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Il miglior piatto del 2022

Chiudiamo l’anno con una carrellata di piatti memorabili. Non stupitevi se alcuni di questi piatti saranno solo frugali, altri regali, alcuni cerebrali, altri solo rassicuranti. Come ogni scelta, anche questa parla più di chi l’ha compiuta che dell’oggetto scelto. Al lettore lasciamo pertanto il compito di sbizzarrirsi con le più disparate supposizioni circa lo stato in cui versa non solo la cucina ma anche la critica contemporanea che noi, di Passione Gourmet, pretendiamo, e piuttosto orgogliosamente, lo ammettiamo, di rappresentare.

Leonardo Casaleno e la Pasta al tonno di Mauro Uliassi

In perfetto e affascinante equilibrio tra tradizione e tradimento, Uliassi rievoca uno dei piatti di pasta più banali e amati, reinterpretato con espedienti tecnici che rendono ogni forchettata un lampo di golosità ed eleganza. La mantecatura degli spaghetti viene fatta in un brodo di katsuobushi di tonno, poi un “dado” ghiacciato di sugo tradizionale di tonno, aglio, olio, peperoncino, capperi e prezzemolo viene grattugiato sulla pasta come una bottarga, insieme ad un trittico di ingredienti essiccati: uvetta sultanina, olive verdi, cucunci e capperi essiccati.

Alberto Cauzzi e il Broccolo e anice di Niko Romito

L’approccio al mondo vegetale, e conseguentemente sostenibile, è la nuova moda del decennio. Sembra che ormai non si possa parlare d’altro, della sostenibilità, della sconvenienza della proteina animale o ittica che sia, tanto che molti cuochi affrontano questo tema proprio perché attuale; perché la gente e tutto il movimento della comunicazione enogastronomica spinge in tal senso. E sebbene ci sia chi utilizza questo veicolo come semplice pretesto, c’è anche chi ne fa un punto di partenza: una leva per esplorare in maniera ancora più pervasiva e intensa il proprio talento e la propria ideologia di cucina, come Niko Romito. Non è un mistero, a questo proposito, che lo Chef del Reale affronti l’ingrediente da un punto di vista risolutamente inedito e personale. Da tempo immemore la sua concentrazione, la sua capacità di sviscerare tutte le peculiarità e le spigolature della materia, è il paradigma del suo stile culinario. Pensiamo all’Assoluto di cipolla, al Carciofo, alla Melanzana. Pensiamo alle laccature, alle concentrazioni di fondi vegetali, a lavorazioni che sono in pista, per il cuoco abruzzese, da molto più di un decennio. Questo piatto, in particolare, è l’elevazione di tutti gli studi compiuti sino ad ora, un binomio intenso e persistente quanto povero ed elementare. Cosa si può ottenere con una foglia di broccolo e anice? Una meraviglia!

Antonio Sgobba e le Lumache, peperone friggitello, origano, erbe soffiate di Mauro Uliassi

Lumache e friggitello un abbinamento azzeccatissimo di quel genio di Mauro Uliassi, un piatto giocato sui toni aciduli del vegetale che tiene a bada la terrosità della lumaca e al tempo stesso ne valorizza il sapore, senza ricorrere a un eccessivo aiuto dei grassi. Il sentore di origano e la consistenza delle verdure soffiate completano la sensazione di piacevolezza. Un piatto da applausi a scena aperta.

Orazio Vagnozzi e il Risotto al gorgonzola, ostriche e liquirizia di mare di Riccardo Monco alll’Enoteca Pinchiorri

Sobrio nella presentazione, concentrato ed equilibrato nel gusto. Squisito!

Fiorello Bianchi e la Verza, verza, verza di Michele Valotti a La Madia

Verza cotta nel grasso di pollo, emulsione, shiro koji e shiro miso sempre di verza con whisky torbato e burro affumicato, cavolo cappuccio fermentato per un piatto davvero emozionante per la complessità, originalità e intensità di gusto.

Giovanni Gagliardi e l’Indivia belga di Gaia Giordano da Spazio Milano

Indivia belga, mandarino tardivo e arachidi:  piatto di cottura impeccabile, in cui a rubare la scena è una crema di arachidi di eccellente equilibrio, accompagnata dal contrappunto agrumato del mandarino. Piatto superlativo che conferma la mano eccelsa della Chef nel trattare gli ingredienti di origine vegetale.   

Gianni Revello e lo Spaghetto al caffè, limoni di mare di Stefano Baiocco a Villa Feltrinelli

Perfetta crasi d’italianità: la pasta, il caffè, i frutti di mare.

Roberto Bentivegna e la Volaille de Bresse cotta intera in crosta di sale di Georges Blanc

È per piatti come questo che possiamo macinare centinaia di km, che spendiamo fortune alla ricerca dell’emozione più profonda. Cultura, storia, racconto: in questa preparazione c’è tutto. Da prenotare in anticipo e da provare almeno una volta nella vita. 

Leila Salimbeni e il Coniglio al mascarpone con spinacino e mele di Carlo Cracco e Luca Sacchi

Coniglio disossato, pressato e cotto a bassissima temperatura, impreziosito di cristalli di sale dolce, mascarpone, pinoli e spinacino e servito, da Carlo Cracco e Luca Sacchi, in Galleria, a una temperatura perfetta, fisiologica, a enfatizzare tutto il repertorio delle morbidezze. Un piatto che è manifesto dell’italianità più colta e più elegante a tavola, anche quando si serve degli ingredienti più agresti e frugali, serviti in una maniera quasi monastica.

Gianluca Montinaro e le Lumache di Cherasco ai porri di Cervere, mele renette e radici di Gian Piero Vivalda all’Antica Corona Reale

La cucina, oltre a parlare al palato, ha la capacità di parlare allo spirito. E quando in un piatto si intrecciano storie di luoghi e di persone, di affetti e di famiglia, di tradizione e di prospettiva, allora l’animo – almeno il mio – muove a trasporto. Il piacere di quella pietanza non si ferma alle quattro sensazioni, ma diventa poesia e trascende a quella «calma grandezza» di cui scriveva Johann J. Winckelmann. Ebbene, in questo 2022, il piatto che più mi ha commosso sono state le Lumache di Cherasco ai porri di Cervere, mele renette e radici, opera di Gian Piero Vivalda (ristorante Antica Corona Reale, Cervere). Una piccola ‘opera d’arte’ che un figlio ha dedicato a un padre che non c’è più. Che un uomo di cuore ha immaginato per raccontare la storia della propria famiglia. Che un grande cuoco ha ‘costruito’ con i prodotti della propria terra. Vera emozione!

