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Le 4 Ciacole

Un sodalizio ambizioso

Chi non conosce queste zone a cavallo tra le province di Verona e Rovigo potrebbe pensare che si tratti di una nuova apertura, o quasi. Al contrario, parliamo di un’istituzione. Le 4 ciacole è una locanda vera, con le camere, di quelle che si trovano solo in aperta campagna, di solito nella piazza principale di un paesino di poche case, di fianco alla chiesa.

Decenni di lavoro di una coppia di osti vecchia maniera, Tiziano e Gabriella Scandogliero, l’hanno resa un punto di riferimento per la zona, continuando ad accrescere con costanza la qualità della propria offerta pur mantenendo inalterata la formula del locale. Poi la svolta. Al loro fianco entra in gioco il figlio Marco: carriera rapidissima nel settore enologico, che lo vede miglior Sommelier del Veneto nel 2016, redattore della Guida ai Vini di Verona in collaborazione con il quotidiano l’Arena e anchor-man nelle televisioni locali.

Il progetto diventa ambizioso e il locale si divide in due: da un lato La Dispensa con un’offerta decisamente raffinata di norcineria e formaggi, dall’altro il ristorante. È in quest’ultimo che si concentrano gli investimenti, con un remake completo della cucina, a partire dall’imponente spiedo che campeggia di fronte al pass e con l’ingaggio del cuoco più in vista della zona, Francesco Baldissarutti: un altro che di storia ne può raccontare parecchia, a partire dal lungo periodo trascorso a fianco di Giancarlo Perbellini nel ruolo di sous-chef, per continuare con l’anno di lavoro al Celler de Can Roca e per finire con il percorso di affrancamento in veste di chef del Ristorante Perbellini, iniziato nel 2014 dopo la partenza di Giancarlo per il centro di Verona. Una partita non semplice, vinta senza ombre.

Le 4 Ciacole: giochi e sapori

Ambiente rustico e accogliente, cucina a vista scintillante, cantina di ricerca e servizio informale fanno da contorno a una cucina solida, intensa, centrata nei sapori, raffinata nelle tecniche ma mai leziosa.

Se il kebab di sedano rapa allo spiedo con latte di kefir e gelatina di acqua di rapa rossa centra l’equilibrio passando attraverso il contrasto tra acidità e note lattiche, i due primi piatti giocano le loro carte sul comfort e sull’immediatezza. Il risotto “Ho mantecato una pizza alla marinara” è un classico dello chef: esecuzione da manuale, linearità nella costruzione del piatto (mantecatura al pomodoro, acciughe del Cantabrico leggermente affumicate, spuma di aglio nero fermentato, origano secco e fresco, polvere di pane croccante), sapori centrati e gioco pienamente riuscito, almeno quanto il successivo pollo arrosto con le patate che non ti aspetti: tortelli ripieni di cremoso di patate arrosto, immersi in un brodo concentrato di pollo allo spiedo e accompagnati da erbe acide.

Scioglievole, sapida, golosa la costina di Mora Romagnola, preparata come una porchetta, con salsa alla radice di liquirizia e insalatina di cerfoglio, levitino, nipitella e finocchietto. Peccato per l’impiattamento perfezionabile non solo sotto il profilo estetico (per come è versata la salsa) ma anche nella sostanza per la temperatura a cui viene esposta la parte vegetale del piatto. Magistrale, invece, la chiusura, affidata a una versione evoluta dell’After Eight: menta, cioccolato, peperoncino e arachidi salate. Godibilissima, soprattutto per chi nei dessert cerca un tono zuccherino medio basso e presenza di sapidità e piccantezza.

Un sodalizio promettente, quello tra Marco e Francesco, che ha visto la luce nel momento più buio nella storia della ristorazione moderna, e che solo ora inizia a dare i risultati sperati.

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Un posto che riassume perfettamente lo spirito e l’idea di Trattoria

