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Trivet

The Fat Duck? Neanche per sogno

Quando si pensa a The Fat Duck la prima parola che viene in mente è molecolare. Tanto che lo Chef che officia da quelle parti, Heston Blumenthal, sarebbe di certo passato alla storia come l’esponente più importante di quella corrente se non avesse incontrato sulla sua strada un tale di nome Ferran Adrià. Premessa necessaria per capire chi sono e cosa fanno i due soci di Trivet: Isa Bal e Johnny Lake. Prima di intraprendere questa nuova avventura professionale a due passi dal Londron Bridge, i due erano rispettivamente head Sommelier ed Executive Chef a The Fat Duck: in pratica quel tempio della gastronomia, fino al 2018, girava attorno a loro. Scontate le aspettative all’apertura del nuovo ristorante, l’anno successivo: tutti a caccia di trasformazioni estreme, giochi, alchimie, trabocchetti. E invece Johnny ha preso da subito la direzione opposta, proponendo una cucina essenziale, senza fronzoli, che sottende e a tratti nasconde un bagaglio tecnico di primo piano e punta sull’intensità dei sapori, sulla concretezza e la leggibilità dei piatti.

Un viaggio che parte da Londra e tocca Francia, Italia e Giappone

La parola d’ordine è “accessibile”: lo sono l’atmosfera e il servizio, tarati sul bistrot più che sul fine dining; lo è il prezzo, se parametrato al mercato londinese; lo è la carta dei vini che, pur provvista di grandi etichette, ha come elemento di originalità l’esplorazione di territori vinicoli meno inflazionati e spesso trascurati come la Turchia, la Georgia, la Grecia. Lo è, prima di tutto, la cucina. Volendo comunicare che la selezione dei prodotti è almeno importante quanto le trasformazioni messe in atto dallo Chef, la prima pagina del menù è dedicata a salumi e formaggi. Poi, però, si fa sul serio.

Tra gli “starters” sono Italia, Francia e Giappone a dividersi il palcoscenico: da un lato l’Animella croccante con erbe selvatiche e insalata di alga kombu confit, in cui la panatura leggermente grossolana esalta la cedevolezza dell’animella e gli elementi vegetali danno un tocco sapido e fresco. Dall’altro il piatto della giornata: “Drunk Lobster, Trivet noodles”, una contaminazione-capolavoro fra Italia e Giappone: astice cotto nel sake, spaghetti all’uovo simili alla nostra “chitarra”, cotti al dente nello stesso sake che ha visto passare l’astice in precedenza; il tutto servito con aggiunta al tavolo di una salsa simile a una bisque composta dai liquidi di cottura arricchiti da shiro miso (miso bianco). Uno di quei piatti che si vorrebbe non finissero mai. Tra le portate pricipali spicca “Not a crispy duck” (non un’anatra croccante): qui, a una certa prudenza della combinazione dei sapori, fatto salvo il classico abbinamento con l’arancia sostituito dal melone, corrisponde una cristallina perfezione esecutiva. Lascia perplessi, invece, l’impostazione dei contorni, che vengono serviti al centro del tavolo per essere condivisi, senza un preciso legame con i piatti che dovrebbero affiancare.

Comunque, se non lo avesse preceduto l’”astice ubriaco” il miglior piatto sarebbe stato un dessert, “Hokkaido Potato”, ovvero una millefoglie composta da sfoglia di baked potato incredibilmente friabile e croccante quanto se non più di una sfoglia classica, inframezzata da una mousse leggera di cioccolato bianco e sake e accompagnata da un gelato di burro e sake.

IL PIATTO MIGLIORE: Drunk Lobster, Trivet noodles.