Davide Bertellini e la Cassœula Oggi del Trussardi by Giancarlo Perbellini di Milano

Perché lo Chef ha saputo rivisitare in chiave contemporanea un piatto della tradizione milanese mantenendo intatto il gusto e la  concentrazione dei sapori ed elevando l’estetica.

Claudio Marin e gli Gnocchi di patate in brodo di buccia di patata e bergamotto, schie essiccate e fritte, timo e limone di Antonia Klugmann a L’Argine a Vencò

Un piatto di rara precisione ed eleganza, in cui colpiscono l’utilizzo inconsueto dello gnocco, la concentrazione e complessità del brodo – un esempio di come il no waste (spesso ridotto ad etichetta) possa tradursi in concretezza a servizio della preparazione – e la valorizzazione magistrale delle note sapide che compaiono a fine assaggio, a coronarne la perfezione. 

Adriana Blanc e il Colombaccio, salsa di artemisia, fave alla brace, liquirizia di Alex e Vittorio Manzoni all’Osteria degli Assonica

I fratelli Manzoni propongono una cucina che interpreta magistralmente il territorio. Una valorizzazione della materia prima a tutto tondo che, attraverso l’uso di lavorazioni rispettose del prodotto e di accostamenti audaci, porta in tavola piatti dai sapori sorprendentemente intensi e ben bilanciati. La carne del colombaccio è appena scottata, intrisa dei suoi succhi, ferrosa e potente. A fare da contrappunto vi è una balsamica salsa di artemisia, che unita alla dolcezza delle fave smussa ogni spigolatura e rivela un connubio di grande equilibrio e piacevolezza. 

Valerio De Cristofaro e la Trota fario, scaglie di ravanelli e mandorla fermentata di Giulio Gigli da UNE

Molto interessante l’accostamento fra la trota ed il fondo di ravanelli. Le mandorle fermentate incuriosiscono; la vera chicca è, però, la chips di pelle con lattume, tartufo nero e soprattutto acetosella. Quest’erba, perfettamente dosata trasforma il piatto. La sua nota rinfrescante la ricordiamo ancora con piacere… catartica. 

Erika Mantovan e il Risotto nascosto di Luigi Taglienti

Il Risotto nascosto di Luigi Taglienti copre il capriolo alla forchetta, e si completa con una salsa bianca e una polvere di caffè. La delicatezza non nasconde un’accelerazione dei gusti che appaiono come l’espressione di una manualità e di una tecnica al servizio degli ingredienti. Si raccontano i gusti primitivi e si rendono essenziali. Non importa il dove ma il come. La salsa resta lo strumento, la migliore connessione nei piatti, di questo Chef oggi all’IORistorante di Piacenza

Giacomo Bullo e i Tubetti al cavolo nero, stracciatella di canocchie e olive affumicate di Gianluca Gorini

In principio fu l’estrazione loprioriana, sintesi ed essenza estrapolabile dal singolo ingrediente. Poi, da San Piero in Bagno ad oggi, Gianluca Gorini con un singolo piatto a coniugare insieme il più bel mari e monti di questo 2022. Il profondo brodo di cavolo nero, nella sua austerità vegetale incontra il dolce stil gusto della canocchia, in polpa e nella sua proteica coagulazione dell’albumina in essa contenuta. Una stracciatella che non ha tradito la sua anima popolare: rifocillare nella sua (neo) golosa interpretazione. Stupire con una minestra? Con Gorini è possibile!  

Gianpietro Miolato e il Salmone e caffè di Alberto Basso

Ai Tre Quarti va in scena un piatto complesso, non certo accomodante ma assai intelligente. Acido, sapido, persistente, armonioso, un connubio capace di unire istanze non semplici in una forma accessibile e riconoscibile anche al commensale meno esperto. Chapeau.

Gherardo Averoldi e la Chimera di agnello e piccione, salsa alle olive nere di Kalamata di Alain Passard a l’Arpege

Alain Passard ha costruito la sua fama leggendaria soprattutto per la rivoluzione vegetale che ha coinvolto il suo ristorante, l’Arpege, dal 2001. Tuttavia non va dimenticata la sua maestria come rôetisseur, che trova uno dei suoi apici assoluti nelle così dette “chimere”, l’unione in un unico piatto e in un’unica cottura della carne di due differenti animali, i quali non sono solo giustapposti ma fisicamente uniti per creare una nuova e mitica creatura. La cottura è magistrale, la sensazione è quella di mangiare realmente un animale che non è più né piccione né agnello ma qualcosa di completamente nuovo, trasfigurato, il tutto accompagnato da un’eterea salsa alle olive nere di Kalamata e dalle splendide verdure dell’orto di Alain. Un piatto da pelle d’oca.

Marco Bovio e i Fagioli e Melone di Michele Vallotti a La Madia

Se la consapevolezza è rappresentata dai sapori acido e amaro, sono stato assolutamente consapevole di aver assaggiato il piatto più buono di quest’anno alla Trattoria la Madia dello Chef Michele Valotti. Il suo Fagioli e melone ti stende con un uppercut, il piacevole “fastidio” di un piatto della memoria, come una pasta e fagioli che si evolve in bocca grazie all’acidità del melone fermentato e la grassezza dell’olio al prezzemolo.

Giancarlo Saran e gli Gnocchi di patate con trippette di baccalà e ricotta affumicata di Mattia Barni da Alajmo Cortina

Mattia Barni è l’ennesimo talento valorizzato dalla premiata ditta Alajmo. Comasco di nascita ha fatto tutto un percorso all’interno della Maison. Calandre, Quadri, Marrakech. Ora hanno affidato a lui Alajmo Cortina. Intriganti gli gnocchi di patate al grano arso con trippette e gola di baccalà, salsa di ricotta affumicata. Ma il tocco malandrino è di un ingrediente non indicato nel menù, le lamelle fritte di porro che ti accompagnano nel girone dei golosi, ma ne vale la pena.

Vania Valentini e la Storia d’Amore di Fabio Vandelli all’Erbavoglio 

Trattasi di tortellini di pasta chiusa all’uovo dalle sfogline, con ripieno di orzo fermentato italiano biologico, anacardi, crema di Parmigiano Reggiano 24 mesi con certificazione di qualità. Semplicemente meravigliosi, saporiti, gustosissimi, forse più buoni degli originali. Parola di emiliana.

