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The Quarantine’s Club – Martini

Martini

Parlando del Manhattan, abbiamo nominato la “sacra triade” del cocktail bar. S’intenda, nulla di precisamente definito o codificato, ma nessuno potrà mai dirvi il contrario: le tre colonne portanti, i tre cocktail più famosi della mixology mondiale, sono senza alcun dubbio il Manhattan, l’Old Fashioned e quello che probabilmente è il più importante – senza dubbio il più iconico – dei tre, il Martini.

Come già detto non amiamo sviscerare e addentrarci troppo nella storia dei cocktail, e lo amiamo ancor meno quando parliamo di veri e propri monumenti quale è il Martini. Le attribuzioni sulla presunta nascita e relativa paternità sono a decine, tutte per di più condite dall’aura mistica/iconica (una su tutte, lo “shaken, not stirred” di bondiana memoria) che negli anni hanno aiutato a costruire e alimentare il mito.

Insomma il Martini è, vogliate concederci il paragone, il Rolex Daytona dei cocktail. Se ne potrebbe parlare per ore, ma tra appassionati basta una parola per intendersi su tutto un micro-mondo.

Potete ben capire, quindi, come parlare del Cocktail Martini risulti imbarazzante, dato questo alone di mitologia che si porta dietro; un cocktail dalla semplicità spiazzante, ma che nel tempo è diventato un vero e proprio must. Un drink che riesce a trascendere il “mi piace/non mi piace”, che va oltre la semplice posizione di amore o odio, ma che vede una vera e propria fazione, dalla sua – i martiniani – che codificano un preciso stile di bevitore.

Dichiararsi tali a un bartender, quasi fosse una religione, fa sì che scattino in automatico una serie di dinamiche tali da non rendere necessarie ulteriori spiegazioni. È un vero e proprio benchmark, che permette di far capire dall’altra parte del bancone, con una sola parola, quali sono i cocktail della carta che apprezzerai e quali evitare anche solo di proporti.

Abbiamo parlato di semplicità, perché il Martini altro non è che del Gin in purezza, sporcato da una goccia, poco meno, un sospetto di Vermouth dry.

La sua versione codificata IBA è il Dry Martini, ma di versioni ce ne sono a centinaia, rientranti in decine di scuole di pensiero in merito al suo stile. Paradossalmente, nonostante la sua semplicità intrinseca, è praticamente impossibile trovare due Martini uguali tra loro, ed è uno dei drink più difficili da preparare a casa: se è vero che un Gin&Tonic bene o male viene sempre buono, fare in casa un Martini degno del suo nome è affare alquanto complesso.

Passando dagli orologi alla cucina, concedeteci un secondo paragone: il Martini è lo “spaghetto al pomodoro” dei cocktail, semplice solo sulla carta.

La ricetta IBA del Dry Martini prevede 60 ml di Gin e 10 ml di Vermouth Dry, inseriti entrambi in un mixing glass, raffreddati una trentina di secondi e filtrati in una coppetta Martini, con la finitura di una zest di limone o un’oliva.

Per di più, soltanto nei cocktail IBA le varianti a base Martini sono non meno di una quindicina.

Per complicare le cose, partendo dalla ricetta del Dry, si apre una sorta di infinito diagramma a blocchi: gin più o meno secco, variante con la vodka, vermouth più o meno dry, vermouth inserito nel drink o “in&out” solo a profumare il ghiaccio, stirrato o shakerato (grazie Fleming…), nella variante Espresso/Pornstar/Dirty/French/Vesper/Hemigway, con zest di limone, oliva o entrambe… ce ne sarebbe veramente da scriverne un libro, e talmente tante varianti da cucire un Martini (quasi) su ogni cliente.