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La rivoluzione di James Lowe passa dalla ricerca dell’essenzialità

Dopo un’adolescenza passata a sognare di diventare pilota di aeroplani di linea, James Lowe viene folgorato sulla via dei fornelli, lavorando accanto a Heston Blumenthal e Fergus Henderson. Il colpo di fulmine regala allo chef in erba una visione assai chiara della sua vita e del futuro. Ritrovata la rotta della serenità, quattro anni fa decide di scommettere su sé stesso puntando sulla ricerca dell’essenzialità. Elimina fronzoli e vezzi dalla sala, dalla tavola e dalla cucina, dando vita a Lyle’s, nel quartiere di Shoreditch, al piano terra di quella che fu una fabbrica di tè.

Il messaggio arriva forte e chiaro fin dall’ingresso del locale. La semplicità come parola d’ordine genera un’atmosfera eccezionalmente rilassata nonostante tutto sia autenticamente londinese. La carta dei vini propone poche etichette ben selezionate, strizzando l’occhio ai produttori biodinamici, senza alcuna preferenza territoriale. Il servizio di sala accompagna con leggerezza la cucina, che fa del prodotto il proprio punto nevralgico attorno al quale lo chef si impegna maniacalmente a dosare la sua creatività, in favore dell’esaltazione totale della materia.

L’intelligenza di un cuoco sta nel saper rispettare il prodotto

James Lowe dimostra di essere un segugio nella ricerca della migliore materia prima che il Regno Unito possa offrire. La zucca, il cavolo nero, la pastinaca e le nocciole rappresentano lo zenit del regno vegetale, così come lodevole è il daino che, pur in grado di sussurrare al retrolfatto racconti di scorpacciate di erbe boschive, non ostenta la sua presenza con i tipici sentori acri della selvaggina.

Zucca, cavolo riccio e nocciole è il piatto da ricordare, in cui l’incontro tra la dolcezza morbida della zucca e l’intensità aromatica della nocciola tostata ricorda la golosità di una crema spalmabile, con il palato tenuto vivo da una geniale intuizione acetica alla base e dalla croccantezza dei semi dell’ortaggio. Coda di rospo, cozze e porri è il primo di due passaggi proposti con una stravagante accoppiata: la coda di rospo, splendida ma leggermente troppo avanti di cottura, e le cozze con i porri che trovano il loro trait d’union solo nella salsa a base acquosa del bivalve. Medesima intenzione, ma con risultati decisamente più formali ha il piatto Lombo di daino, pastinaca e cavolo nero in cui una salsa ai frutti rossi accompagna e verticalizza la straordinaria normalità dell’insieme.

Nonostante la filosofia di James Lowe sia chiara e credibile, rimane un pizzico di delusione per la disattesa irriverenza, che ci spettavamo da un cuoco così preparato in una piazza importante qual è quella londinese. Potersi concedere il lusso di prendersi dei rischi è una dote che in pochi hanno in dono, ma che allo stesso tempo dovrebbe impegnare, quantomeno moralmente, chi ne beneficia.

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Nel cuore di Londra va in scena la grande cucina tradizionale nordica

Nella generosa offerta di ristoranti che la città di Londra offre, spicca, tra le recenti aperture, Aquavit, locale che replica il celebre indirizzo newyorchese aperto da investitori svedesi ormai tre decadi fa.
Alle spalle di Piccadilly Circus nell’ampia sala con bancone bar, caratterizzata da pannelli di legno su pareti che ospitano opere d’arte e fotografie, con sedie e sedute in pelle color rosa pallido e blu, su un pavimento in marmo rigorosamente scuro, va in scena un riuscito omaggio alla cucina nord europea tradizionale.
Lo chef Henrik Ritzèn propone pietanze che conducono direttamente al cuore dei sapori imboccando la strada più diretta allo scopo di esaltare ricette e ingredienti della casa madre Svezia.

Un linguaggio gastronomico universale e chiaro

La sua è una cucina semplice, piuttosto rotonda, che attraverso un’efficace e mai complicata combinazione di sollecitazioni insegue, conseguendola, la soddisfazione degli avventori in una location tanto affascinante quanto informale nel servizio. Una cucina che si differenzia dagli ipertecnici stili nordici affermatisi con successo negli ultimi anni, di cui il Noma è stato il capostipite, ponendo in essere un linguaggio gastronomico universale e comprensibile da tutti.