Tutto torna: come Luigi Taglienti nella sua Liguria

Un giorno d’estate del 2010. Esco dalla spiaggetta libera di Paraggi dopo un bel bagno nell’ancor popolato di pesci, splendido, tranquillo piccolo Golfo (andavo molte volte d’estate, adesso meno), c’è lì giusto a due passi il ristorante dell’Hotel Eight, butto un’occhiata sulla carta, mi fermo incuriosito, bastano poche parole risonanti area linguaggio-gusto (testo ricco o scarno, poche o tante le parole, non importa, da come sono scelte e accostate si capisce in buona misura come si mangerà, quello che passa per la lingua, sia prima che dopo, non può mentire).  

Mi informo. È arrivato per una consulenza stagionale, e sarà presente in loco per parte della settimana, uno chef molto giovane che non conosco, Luigi Taglienti. È già stellato a Cuneo, ma di lui non si parla molto. Decido di prenotare per la sera, ma non sceglierò alla carta. Come mi piace, …se sento il richiamo (alla Jack… London!): carta bianca!

Quello che arriva (ho conservato il testo e ricordo in buona misura i piatti) di portata in portata mi lascia sempre più sorpreso, ed è dir poco. Otto piatti: Gambero rosso di “Santa” con burratina e ciliegie. – Scampo di Oneglia, banana flambata, brina di Ace. – San Pietro, pesche, brodo di San Pietro con tè verde.  – Riso ai crostacei profumato al limone.  – Spaghetti, aragosta, champagne rosé. – Pescatrice in civet come in Piemonte. – Baccalà pensando a una Burridda di stoccafisso alla ligure. – Kandinsky di cioccolato bianco con ricci di mare

Non sto a raccontar tutta la tiritera, che tra l’altro ormai si sa è un po’ fasulla, tutta la tiritera dei gusti, fondamentali o meno, che non vorrei annoiare ancora una volta ogni altro palato mentale (la primogenitura del concetto di palato mentale è di Adrià, fine anni Novanta). Piuttosto, nel giovane Taglienti: tecnica già matura, originalità degli accostamenti e dei rimandi, idee, alcune delle quali riviste poi altrove. Cucina in libertà d’assoluto politeismo, il tratto allora e oggi più saliente. Tecnicamente e nel pensiero molto salda, e allo stesso tempo fuori dai massimi sistemi, dunque rinfrancante di fronte ai nuovi di epoca in epoca dettati ideologici volti a spiegare al cuoco quel che dovrebbe fare, nello specifico oggi …per la squadra, per il prossimo, per la comunità, per il paese, per il bene dell’umanità, …per il Pianeta! E dire che per tutto basterebbe …l’arte.

In ogni caso, ho poi seguito negli anni Taglienti nella sua crescita, in special modo a Milano. Lo tengo, assieme a non pochi amici, nel novero ristretto dei più bravi del Paese, dunque un valore che va anche al di là dei confini. Non solo, ho letto, non ricordo dove, di qualche gourmet (ma non sarebbe arrivato il momento, questa parola, di rottamarla?) che lo considera il cuoco più sottovalutato d’Italia. Le sedi dove ha esercitato la sua arte non sono state poche. Mi viene in mente il recente “Filosofia della casa” di Emanuele Coccia, dove verso la fine dice che ormai la nostra casa è dappertutto. Dappertutto, dunque, anche il ristorante. Fatto sta che con Taglienti parlandone abbiamo concluso che lui s’è portato avanti 🙂

Ma arriviamo alla casa attuale, lo Splendido di Portofino, dal 1901 a tutt’oggi uno degli hotel più belli d’Italia.

La cosa migliore è leggere i testi ufficiali:

Sono felice di accogliere nella mia cucina la brillante creatività dell’amico Luigi e onorato di poter annoverare alcune sue creazioni nel Menù de La Terrazza. Le sue radici liguri si rinnovano così a Portofino, terra meravigliosa che lega ulteriormente la nostra unione in cucinaCorrado Corti – Executive Chef Hotel Splendido

Allo Splendido ci venivo da bambino, ricordo l’odore dei fiori, dell’acqua salata della piscina sulla pelle e gli occhi accecati dal sole. Ci sono tornato più volte come semplice cliente deliziato dalla cucina di Corrado e affascinato dalla vista strepitosa. Tornare a vivere e lavorare nella mia terra, è stato un desiderio ricorrente negli ultimi anni. Portare la mia visione e la mia conoscenza allo Splendido, è un sogno che si avveraLuigi Taglienti – Project Chef de Cuisine Hotel Splendido.

Il menù degustazione di Luigi Taglienti a La Terrazza

Amuse-Bouches: Pinoli tostati e pestoFossile con mandorla e harissaCondigionMinestrone freddo alla genovese

Qui la territorialità (peraltro centrata in pieno) è solo la cornice, all’interno della quale vale la bellezza, la tipicità, la pulizia, la profondità dei sapori. Il ricordo più nitido è quello del condigion (antenato e parente povero ma felice del più ricco cappon magro), insalata tipica ligure qui nella versione ponentina, più magra (ancor più efficace il sapore pieno e senza sbavature che aveva).

Quintessenza al chinotto

Quanti ricordi ne ho. Agrume per eccellenza del savonese. Il più delle volte candito o, ahimè, sciroppato. Ma indimenticabile ad esempio l’uso provato in un dessert di Cracco, e in un pre-antipasto di Lopriore. O da ultimo in piatti del nostro a Milano al Lume. Inizio del pasto importante con un liquido, caldo o freddo, com’era nel classico. Qui splendida ouverture in stimolazione, il chinotto quintessenza non è sapore domestico.

Gamberi, ricci di mare e carpacci

I due gamberi viola di Santa Margherita semplicemente spaziali, erano stati pescati da non molto e portati su allo Splendido. Di codesti pregiatissimi, che vivono a grandi profondità, poche volte ne ho mangiati di così. Per loro più che mai valida la regola che il gambero è straordinario quando, rari casi qualità-freschezza, il gusto della testa (ci è stata servita da ultimo, a coronamento) è ancora migliore della pur eccellente polpa del corpo del crostaceo.

Antipasto in tre parti liberamente componibili:

a) il salpicon di gamberi;
b) la spuma di ricci, olio, arachidi (semplicemente una delizia);
c) carpacci (straniante, suona monco, e invece è doppio): fassona e tonnetto rosso, anche quest’ultimo di recentissima pesca.

