percepire l’influenza nordica, lo chef procidano ha abbracciato maggiormente il gusto e i sapori mediterranei, con una cucina contemporanea, attenta alla stagionalità e alla qualità degli alimenti e della materia prima.

Menu intrigante e carico di sorprese

A cena si può scegliere fra 3 differenti menu degustazione a sorpresa (di 5, 8 e 10 portate), i piatti della carta (primi piatti, prima o poi e dessert) contengono alcuni classici, fra i quali i Tagliolini, porro fondente, polvere di cappero, limone candito, mentre a pranzo, vi è un menu da 3 portate. La proposta vinicola è invece dedicata a piccoli produttori e vignaioli artigiani, per l’80% sono vini naturali e biodinamici. Il servizio è incalzante, attento e svelto, quasi eccessivamente nel momento serale.

Da 28 Posti si viene accolti con alcuni amuse-bouche, apprezzati omaggi dalla cucina: Focaccia pomodoro e aceto di riso, interessante per croccantezza e intensità gustativa, Quenelle agrumata su cialda, dal gusto delicato, Macaron con acciughe, variante apprezzabile quanto la cugina dolce e Brodo di Marsala e capperi, esperimento meno azzeccato. Nell’ultimo omaggio, Orme del gabbiano di finocchietto da cancellare o seguire con le zeppole fritte di alghe, una buona pasta fritta e il gioco gustativo della “scarpetta” con le zeppole bilanciano bene la marcata sapidità del piatto.

San Marzano alla brace, limone, mandorla e tartufo nero (piatto presente anche in carta così come altri tre del nostro menu) rappresenta un piatto eccellente a livello gustativo. Sono infatti riconoscibili tutti i sapori più intensi (limone, tartufo e sentore grigliato), attenuati lievemente da quello mandorlato. A livello di consistenza manca, tuttavia, un elemento croccante che smorzi l’acquosità del pomodoro e del brodo.

La sfrontatezza dello chef spicca in Tosuatsu, tapioca, rabarbaro e salmoriglio, in cui la salinità del salmoriglio (salsa a base di prezzemolo) e dell’ostrica ben si bilanciano con l’amarezza del rabarbaro (in cubetti), la dolcezza della tapioca e l’acidità del tosuatsu (aceto di riso leggermente fermentato), anche a livello di consistenze.

Eliche, zuppa forte di pesce e cicoria, sebbene sia ben realizzato, poco convince per la cicoria, elemento servito a crudo e quasi estraneo al piatto, a differenza di quel che avviene con i  secondi. Rombo, “cenere di mare” e fagioli fermentati, in cui la consistenza fondente del rombo fa gioire le papille gustative e Spiedo di agnello, pomodoro stagionato e perilla, in cui è apprezzabile l’utilizzo dei differenti tagli di carne dell’animale.

Un predessert dal sentore agrumato e delicato ed eccessivamente salato, Sorbetto di shisu, sale e olio all’alloro, anticipa (nuovamente a sorpresa) il dolce-non dolce, Ciliegia, cipolla rossa, rosmarino, amaro mediterraneo. Azzardato per la presenza di elementi estranei ai dolci – vedi la cipolla rossa – e per l’eccessiva acidità, ma soprattutto per l’amarezza di un piatto che dovrebbe concludere l’esperienza. Se non vi fosse un ultimo omaggio dello chef (Piccola pasticceria) ad addolcire la cena e il conto di un ristorante che propone una cucina all’avanguardia e mai nella NOrMA.

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