La Riserva naturale delle Valli del Mincio, il fascino struggente della Bassa Padana, terra umida, nebbiosa, terra di fiumi e di incantevoli piccoli centri come Grazie, frazione di Curtatone, qui troverete il bel Santuario delle Grazie dalle tipiche fattezze gotico lombarde e qui troverete la Locanda delle Grazie, un posto nel quale si sta come a casa.
Si, quante volte per descrivere un ristorante abbiamo sentito utilizzare quest’espressione. Quasi una frase fatta, ma non nel caso della Locanda delle Grazie. Questo è un posto in cui ci si sente davvero a casa.
Qui, Fernando Aldighieri propone da anni la sua cucina che è la cucina della tradizione mantovana in maniera semplice, schietta, senza concessioni alle mode. La sfoglia si tira ogni giorno, ogni giorno si sfornano pane, focacce e grissini che accompagnano degnamente i sempre numerosi ospiti (la prenotazione è indispensabile!) che qui cercano ristoro dopo una gita nelle terre di Virgilio – Mantova è davvero ad un tiro di schioppo – o che qui vengono apposta per ritrovare una cucina che scaldi il cuore.
La zona è gastronomicamente ricca e di antiche tradizioni, come sappiamo, e qui è possibile trovare l’intero scibile del buon mangiare mantovano: dal pesce d’acqua dolce, alla zucca, dal cotechino allo stracotto d’asina, fino alle paste ripiene, vanto della casa.
E così, da una Carta che sembra quasi ostentare orgogliosamente la propria immobilità, ecco arrivare in tavola i piatti di sempre: Tortelli di zucca perfettamente equilibrati, né troppo dolci, né troppo sciapi, corposi ma non pesanti, succulenti Maccheroncini allo stracotto di somarina, un impegnativo Cotechino con crauti ed un discreto Luccio in salsa verde con polenta. Una cucina tutta sostanza, non molto attenta all’estetica dei piatti e non sempre curatissima nelle esecuzioni, proprio come a casa.

Cucina casalinga di preparazioni della memoria che, purtroppo, nelle case si cucinano sempre meno

E allora è bello venire in posti sinceri come questa bella Locanda per ritrovare i sapori di un tempo sentendosi un po’ come in famiglia.
In sala l’esuberanza e il calore di Daniela Bellintani, locandiera di grandi capacità comunicative, dai modi genuini e diretti supervisiona ogni cosa in modo che tutto funzioni al meglio anche quando, come molto spesso fortunatamente accade, il locale è pienissimo.
Carta dei vini non ampissima ma dai ricarichi più che corretti e buoni dolci tutti di produzione propria.
Da menzionare, infine, il fatto che la Locanda è anche bottega ed è possibile acquistare molti prodotti tradizionali. In particolare, Sbrisolona e Mostarde “maison” davvero ben fatte.

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Locanda dell'Angelo, chef Mauro Ricciardi, Ameglia

“Solo un prodotto eccellente può diventare il miglior piatto del mondo e accedere alla tavola dei commensali”
E’ quasi impossibile arrivare alla Locanda dell’Angelo senza sentire un brivido sulla pelle, senza provare un briciolo di emozione di fronte a quello che fu un tempio della gastronomia internazionale, davanti a questa casa creata e fortissimamente voluta dal grande Angelo Paracucchi, uno degli indiscussi Maestri della cucina italiana moderna.
Paracucchi nacque a Cannara nel 1929 e, dopo gli studi in agraria, iniziò la sua carriera di chef in un ristorante di Assisi, ma arrivò al successo a Sarzana nei primi anni ’70 dove fece diventare il “Motel dell’Agip” un punto di riferimento per i gourmet di tutta Italia.
Nel 1974 inaugurò la sua “Locanda dell’Angelo”, concepita dal grande Vico Magistretti come uno specchio che riflette il bianco delle Alpi Apuane e l’azzurro del Mar Ligure e, da qui, cominciò la scalata alla notorietà nazionale ed internazionale.
Aprì nel 1983 a Parigi “Il Carpaccio”, all’interno dell’hotel “Royal Monceau” e, dopo qualche anno, inaugurò un’altra “Locanda” a Osaka, in Giappone, diventando così chef di fama mondiale, rinnovando in maniera sostanziale i piatti della nostra cucina tradizionale.
Oggi le redini della cucina della Locanda sono saldamente nelle mani di Mauro Ricciardi, per molti anni patron della vicina Locanda delle Tamerici, che mosse i suoi primi passi come cuoco proprio qui, come allievo del Maestro.
La cucina di Ricciardi ha come elemento caratterizzante ed imprescindibile la qualità delle materie prime, dalle quali cerca di far emergere il massimo delle potenzialità senza stravolgerne l’anima: una cucina di stampo classico, legata al territorio anche senza esserne schiava.
La centralità del gusto e la ricerca dell’equilibrio sono gli obbiettivi primari di Ricciardi, ma non sempre l’obbiettivo viene raggiunto. Alcuni piatti mancano di quel cambio di passo che seduce e convince: un tocco acido, una parte croccante, un gioco di temperature che renda il piatto meno scontato e più appagante.
Nella nostra visita, accanto a piatti ben ideati e realizzati, come ad esempio l’ostrica marinata nello yogurt, mango e spezie ed i tagliolini con calamaretti spillo, profumo di basilico e pecorino, ne abbiamo assaggiati altri meno convincenti.
Buone, ma assolutamente troppo salate, le seppioline al nero con insalatine, mentre la pur ottima, per qualità del pescato, orata di grossa pezzatura con maionese alla nocciola presentava, in una delle due porzioni provate, un taglio ed una cottura del tutto inadeguata.
Ottimo il servizio coordinato dalla brava Paola Bacigalupo, maître e sommelier, già con Ricciardi alla Locanda delle Tamerici e molto interessante la carta dei vini, con un ricco assortimento di importanti etichette nazionali ed internazionali, alcune delle quali a prezzi veramente competitivi.