Il mare-terra messo in contesto gioco, che i quattro elementi singoli si possono gustare da soli o in una dozzina di intriganti combinazioni diverse.

Fior fior di zucchine trombetta

La zucchina trombetta è ortaggio tipicamente ligure e dal gusto univocamente distinto (nel senso di bontà marcatamente inconfondibile) tra la gran famiglia delle cucurbitacee. Qui strati su strati, – la crema, – la zucchina brasata, – e il fiore che, ripieno di prescinsoa, focaccia e maggiorana, fa un gran trittico regione. Ma sotto la crema ancora celavasi il bergamotto. E come peana veg questo ottimo fior fiore ci basti.

Pasticcio di scampi e ravioli

Ancora scampi di pesca locale recente, vivi, super.

Fantastici raviolini di preboggion (la raccolta delle erbe spontanee in Liguria avviene da tempo immemorabile, e anche la si faceva con miei parenti tutti), erbe che virano su squisito tipico amarognolo. Il termine pasticcio che qui il nostro chef usa in libertà gagliarda è termine singolare per la modernità in cucina, per antifrasi ricordando nel caso nostro quello delle un po’ famigerate Lasagne alla Portofino (pesto e besciamella; pei ghiotti ghiotti), ruotato invece al presente in ridondante finezza, ossimoro che è dato dalla presenza della bella cremosità sotto i raviolini e dalla perfetta bisque concentrata dello scampo, sopra.

Ma lo stile della cena sta cambiando. E intanto sul mare a Levante è sorta una gran luna piena, che ci farà da incanto crescente fine al volgere della serata.

Peperonata di acciughe

Lo chef alla mattina era di ritorno da Spessore, dove s’era vista (lui, a differenza d’altri della masnada 🙂 , in rispettosa perfetta tenuta da brigade) un’insolita scena nell’accaparrarsi tra cuochi le materie prime, quelle che c’erano c’erano, disponibili per la cena. Orbene, lo chef ha duplicato idealmente la scena creando insolito ensemble di Peperonata alla ligure (ma, ci risiamo, invece della fogliolina di basilico, sopra a corona c’era la foglia di bieta delle torte) sormontata dal meglio dell’azzurro, l’acciuga. Perfetto. Succulenza.

Sì, ma dove stiamo andando? Che non basta, scavavi e, ehi non dichiarata nel testo, sotto la peperonata… una trippa (di vitello) alla ligure. Oibò. Dopo lo sconcerto, altra succulenza, e vieppiù positivamente caotica, in the mood of, succulenza dell’insieme. Allora non posso non pensare al fatto che qui, in tutt’altro contesto, l’intruso facesse bonariamente e sornionamente il verso all’invenzioni della neo-trattoria italiana, invenzioni per le quali qualche giornalista entusiasta (…magari dopo sue tante quaresime parastellate) è giunto a coniar la locuzione, chiarissima in sé, di “carrettate di gusto” (cit.): concetto e pratica da porre all’interno di una deriva anti-marchesiana come mai in tal maniera ve ne furono, e nel ritorno, pur mutato nell’ingrediente (now more hard), sì, nel ritorno all’affastello, al gaudioso ammucchio, già stigma della (invero pure grandiosa …quando non era stracotta) cucina italica d’antan.

Ma del trippa di vitello con abitator dell’acque ricordo un fastoso Trippa, pioppini, frutti di mare (fasolari, tartufi, vongole, cozze) di Gennaro Esposito del 2012 e un vertiginoso Trippa, caviale ecc. di Paolo Lopriore del 2008. Ecc. ecc. …E vogliamo allora parlare dello storico intruso della carta, con trippa, ma stavolta di merluzzo, salame (sì, salame) e baccalà, del Louis XV, a Montecarlo?

Dopo la “Peperonata” lo slittamento aumenta, un criterio dell’arte è giusto il salto, la sorpresa, il rischio della leggerezza (quella di pensiero, scanso equivoci), che è quello dell’ultima e più bella tra le “Lezioni americane” di Italo Calvino. Si va col vento qual mongolfiera (esperienza che ho fatto e che a tutti consiglio), padroni non della direzione ma quasi solo delle altezze, gestendo il fuoco e la zavorra.

La Luna ora da qui si vede anche riflessa sul mare. Ma al tavolo la luce, ben sufficiente per l’occhio, non lo è più per le foto.

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Colpo di teatro. Piomba in scena il sociale, no, il suo spettro (Hommelette for Hamlet di Carmelo, Bene!). È in veste di condivisione! Altro feticcio della neo-tradizione, ma qui reso eccessivo e decontestualizzato fin quasi a strappar le risa. Padellata, ma grande grande (…più di quelle che danno quegli altri bravi – non manzoniani – a Paraggi), una padellata d’un profluvio di frutti di mare (guarda un po’: fasolari, tartufi di mare, vongole; ma cozze no) tutti di qualità super, serviti per tutto il tavolo. Da bagnare, traendo da capiente pentola a parte, in faconda pulizia, con loro liquido di breve cottura, intriso di spicchi leggermente aciduli di pomodorino. Da lusso d’antan (ma anche odierno) di buona buona risto-trattoria sul mare. C’è voluto un po’ di tempo frutto a frutto (rigorosamente al meglio con le mani portando alla bocca, ancora all’antica) un po’ di tempo a quasi finirlo (tutto impossibile).

Una pausa condita dalla bellezza della terrazza e del panorama e vissuta in un tempo lento di straniamento felice
E tutto questo che già nella cena è stato, e quello che ancora verrà, è ciò che via via diventa pasto memorabile, ristoro che non scinde mente e corpo. Né tutto il compitino, materico o di concetto. Né le troppe, e non più a tempo, arie, benché di bravura.

Lepre, inchiostro di seppia

E siamo all’unicum, inedito capolavoro, piatto clou della cena. La Lepre Royale, maestro della quale da anni è il nostro Taglienti a Milano, e chi non l’avesse provata ora se ne dolga! Lepre solita perfetta cottura e composizione, ma, ma, ma …Lepre royale marina! Via il foie gras. La salsa (fulcro del piatto): al 50% il sangue della lepre e il nero di seppia, al 25% un jus di canocchie, al 25% un jus de crustacés. Salsa, come qui opportuno, assai meno gelatinosa, più light della royale classica. E tra la salsa qualche fungo galletto, e frutti di mare. Per questo scomodo ancora una volta l’emergente, nel colto e nel pop, maître à penser Emanuele Coccia: “In quanto essere metamorfico, ogni specie è una sorta di zoo o giardino botanico ambulante, una collezione, un patchwork di tratti che appartengono a un numero imprecisato di altre specie.”