Le aringhe, portate all’inizio, ne sono una testimonianza: materia prima esaltata da accompagnamenti giustapposti o contrapposti senza orpelli né complicazioni di sorta.
Altra caratteristica è il corredo mai scontato e assai funzionale di frutta ed elementi vegetali che a vario titolo completano ed esaltano piatti che altrimenti potrebbero facilmente risultare non pienamente compiuti. È questo il caso degli squisiti mirtilli che danno una felice sferzata ai golosi Gnocchi svedesi (Kroppkakor) o del sorbo selvatico che conferisce un tocco coerente alle qualità del Cervo.
Tutti piatti che senz’altro si sviluppano in orizzontalità, ma in grado di veicolare, in una cornice di indubbio fascino, una ristorazione appagante attraverso la profonda conoscenza e il sapiente utilizzo di una cultura culinaria di indubbio interesse.

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La tavola ammiraglia di Gordon Ramsay, ovvero un piccolo ristorante nel cuore di Chelsea, Londra

Sembra un paradosso.

Se qualcuno si aspetta che il flagship restaurant del marchio-colosso Gordon Ramsay sia qualcosa di mastodontico o sofisticato, quando mette piede in questi angusti spazi, potrebbe rimanere deluso. La cucina è più grande della sala, il bagno è microscopico, i camerieri rischiano di urtarsi a vicenda e quando ci si siede, le sedie vengono letteralmente incastrate tra il tavolo e il muro.

Ma questa non è una vetrina londinese, bensì una grande tavola, lascito di un grandissimo cuoco scozzese che ha arricchito il panorama gastronomico londinese con questo imperdibile luogo.

Siamo a Chelsea, zona sud est di Londra, a Royal Hospital Road per la precisione, ed è proprio qui che Gordon Ramsay iniziò, da protagonista, la sua carriera che lo ha portato a essere uno dei cuochi televisivi più famosi del globo. In un breve arco di tempo dall’apertura del suo ristorante arrivarono le ambite tre stelle (unico ristorante ala fine degli anni novanta a Londra a potersene fregiare); e presto Ramsey venne catapultato nel tubo catodico con “Boiling Point”, trasmesso da Channel 4, una miniserie foriera (del 1998) degli attuali talent gastronomici.

Urla, turpiloquio, tensione a mille e aria di terrore per i poveri commis che si perdevano la comanda o stracuocevano il foie gras.

A distanza di vent’anni di attività, Ramsay, che ormai vive negli Stati Uniti attratto da ben altri impegni, di tanto in tanto fa capolino in questa piccola bomboniera dove tutto è cominciato per salutare la sua attuale scuderia ed accertarsi che le cose vadano al meglio.

Una macchina ben oliata che percorre, giorno dopo giorno, la stessa strada dell’eccellenza

Non è un caso se questo posto, a prescindere da classifiche, opinioni e riconoscimenti, è sulla cresta dell’onda dall’apertura, registrando sold out in entrambi i servizi del pranzo e della cena.

Dopo l’uscita dell’acclamata Clare Smyth – che ha aperto il suo Core – le redini della cucina sono state affidate al giovane Matt Abé, da dieci anni nella scuderia di Ramsay. Uno che sa sicuramente il fatto suo visto i risultati.

Non si fanno capriole carpiate sulla sedia e non si resta a bocca aperta con preparazioni particolarmente concettuali o ultramoderne. Non crediamo che il fine ultimo di questa tavola sia quello di stupire, semmai quello di coccolare e far passare al cliente qualche ora di gran classe con una cucina classica, raffinata, dosata, alleggerendo il filone della cucina francese, tra materia prima straordinaria e cotture al laser.