Focaccia, pane e grissini non indimenticabili.
Focaccia, Locanda dell'Angelo, chef Mauro Ricciardi, Ameglia
pane, Locanda dell'Angelo, chef Mauro Ricciardi, Ameglia
Ostrica, yogurt,mango.
Ostrica, yogurt e mango, Locanda dell'Angelo, chef Mauro Ricciardi, Ameglia
Salmone affumicato in casa, pane nero, burro.
Salmone affumicato, Locanda dell'Angelo, chef Mauro Ricciardi, Ameglia
Seppioline al nero e insalatine.
seppioline al nero di seppia. Locanda dell'Angelo, chef Mauro Ricciardi, Ameglia
Astice, scampo, gambero a vapore con gelatina di zenzero: buona materia prima, ma appiattita dalla cottura, dalla consistenza monocorde e dalla poca “grinta” della gelatina.
astice scampo e gambero, Locanda dell'Angelo, chef Mauro Ricciardi, Ameglia
Buona e non stopposa, come spesso purtroppo capita, la rana pescatrice lardellata, con granella di pistacchi.
rana pescatrice lardellata, Locanda dell'Angelo, chef Mauro Ricciardi, Ameglia
Tagliolini con calamaretti spillo, profumo di basilico e parmigiano.
tagliolini di calamaretti, Locanda dell'Angelo, chef Mauro Ricciardi, Ameglia
Orata, maionese alla nocciola, quenelle di patate alle acciughe.
orata, maionese, Locanda dell'Angelo, chef Mauro Ricciardi, Ameglia
Cioccolato, granita al Campari, arance candite
cioccolata, granita, campari, Locanda dell'Angelo, chef Mauro Ricciardi, Ameglia
Piccola pasticceria.
piccola pasticceria, Locanda dell'Angelo, chef Mauro Ricciardi, Ameglia
I due vini in abbinamento.
vino, Locanda dell'Angelo, chef Mauro Ricciardi, Ameglia
vino, Locanda dell'Angelo, chef Mauro Ricciardi, Ameglia

“Una terra provvista di duplice natura: fatata e inafferrabile come un paesaggio nella nebbia; concreta quanto può esserlo pane e culatello. Una terra che però si può facilmente riconoscere anche in un solo volto, quello buono e accigliato di Giovannino Guareschi. Un luogo dove il bere e mangiare, in fondo, non sono che un modo per essere sentimentali.”

Queste righe, tratte dal libro “Nella dispensa di Don Camillo”, sono la maniera migliore, nonché quella più breve ed incisiva, per descrivere la bassa parmense, cupa ed afflitta nei suoi paesaggi contadini del dopoguerra (che il Guareschi, con il suo “Mondo Piccolo“, ha reso celeberrimi in tutta Italia) quanto schietta, sincera e genuina se si parla di cucina o meglio, di tavola, perché una buona parte della sua tipicità è data dalla convivialità, prima ancora che di ingredienti o ricette.
Ma più che di alta cucina, da queste parti è bene parlare di “alti prodotti”, ottenuti attraverso secoli di esperienza, valorizzati da grandi e capaci selezionatori, portati a tavola nella maniera più tradizionale possibile: precursori ed al vertice assoluto, oramai inarrivabile, di tutto ciò sono stati Peppino e Mirella Cantarelli che, da un foglio bianco, proprio mentre l’Italia sorrideva con le storie del prete di Brescello, hanno scolpito la storia della ristorazione di questa zona e non solo.