Il piatto di Taglienti ne sembra l’illustrazione:

Ibisco, barbabietola, pompelmo al basilico

Dessert leggero, fresco, quello che ci vuole per finire. Idem l’Anguria al Camatti.

Per un cuoco avere una buona tecnica è la base di tutto, e si sa che già saper positivamente ben copiare è difficile e auspicabile. E però dice a ragione Sol Lewitt “banal ideas cannot be rescued by beautiful execution”, dunque importante per un bravo cuoco è arrivare ad avere uno stile proprio e non copiare. Ma avere una libertà anche sul piano stilistico (già lo dicevo a proposito di Taglienti, proprio su Passione Gourmet, molti anni fa) è un di più. Lo spiega Adrià nel suo volume sulla cucina di El Bulli fine anni Novanta, primi Duemila. Ci sarebbe solo da aggiungere, che un po’ nella cucina manca, una presa d’ironia …quella che avverte sempre del rovescio della medaglia (ancora Calvino).

P.S.: dell’eccellenza del luogo e della vista ho detto, non ho detto dell’eccellenza del servizio, lo dico adesso.

Vessillo zoomorfo di tutta l’alta cucina, specie di quella classica francese, la lepre è il grimaldello della consacrazione gastronomica di qualunque chef sin dai tempi di Archestrato da Gela che nella seconda metà del quarto secolo a.C. scriveva che: “Sono molti i  modi e i precetti per preparare una lepre, ma eccellente è mettere la lepre arrosto calda, condita di solo sale, in mezzo a commensali di buon appetito, con la carne ancora un po’ crudetta, strappata a forza (…).” Inopportune ed esagerate sarebbero tutte le altre preparazioni, sosteneva il poeta siceliota, sebbene in tanti, dopo di lui, l’avrebbero smentito.

Ecco le migliori versioni degli ultimi anni.

Nel ripieno delle paste

Massimiliano Alajmo, Le Calandre, Rubano (PD)

Presso uno dei migliori ristoranti d’Europa, paradiso non solo per gli appassionati ma anche per i profani, la lepre è, come tutto, del resto, uno dei motivi stagionali di Massimiliano Alajmo. Qui, la si ritrova ben avviluppata nel menù di novembre: autunnale per antonomasia.

Antonio Biafora, Hyle, San Giovanni in Fiore (CS)

Presso il piccolo gioiellino-giocattolo di Antonio Biafora, un ristorante bomboniera con poco più di una decina di coperti, lo chef si esprime in tutto il suo talento e la sua profondità, la stessa con cui ispezione il territorio, in una veste contemporanea. E l’obiettivo è ampiamente centrato e riuscito, con una cucina davvero sottile, elegante e moderna come questi agresti bottoni di lepre, borragine e succo d’albicocca: paradisiaci!

Cristophe Pelé, Le Clarence, Paris

Piccolo luogo di incanto, già sede di Château Haut-Brion, a Parigi, con una cave da fare invidia a molti. È qui che Cristophe svuota i frigo a ogni servizio, proponendo una cucina di totale e completa improvvisazione. Perché salse, fondi e tutte le basi dell’alta scuola classica francese sono preparate fresche ogni giorno, con un tocco impeccabile, partendo da quanto offre il mercato: in questo caso, solo il fondo della lepre a impreziosire un raviolo ripieno di funghi porcini su cui è assiso il fegato grasso d’oca. Chapeau!

Risotti

Davide Palluda, All’Enoteca, Canale

Da Davide Palluda il palato fa fatica a comprendere dove finisca la tradizione e inizi la modernità. I suoi sapori s’impongono alla coscienza perché importanti, decisi, centrali, complessi ma senza un ingrediente di troppo come nel riso, ginepro e lepre: un Carnaroli cotto in acqua, mantecato con burro, ginepro e aceto, servito al tavolo direttamente sul piatto dove è gia stato posizionato il ragù di lepre con un ristretto di barbabietola. Un piatto bellissimo, oltre che golosissimo.

Enrico Bartolini al Mudec, Milano

All’alba dei suoi quarant’anni, onusto di successi e riconoscimenti, Enrico Bartolini ha compiuto una scelta coraggiosa quanto inattesa: quella di reinterpretare i propri piatti più celebri, alla luce della contemporaneità. Kaiser Soze di questa rielaborazione, il riso e latte, dove alla salsa si melograno e al civet di lepre si aggiunge la pungenza del pepe verde, a rendere l’insieme incredibilmente multisfaccettato.

Tentazioni agresti: lepre e lumache

Giovanni, Restaurant Passerini, Paris

Giovanni Passerini, seppur quarantenne, è già un cuoco e un imprenditore maturo. Ha creato un luogo d’elezione, vicino alla Bastiglia, che è il regno dell’italianità più pura. Semplice, ma non per questo non ricercato, dove con puntiglio e maniacalità si ripropongono assiomi della cucina italiana, come questa insalata improvvisata di erbe aromatiche, lumache e cuore di lepre.

Massimo Bottura, Osteria Francescana, Modena

Un piatto che è in tutto e per tutto trompe-l’œil di un paesaggio, una suggestione, un ricordo, e che è vessillo di una maturità che corrisponde, nel caso di Massimo Bottura, all’interiorizzazione di una verità: quella di esistere nella relazione e nella comunione col mondo, di cui il piatto è tributo. Anche in questo caso lumache e lepre si uniscono, per dare vita a un paesaggio campestre.

Il famoso “civet” di lepre

Nicola Portinari, La Peca, Lonigo (VI) novembre e gennaio 2019

Era scontato che una preparazione tanto classica non poteva che trovarsi se non nella casa della grande, alta cucina del ristorante di “lusso”. Una caratteristica che, a La Peca, convive tuttavia con uno squisito senso di familiarità: la valorizzazione della “casa” e la capacità di far sentire qualunque cliente come avvolto in una nuvola di comfort. Il lusso spogliato della altezzosità e portato al livello della vera eleganza, come questo piatto, tanto elegante quanto succoso e disinvolto.