Per cercare di fare un po’ di chiarezza in questo mare alcolico abbiamo chiesto a uno che di Martini se ne intende: Lucio D’Orsi, proprietario ed Head Bartender nientemeno di un locale di nome Dry Martini a Sorrento, dedicato, come è facile immaginare, al Re dei cocktail. Un locale che tra le molteplici e interessanti proposte vanta la Carta dei Cento Martini, ovvero cento varianti codificate sul tema Martini.

Il consiglio di Lucio per tentare di replicare un buon Martini domestico è di provare il Direct Martini, invenzione di “The Maestro” Salvatore Calabrese, bartender dal curriculum che riesce ad essere più ricco di aneddoti ed esperienze dello stesso Martini Cocktail.

Racconta Calabrese di un esigente (e particolarmente pignolo) cliente che voleva un Martini “molto secco e molto freddo”, ma quando gliene veniva servito uno molto freddo, il metodo di raffreddamento in mixing glass faceva sì che il drink si diluisse e perdesse la sua componente dry. Viceversa, quando veniva data la priorità al lato dry del cocktail, esso non era abbastanza freddo.

Calabrese quindi  pensò a un metodo per rispondere a entrambe le richieste, con una semplicità a tratti comica: pose in freezer per 48 ore una bottiglia di Gin, insieme a una coppetta Martini. Solo al momento del servizio li tolse dal freezer, versando 60 ml di Gin nella coppetta pre-raffreddata, e sporcando il drink con un cucchiaino di Vermouth Extra Dry. Così facendo, servì un perfetto Martini mantenendo fede a entrambe le richieste: “molto secco e molto freddo”.

Estremamente semplice e diretto, “Direct” perché tutto viene inserito direttamente nel bicchiere. Noi lo abbiamo realizzato con il re dei Gin, il secco e meraviglioso Crown Jewel di Beefeater, finito da un cucchiaino scarso di Martini Extra Dry e una scorza di limone, prima strizzata sulla superficie del cocktail e poi inserita a lato dello stesso.

Varianti

Proporre una variante del Martini, per gli innumerevoli motivi di cui abbiamo parlato sopra, non è certo affare per deboli di cuore: scegliendone una se ne omettono a decine altrettanto interessanti o importanti. Noi ci abbiamo voluto comunque provare, proponendone una versione comunque agilmente realizzabile a casa, molto caratterizzata e ben codificata, ma soprattutto adatta da proporre a chi trova il Martini classico eccessivamente secco: eccovi il Breakfast Martini.

Iniziamo con il premettere che l’inventore del Breakfast è, ed è un caso (o forse no), sempre Salvatore Calabrese.

Viene realizzato shakerando 50 ml di Gin, 15 ml di Triple Sec, 15 ml di succo di limone, e 1 bar spoon di marmellata di arance.

Noi abbiamo utilizzato il come da ricetta 50 ml di Star Of Bombay, unito a 15ml di Cointreau, del succo di limone spremuto fresco e un bar spoon (o due cucchiaini da caffé, se non disponete dello stirrer) di marmellata di arance Callipo, avendo cura di evitare i pezzi di scorza troppo grossi per non rischiare di occludere i fori filtranti dello shaker. Inserire, appunto, tutti gli ingredienti nello shaker, riempito come sempre a metà di ghiaccio. Shakerare per trenta secondi, servire in una coppetta Martini ghiacciata e finire sempre con una scorza, ma questa volta di arancia.

L’evoluzione di un ristorante campano verso influenze internazionali

Non era difficile prevedere che, dall’ultima nostra visita, Mario Affinita avesse preso sul serio la necessità di una messa a fuoco. Quello del Don Geppi, del resto, è uno chef’s table -o tinello, per dirla nel gergo delle bistronomie contemporanee- d’altissimo livello, dove il lusso sta nell’intimità di soli dodici coperti, per quattro, cinque tavoli al massimo. La sala in miniatura è tesa a focalizzare l’attenzione sul piatto che, nella capacità di farsi comprendere, sa esser divertente e concedere anche il brivido dell’astrazione.