I piatti principali sono innegabilmente da 3 stelle, per esecuzione, presentazione ed equilibrio di sapori. Abbiamo mangiato un Piccione magistrale, delle elegantissime Capesante (per gli aficionados, meglio conosciuti come pettini di mare) e una irresistibile Tarte tatin accompagnata da gelato alla vaniglia di rara bontà.

È un ristorante in cui sono state prese le misure per affrontare al meglio gli ultimi tempi in cui è impensabile pensare a eccessi e sprechi. Qui tutto e misurato ed essenziale, pur restando nell’aurea del grande ristorante.

E i prezzi, per Londra e per questa qualità, permetteteci, non sono neanche proibitivi.

Il servizio di sala è ineccepibile e ci fa piacere ritrovare molti connazionali (quasi tutti, maître, sommelier e camerieri, qui sono italiani) che sfoggiano con classe la propria professionalità. Senza aprire polemiche inutili, in questi ultimi tempi si parla tanto di emergenza sala. Vivaddio all’estero non sembra così. Magari poniamoci qualche interrogativo.

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Paradiso dei Dim Sum e della cucina cinese nella metropoli di Londra

Andrew Wong non è uno chef con un Curriculum Vitae comune.
In effetti, non capita spesso che un laureato in antropologia della London School of Economics decida, dopo l’università, di prendere le redini del semplice ristorante cinese di quartiere della sua famiglia (a due passi da Victoria Station) anziché lanciarsi in attività più coerenti col suo prestigioso titolo di studio.
Per fortuna, nel 2013, Wong ha pensato di usare il suo talento per dare un’impronta personale all’attività, creando un ristorante con una doppia anima. Da una parte, a pranzo, un menù basato prevalentemente su dim sum; dall’altra, la sera, oltre alla carta, una degustazione che copre quasi tutte le espressioni della multiforme cucina cinese, in uno straordinario viaggio in una gastronomia di incredibile ricchezza.
In entrambi i casi si viaggia ad alta quota e in quest’ultima esperienza non esitiamo a dire di avere provato la migliore sequenza di dim sum a nostra memoria, in un succedersi di bocconi formidabili per bellezza, tecnica, gusto.

Parola d’ordine: varietà!

Pescando da una carta ricchissima, e con prezzi quasi incredibili per Londra, si può godere di micro piatti sorprendenti e sempre eseguiti a regola d’arte (ad esempio, fritture asciutte e sempre a temperature perfette, nonostante la sala pienissima), di solito mai visti in altri ristoranti, pur specializzati, in città occidentali. Il bonbon stile Sichuan con pollo e arachidi, forse la vetta della degustazione, col suo ripieno liquido in una sfoglia di pasta eterea, mostra quali siano le capacità tecniche di questa cucina di grande maestria.
A complemento dei dim sum, un classico consigliato tra i piatti “da condividere” sono le “pancake di Mr. Chow” con anatra croccante, eseguite a regola d’arte.

Capitolo a sé i dolci: a parte alcune offerte molto ben realizzate di dessert contemporanei, come la sfera di cioccolato con banana affumicata al tè, ananas e crumble di nocciole, da A Wong va provato un must assoluto (che Jay Rayner del Guardian non ha esitato a definire, forse a ragione, il miglior dessert mangiabile a Londra): un panino al vapore, “abbigliato” come se fosse una mela, ripieno di crema fatta con uovo d’anatra. Nella sua semplicità, perfetto e indimenticabile (la leggera crosticina alla base; la crema liquida di gourmandise esasperata: una delizia).
Carta dei vini non banale, con proposta aggiuntiva di qualche sakè di buona qualità che ben si sposa con una cucina così varia.
Servizio molto rapido ma cordiale, come meglio non si potrebbe con questi numeri e bella cucina a vista, da cui notare l’operosità di una brigata che, pur numerosa, è davvero efficientissima vista la sterminata proposta della carta.
Prenotazione obbligatoria (e facile on line) per una delle esperienze imperdibili nella Londra di oggi.

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