Cristophe Pelé, Le Clarence, Paris

Torniamo dunque a Le Clarence dove, nella stessa visita, Cristophe Pelé ha dedicato alla lepre alcune memorabili declinazioni, come in questa personalissima e affascinante preparazione, in cui gli sfilacci di lepre convivono con l’aragosta e con importanti lamelle di tartufo bianco. Una combinazione sublime, e nobilissima.

Tra Civet e Royale

Davide Oldani ne “Il Tinello”, Cornaredo (MI)

Non di rado, la grandeur sta nel mezzo e, in questo caso, nel punto di incontro tea il civet e la royale. E se il primo è un mla royale è, come vedremo, il punto più alto di realizzazione della lepre, in congiunzione con funghi, foie gras e tartufo nero pregiato: qui le due tecniche s’incontrano in una doppia declinazione, dove il colore è restituito nella sua più naturale essenza.

Christian Milone, Trattoria Zappatori, Pinerolo

La cucina di Christian Milone è dichiaratamente, profondamente legata alla terra; è una cucina dell’orto, di elementi vegetali, di sensazioni amare, acide, a volte terrose. Una cucina che, anche quando osa, mantiene una componente di concretezza e senso del gusto che non rende mai le preparazioni eteree o fini a sé stesse. Marcate note vegetali, freschezza, leggerezza, ma anche omaggi alla classicità d’Oltralpe nella sua lepre, a metà strada tra civet e royale visto che il fondo è tirato proprio con foie gras e tartufo nero.

À la royale

Cristophe Pelé, Le Clarence, Paris

Ancora una volta Pelé, dove la lepre alla royale acquisisce una piccola licenza sulla ricetta classica (1775), che qui vi riportiamo. La preparazione originale, a opera del cuoco di corte Marie-Antoine Carême, prevede una lepre disossata e marinata col Cognac. Per la farcia vengono usati i tartufi neri del Périgord, insieme ad altri funghi, come le trombette dei morti, il lardo tagliato sottile e a cubetti. Il fegato e il cuore vengono spadellati con burro e scalogno, e deglassati col Cognac per poi essere aggiunti alla farcia della lepre stessa. Completano il ripieno blocchi interi di foie gras  di anatra, distesi lungo l’intera superficie dell’animale. Con ago e spago la lepre viene chiusa e ricucita. Segue una marinatura nel vino insieme alle spezie, per circa 6 ore, fino al momento in cui viene infornata e cotta a temperatura molto bassa. Viene servita tiepida, cosparsa con il fondo di cottura ridotto della lepre, ottenuto dalla carcassa arrostita e deglassata più volte con il Porto. Ecco, non pago a tutto questo Pelé aggiunge, sulla sommità, un cubetto di anguilla caramellata.

Luigi Taglienti, Lume, Milano 

Da Luigi Taglienti la chiusura della parte salata del menu viene affidata a un’icona della cucina borghese transalpina, presentata in chiave moderna. La sua lièvre à la royale viene farcita con foie gras, tartufo, rognone e nappata con la sua salsa di cottura, legata fuori fuoco, e servita con patate noisette e uno spinacino di fiume.  Sontuosità ai massimi livelli.

Antonio Guida, Seta, Milano

Apparentemente semplice, direte voi, la strada verso la classicità. Niente di più falso, se è vero com’è vero ch’essa è lastricata di difficoltà, non ultimo il paragone indefesso coi giganti della cucina. Stavolta, tuttavia, la lièvre à la royale di Antonio Guida è ancora più intensa e vibrante, nonché vessillo di una cucinapiù gagnairiana che mai, con tanto di capriccio: la ruota di pasta di Gragnano, a indicare le origini dello chef.

Gian Piero Vivalda, Antica Corona Reale, Cervere (CN) coming soon

Una delle migliori royale dell’anno, qui veramente realizzato a regola d’arte. Equilibrio perfetto tra farcia e carne, salsa da manuale tirata col sangue, come vuole la tradizione, morbidezza e tenerezza filologicamente rispettate, ma con una turgidità delle carni che non ne smaterializza la consistenza, anche se la tradizione lo vorrebbe.

Eugenio Boer, Bu:r, Milano

Una cucina con una timbrica classica davvero importante, quella di Eugenio Boer, che corona in questa splendida royale di lepre, ingentilita e rinfrescata dalla provvidenziale riduzione di vino e di visciole. Un piatto in cui salse, fondi, riduzioni, concentrazioni e dove l’uso, imperioso, delle componenti lipidiche, corona un piatto dai sapori molto precisi e definiti.

Braci, salmì & co.

Massimiliano Poggi, Trebbo (BO)

Il goloso filetto di lepre al pepe verde rappresenta per Massimiliano Poggi l’occasione di una rivisitazione importante, nonché la realizzazione di una salsa che ci ha costretto alla scarpetta: una demi-glace molto persistente che strizza l’occhio alla scuola francese, a conferma di quanto le basi siano, qui, decisamente solide.

Gianluca Gorini, Da Gorini, San Piero in Bagno (FC)

Menzione d’onore per la lepre, mandarino, estratto di ginepro e timo cedrino di Gianluca Gorini: una materia prima quasi indescrivibile (la scioglievolezza di questa carne va toccata con mano per essere creduta) e una perizia nella gestione di equilibri gustativi (ematicità, balsamicità, acidità) e strutturali, da vero fuoriclasse.

Mauro Uliassi, Uliassi, Senigallia (AN)

La Lepre in salmì con croccante di carbonella (oliva nera marchigiana) sfoggia, oltre a una materia prima strepitosa, una maestria assoluta nella gestione degli equilibri interni, con una salsa di un’eleganza e di una leggerezza sopraffina, cui il tocco “marchigiano” conferisce vivacità texturale e gustativa. I piatti di cacciagione non fanno altro che confermare la grande mano di Mauro Uliassi anche su questo versante, dove le grandi preparazioni classiche diventano letture attualizzate e alleggerite, appropriate anche durante le torride estati marchigiane.

Trittici iberici

Mateu Casañas, Oriol Castro ed Eduard Xatruch, Disfrutar, Barcellona

In soli quattro anni questo ristorante si è imposto sulla scena gastronomica mondiale vantando uno dei pedigree più creativi. Disfrutar è un ristorante al contempo magico e informale, in cui rimanere semplicemente e felicemente estasiati a ogni assaggio, tra effetti speciali mai fini a se stessi, momenti divertenti ma anche didattici, che generano l’equazione perfetta della felicità.