Come il Cromatismo di gamberi rossi all’arrabbiata con mollica al kimchi, che può essere inteso come un esercizio di stile in piena regola, se l’intento è quello di normalizzare l’uso della nota piccante nell’alta cucina; di certo, un esercizio esigente per il palato. La Pasta con ricci di mare, burrata e tartufo nero estivo, fa della capacità di usare la pasta in luogo del risotto un effetto paesaggistico dal risultato gustativo più rassicurante e confortevole.

Se poi ci mettiamo che il servizio -benché forse un po’ troppo affettato nei modi- è professionale e discreto, nonché impreziosito da Lucio D’Orsi, maître di rara sensibilità, e da una carta dei vini peculiare che riesce a persuadere nell’abbinamento anche grazie alle aperture all’universo mixology, il gioco è fatto.

Un place to be per un drink, a tavola o al bancone

Non stupisce, in questo senso, la freschissima inaugurazione (datata giugno 2018) del primo e unico Dry Martini italiano, all’interno dell’Hotel Majestic Palace: siamo in terrazza, al quinto e ultimo piano della struttura, e la  formula replica quella dell’encomiabilissimo omonimo a Barcellona, da anni presenza fissa nella The World’s 50 Best Bars.

È su questo modello che Javier de las Muelas ha aperto, partendo dalla formula vincente in Spagna, svariati locali a brand vario in giro per il mondo. Ed è anche questo modello che rende lapalissiano oggi il successo della triade Majestic Palace/Don Geppi/Dry Martini, che pur nella sua continua evoluzione, da tre anni custodisce indisturbata i riconoscimenti della critica, il suo chef e il suo maître/sommelier, argomentando sempre più persuasivamente la sua storia.

Tornando all’esperienza, al netto di alcuni piatti troppo politicamente corretti e, pertanto, eccessivamente monocordi come gli Scampi con salsa all’artemisia e olio alla vaniglia, è una cucina non priva di stimoli ludici, che sta cominciando a mettere a fuoco i suoi stilemi, dove l’esercizio della tecnica, benché totale, non è mai solo fine a sé stesso. Oltretutto, trattandosi della petite salle à manger dell’Hotel Majestic Palace, si corona qui l’arduo compito di declinare il pur necessario internazionalismo in una chiave del tutto personale.
E scusate se è poco.

La galleria fotografica:

Il food pairing nell’alta cucina, in collaborazione con Bonaventura Maschio

Continuiamo con le nostre monografie di Gente di Spirito, la serie di articoli che dona voce ai sommelier che inseriscono dei cocktail nel loro percorso di abbinamento al calice.

Siamo partiti dalla Campania, da Alfredo Buonanno di Kresios, passando da Regis Ramos Freitas di Undicesimo Vineria, a Treviso. Torniamo ora in Campania, nel cuore della costiera sorrentina, dove si trovano un elegante hotel, una tavola recentemente stellata e un esclusivissimo cocktail bar. Siamo a Sorrento e parliamo di un’unica struttura: l’Hotel Majestic Palace, il suo ristorante Don Geppi e il nuovissimo cocktail bar aperto da qualche mese, Dry Martini (il primo ed unico aperto sul suolo italico).
In questa terza puntata di Gente di Spirito abbiamo fatto due chiacchiere con il General Manager di questa prestigiosa struttura, il vulcanico Lucio D’Orsi, maître, sommelier, barman ma soprattutto grandissimo appassionato di cucina, vini e spirits.

Classe 1979, D’Orsi inizia il suo percorso presso l’alberghiero di Castellammare di Stabia, dove partecipa fin da piccolo a diversi concorsi di miscelazione e bartendering, ottenendo diversi riconoscimenti. Continua i suoi studi in Svizzera, lavorando e studiando in diverse strutture del Cantone Francese.
Tornato in Italia, inizia a lavorare per la catena IHG come primo Barman e poi come Bar Manager. Diventa dopo pochi anni Food & Beverage Manager, dopo aver fatto esperienza anche come Primo Maître. La sua passione e determinazione lo portano a diventare formatore, consulente ed esperto in start up, nonché punto di riferimento nell’ambito del Food & Beverage.
Dal 2010 inizia il suo percorso professionale al Majestic Palace Hotel, dov’è attualmente il General Manager e dove la sua passione per la ristorazione portano all’apertura nel 2014 del Don Geppi Restaurant (stella Michelin dal 2015) e all’apertura, il 30 maggio 2018, del primo Dry Martini by Javier de las Muelas d’Italia.