E il trittico di lepre che segue ne è la dimostrazione:

 

Quali sono i piatti che più ci sono mancati in questo 2020 appena trascorso? Eccovi una carrellata di piatti memorabili: bocconi che ci hanno fatto sobbalzare dalla sedia e che si sono impressi con così tanta efficacia, e altrettanta ferocia, nella nostra memoria, che ci è ancora possibile rievocarli, in attesa del tanto anelato bis.

Alberto Cauzzi

La lièvre à la royale, mio piatto feticcio, di Luigi Taglienti al Lume. Un piatto che, pur mantenendo legame e attinenza filologica con la trazione, si proietta nel futuro attraverso piccoli tocchi e dettagli che lo rendono raffinato e avanguardista.

Andrea Grignaffini

Mi manca la cucina di caccia che infiammava gli antichi inverni di Igles Corelli. Per un ritorno alla normalità, però, non vedo l’ora di gustarmi la super-classica Carbonara dell’Osteria Angelino di Milano.

Orazio Vagnozzi

Riso, pane e pepe nero con riduzione di Marsala, di Davide Oldani al D’O. Piatto goloso e raffinato, che interpreta in modo del tutto originale il piatto tipico della cucina lombarda, il risotto, usando ingredienti poveri. Il risultato è da leccarsi i baffi.

Alessandro Pellegri

Uno dei piatti di cui più sento la mancanza è Acqua Olio Limone Liquirizia, di Luigi Taglienti: questa entrée mi manca non come piatto a sé, ma in quanto costante preludio dei sublimi menù degustazione di Luigi Taglienti, sempre presente, negli anni, in tutti i ristoranti in cui ho avuto il piacere di provare la sua cucina. E non vedo davvero l’ora di tornare a farlo.

Davide Bertellini

Senza ombra di dubbio la lièvre à la royale dello chef Antonio Guida al Seta. Un piatto che ho assaggiato diverse volte, un confort food d’eccezione di cui ho sentito parecchio la mancanza… Fortunatamente presto colmerò il vuoto.

Erika Mantovan

Le Cicale di mare, tapioca e bergamotto di Enzo Di Pasquale  ad Aprudia. Un tuffo nel mare, il sale invade ogni cosa. Stuzzica, solleva, agisce: al palato c’è un velours che non lascia intravedere i confini, il piatto afferma quanto promette, arricchendosi di parti più acide e amare, grazie alle perle di tapioca.

Leila Salimbeni

Le capesante, il midollo e il brodo di fagioli di Matteo Baronetto, e l’abilità di utilizzare il veicolo lipidico del midollo come prisma per modulare almeno due tipi di sapidità: quella, umamica, del brodo di fagioli, e quell’altra, più dolce, della capasanta. Un piatto che è la conciliazione perfetta tra libido e intelletto.

Leonardo Casaleno

L’inimitabile vitello tonnato di Diego Rossi, da Trippa. Un vuoto quasi incolmabile nella normalità della vita milanese di un appassionato di cibo.

Giovanni Gagliardi

Dim Sum ripieni di coscia di piccione al brodo con thè nero e anice di Silvio Salmoiraghi, ovvero della concentrazione dei sapori. Ti resta a lungo in bocca e per sempre in mente. Entusiasmante. 

Claudio Persichella

Patate, caviale, dragoncello, burro affumicato, spinaci e coquillage del sommo Troisgros, ovvero quando artigianato e arte hanno confini che diventano sfumati e indistinguibili: sensibilità, raffinatezza e gusto sono legate in un ricordo che scatena, parimenti avvicendate, malinconia ed euforia.

Giacomo Bullo

Il cappuccino murrina del Gran Caffè Quadri degli Alajmo. Non ci stancheremo mai di questo piatto e di tutte le sue declinazioni, sempre centrate! Tuttavia la golosità di questa versione, in ogni boccone, è un caleidoscopico viaggio tra i sapori nella laguna veneziana. La cremosità della crema di patate unita alla sapida carnosità dei molluschi catapulta l’avventore nel più bel salotto del mondo: Piazza San Marco. Conturbante!

Gianpietro Miolato

Il mare di frutta all’arancia, a Le Calandre di Massimiliano Alajmo: l’Alajmo-pensiero fatto piatto, e, per di più, come antipasto. Gioco di contrasti tra consistenze e sapori, alternanza tra morbidezza e croccantezza, eleganti passaggi tra dolcezza e acidità, il tutto senza dimenticare pulizia e golosità in chiusura. Confortevole per chi ama la rotondità; ragionato per chi ama l’introspezione. In una parola: universale.

Adriana Blanc

L’entraña del The Brisket è un tenerissimo taglio di manzo, nello specifico Black Angus americano, allevato libero. Il morso sprigiona i succhi sapientemente conservati all’interno, rivelando un boccone particolarmente ferroso e saporito. Attenzione, però, alle controindicazioni, perché questo piatto dà dipendenza.

Silvia Izzi

La mano delicata e decisa di Davide Caranchini a Cernobbio nel piccione cotto in crosta di sale e fave di cacao in due servizi: un viaggio di andata verso Oriente, e ritorno, qui in un succulento petto di piccione con burro alle spugnole, biete scottate ed estratto di alloro. Il burro alle spugnole trova il suo contraltare nella nota amaricante dell’estratto di alloro. Una gioia per le papille gustative.

Francesco Zito

Il risotto alla pescatora di Antonio Zaccardi al Pashà di Conversano: un piatto classico della tradizione italiana reinterpretato in chiave contemporanea. Riporta alla mente gli anni Ottanta, è ricco e gustoso, richiama il mare del Sud e, in un certo senso, riporta alle feste di una volta, che tanto ci mancano. 

Carlo Nicolo

Insalata 21, 31, 41… 121 di Enrico Crippa al Piazza Duomo di Alba. Un piatto che nella sua apparente semplicità scatena reazioni sinaptiche complesse che attivano e stimolano tutti i sensi; un giardino lussureggiante, un dedalo di vegetali nel quale è un piacere perdersi  dolcemente. Capolavoro!

Antonio Sgobba

I ravioli di melanzana con ventricina e crema di olive Nolche di TrippaDiego Rossi è un bravissimo cuoco di cui tutti celebrano le capacità di valorizzare gli ingredienti poveri e il quinto quarto; tuttavia, ritengo che il meglio di sé lo dia coi vegetali. Infatti, a un’attenta selezione della materia prima affianca un’ottima tecnica con cui riesce ad esaltarne tutti i sapori. Questi ravioli dalla sfoglia sottilissima racchiudono un fondente di melanzana dolce e concentrato che trova nella salsa di olive il contrasto amaro. La ventricina dà la parte grassa al piatto e un piacevole finale piccante al boccone. Un piatto assaggiato a fine estate, fortemente evocativo di cui ho sentito la mancanza nelle fredde giornate di “forzata reclusione” autunnale.

Luca Nicoli

Il riso all’aglio nero di Riccardo Camanini. Forse anche per i ricordi legati al Lido 84, oltre che per la perfezione del piatto in sé: il riso contemporaneo per definizione. Eccellente anche quello con scampi olio di fragole e acqua di governo provato nell’ultimo menù: cremoso e perfettamente equilibrato nella sua dolcezza.

Il paradigma dell’autunno

Chiamato legnasanta in napoletano – pare infatti che il frutto aperto ospiterebbe la caratteristica immagine del Cristo in croce – legata all’iconografica cristiana è anche la sua interpretazione sicula, nel cui seme spaccato dimora un germoglio che somiglierebbe, appunto, alla mano della Vergine Maria. Prodigo tanto di superstizione quanto di virtù (diuretico, energizzante, integratore di vitamine e protettore del fegato), il caco è il paradigma indiscusso dell’autunno, ma nelle cucine d’autore campeggia quasi sempre tra i dolci…

Ouverture

Moma, Andrea Pasqualucci e Federico Cucchiarelli, Roma

Nonostante la lapalissiana dolcezza su cui insiste questo antipasto, da lodare è senz’altro il tentativo da parte dei due chef di delocalizzare un frutto che, proprio nella sua manifesta natura, se opportunamente contrappuntato potrebbe prestare il fianco a tutto il pasto.

Lume, Luigi Taglienti, Milano

Uno dei più grandi interpreti de La Grande Cucina italiana capace di condensare Liguria, Piemonte, Lombardia e tutta Milano, in un sol boccone. Un piatto, questo “minestrone”, capace di parlare sottovoce dell’impressionate talento e della personalità di Luigi Taglienti.

Il piacere della carne

Idylio by Apreda, Francesco Apreda, Roma

Una cucina che dimostrato di poter fare fusion in maniera intelligente e audace, mantenendosi sul filo del minimalismo e del manierismo, con classicità e personalità. Come queste costine di vitello, quintessenza di sapori tardo-autunnali.

Pre-dessert

La Madia, Pino Cuttaia, Licata

Tutto un piccolo compendio di autunno nella cucina delle memorie d’infanzia di Pino Cuttaia. Qui, le castagne si trasformano in wafer da inzuppare in una zuppa di caco e chicchi di melograno.

Enigma, Albert Adrià, Barcellona

Stupirà attribuire questo piatto al re dell’avanguardia. Eppure pochissima audacia alberga nel caco di Albert Adrià, se non la sua collocazione, in un decrescendo di sapidità tra l’ultima portata salata, a base di pomodoro, e la carrellata dei dolci.

Villa Naj, Alessandro Proietti Refrigeri, Stradella

Una cucina dinamica e creativa, territoriale ma capace di svincolarsi, guardando altrove e soprattutto a Oriente, da cui attinge spunti e contrappunti acidi e amari, nonché il rinnovato interesse per l’elemento vegetale, ora centrale, come in questo delizioso predesset, tutto frutta e spezie.

…e tartufo

La Peca, Nicola Portinari, Lonigo

Un grande ristorante, che continua a scrivere la storia dell’alta cucina di “lusso” con un quid tutto suo: il senso di familiarità che solo la vera eleganza sa trasmettere. Emblematico, questo piatto, quintessenza di topos autunnali sia ricchi che poveri; sia alti che bassi.

Kaki e cacao

Trattoria Visconti di Roberto Visconti ad Ambivere

Quando la tradizione gastronomica bergamasca si miscida con la passione per l’orto, da’ vita a una cucina semplice, ma squisitamente agreste e domestica.

Dulcis in fundo

L’Osteria all’Orologio, Marco Claroni, Fiumicino

Un dolce eccezionalmente buono, capace di  giocare in punta di fioretto sulla falsariga dolce-salato, non lesinando sulle tonalità aromatiche officinali date dall’intuizione di addizionare di rosmarino il Pan di Spagna.

Pakta, Albert Adrià, Barcellona

Parlando di contrappunti, da sottolineare il delizioso contraltare offerto dallo strategico umeboshi sulla dolcezza del caco, enfatizzato dalla combinazione con la sensazione salata e acida delle prugne. Un dolce tutto in levare.

Enigma, Albert Adrià, Barcellona

In questa occasione, anteriore di un anno rispetto alla precedente, il caco trova una sua degna collocazione tra i dessert, e, precisamente, questa combinazione con rafano e zucca occhieggia tra una banana ossidata e foie gras e un cioccolato e yuzu.

All’Enoteca, Davide Palluda, Canale

Una eccellente rivisitazione del Montblanc da parte del re delle rivisitazioni, Davide Palluda. Un’interpretazione accurata, vestita di tutto punto di altri orpelli autunnali tra cui spicca, oltre alla castagna, proprio il caco.

28 Posti, Marco Ambrosino, Milano

Tutti nel solco del dolce-non dolce sono i dessert di Marco Ambrosino, molto coerenti con la sua personalità  votata alla sperimentazione sulle fermentazioni tra cui spicca, per originalità e carattere, proprio questo gelato di miso di tumminia, tempeh di orzo e gel di kombucha di cachi. 

Marta in Cucina, Marta Scalabrini, Reggio Emilia

Versione “nostrana” del Mont-Blanc, il Monte Cusna di Marta Scalabrini è l’emblema di come elementi chiave della tradizione locale siano utilizzati per dar vita a preparazioni contemporanee, talvolta inaspettate.

Il Portico, Paolo Lopriore, Appiano Gentile

Il senso sociale come struttura formale dell’esperienza gastronomica: questa, una delle ultime strade imboccate dal grande chef allievo di Gualtiero Marchesi, fautore di una cucina conviviale dove il processo creativo viene restituito all’avventore.

Il luogo di Aimo e Nadia, Alessandro Negrini e Fabio Pisani, Milano

Una cucina elegante, classica nel senso più puro e ispirato del termine, che utilizza la stagione in corso per realizzare un affresco dalle tinte vivaci e accattivanti, come questo dolce: una irresistibile miniatura d’autunno.