Raccontaci come hai iniziato ad abbinare dei cocktail ai piatti nel tuo ristorante.

La mia “storica” passione per la miscelazione mi ha portato negli anni ad ampliare gli orizzonti anche verso il food pairing, abbinando ai piatti differenti tipologie di cocktails e viceversa. Le prime proposte al Don Geppi sono state pensate in abbinamento a tutta la linea dei nostri dessert, poi pian piano siamo passati ai piatti salati. E’ già da molto tempo che al Don Geppi serviamo cocktail (tanto che molti amici sommelier ci chiedevano consigli in merito…) e negli ultimi mesi il Dry Martini ha fatto il resto. Infatti da giugno, data in cui è entrato in servizio il nuovo cocktail bar, le richieste di pairing da Don Geppi sono aumentante a dismisura…

Come reagiscono i clienti alla proposta, durante il pranzo o la cena, di uno o più cocktail abbinati?

Quando un cliente decide di affidarsi a me per il percorso di abbinamento al calice, sono solito chiedergli se vuole che vengano inseriti anche dei cocktails nel percorso. Forse un po’ per questo nostro essere precursori nel servizio dei cocktail al tavolo, o certamente come già detto anche grazie al blasone del nostro cocktail bar, quasi la totalità dei clienti sono alquanto incuriositi ed accettano di buon grado la mia proposta. 

Qual è secondo te la parte più intrigante ed il rovescio della medaglia del Food Pairing con i cocktail?

La parte più stimolante è indubbiamente la ricerca dell’equilibrio perfetto tra il drink ed il piatto abbinato: considerando l’elevato numero di ingredienti presenti in ciascun cocktail, le possibilità sono innumerevoli rispetto al vino, ma di contro sono molte le possibilità di sbagliare… insomma, è senza dubbio una sfida affascinante. Il rovescio della medaglia è quello arcinoto: il timore di alcuni clienti di bere spririts anche durante il pasto, rischiando quindi di portare il tasso alcolemico ben oltre il consentito.

Da Vinci

Questo cocktail viene abbinato al piatto per le sue innumerevoli caratteristiche: la prima è la presenza delle bollicine, che permettono di riequilibrare il palato dopo aver mangiato una frittura. In seconda battuta l’amaro che, con le sue sfumature, va ad esaltare le erbette presenti all’interno delle alici. Infine importante la presenza del lampone, che con le sua acidità, pungenza e dolcezza iniziale fa da legante a tutti gli ingredienti del cocktail, che trovano nella sapidità del piatto il massimo equilibrio per il palato.

Ricetta – powered by Bonaventura Maschio:

1 cl di Galliano
1,5 cl di Sciroppo di lamponi
2,5 cl di Vermouth rosso
2 cl di Amaro Pratum
10 cl di Ca’ Bertaldo Brut

Procedimento:

Inserire tutti gli ingredienti -eccetto Ca’ Bertaldo Brut- in uno shaker, quindi agitare e versare il tutto in double strain in una bottiglina da sake. Versare Ca’ Bertaldo Brut in un calice da vino con ghiaccio cristallino, una foglia di basilico e mezza fetta di pompelmo rosa. Al momento del servizio al tavolo, versare il contenuto della bottiglina direttamente nel bicchiere.

Questo drink è servito in abbinamento con il piatto “Alici in porchetta con maionese alla curcuma e lische croccanti” dello chef Mario Affinita.