Fatte le debite proporzioni (per meriti assoluti dei Cantarelli, non certo per demeriti di Dallabona) attualmente la Stella d’Oro di Soragna è il ristorante che meglio rappresenta questa filosofia di cucina, che schiera il terzetto vincente composto da eccellenza delle materie, fedeltà alla tradizione e accoglienza calorosa. Nonostante l’ambiente serio e curato suggerisca il contrario, non approcciatevi a questo locale come ad un ristorante, piuttosto come ad una trattoria: parlate con Marco, non consideratelo come uno Chef ma piuttosto come un cordiale Oste, attento in cucina quanto abile a destreggiarsi tra i tavoli. Dimostratevi curiosi ed appassionati, domandate, ascoltate e lasciatevi guidare da lui in una appassionante scoperta della bassa, dei suoi superbi culatelli, del fantastico crudo, del Parmigiano e le sue stagionature, della sopraffina carne di cavallo, degli anolini, della Savarin…

…ma, fermatasi la giostra della memoria, emergono alcune imperfezioni. Non possiamo non considerare che siamo seduti ad una tavola da una sessantina di euro procapite, una cifra a causa della quale l’aspettativa inizia a farsi sostanziosa. Coerentemente alla tradizione, ed in questo caso è un purtroppo, la linea di demarcazione tra i notevoli antipasti e primi, e i secondi degustati, è davvero netta. Nulla di errato nella concezione o nell’esecuzione, ma il vero problema è il livello assolutamente inferiore delle proposte di secondi e dolci, ulteriormente appiattito dall’ottima qualità di tutte le portate che li anticipano.

Ma attenti a non farvi frenare da questo aspetto. E’ totalmente fuor di dubbio che, all’interno del simbolico triangolo Busseto-Soragna-Zibello, nomi fortemente evocativi per ogni appassionato, splenda una vera stella della ristorazione tradizionale della zona: d’Oro zecchino.

Il pane.

Iniziamo con uno Champagne consigliatoci da Marco, proveniente dalla cantina davvero smisurata. Divertente per qualsiasi tipologia di vino, è una tra le migliori a livello nazionale per disponibilità di bolle, italiane o francesi. Un consiglio, leggetela con tutta calma, un vero peccato sarebbe non dedicarle la giusta attenzione.

Terrina di foie gras d’oca, composta di mele e mandorle, gelèe di mela verde, emulsione di zucca e passion fruit.
Una partenza che ci lascia basiti, inizialmente straniti poi sorpresi in positivo. La terrina è eseguita impeccabilmente (nessuno dei due a tavola va a nozze con il foie, eppure è finito in un istante), e interessanti sono i bocconi in accompagnamento. La mano c’è anche al di fuori della bassa, dunque.

Scaglie di Parmigiano.

Il Culatello tipico di nostra selezione e lunga stagionatura.

Un crudo notevolissimo, oltre 60 mesi di stagionatura. E’ riuscito a farsi terminare prima del culatello.

In risposta al nostro apprezzamento per il crudo, ci viene servito il medesimo ma affettato sensibilmente più alto. Una meraviglia, nettamente meglio della fetta più sottile.

Sequenza di tartare: cavallo/sanato/chianina, cialde, pomodorini piccadilly rafano e schiuma di olio emulsionato.
Cavallo che spicca nettamente per qualità e riesce a mortificare le (comunque buone) altre due carni.

Al nostro apprezzamento per il cavallo (lezione: fate apprezzamenti a Marco! :-D) ci viene servita, in maniera decisamente “raw”, una fetta della carne usata per la tartare, rigorosamente cruda e semplicemente affettata. Memorabile…

…unica concessione, un filo d’olio.

Anolini della Bassa in doppio brodo ristretto del nostro bollito.
(vecchia tradizione solo pane e parmigiano)
Semplicemente, se così si può dire, buonissimi. Da averne a disposizione un piatto per ogni giornata di freddo e pioggia, vita natural durante.

Finita la bolla, continuiamo con una chicca pescata in carta, dopo attenta ricerca…

Il vero Savarin di riso…
(con lingua salmistrata e salsa classica in ricordo di Mirella e Peppino Cantarelli)
Un piatto simbolico anche solamente per le colonne a cui è dedicato. Rispetto ad altre visite passate, in cui ci era parso così così, ora è perfetto: mantecatura ricca e lingua morbidissima.

Nido di pappardelle al salamino fresco con fonduta di formaggi.
Indovinate un pò…?

Piccione alle due cotture, spuma di patate e rapa rossa cipollotto caramellato e infuso di melograno.
Oltre al piccione dichiaratamente (“…se lo presento rosso i miei clienti me lo tirano dietro!”) troppo cotto, impiattamento un pò dozzinale con i puré che, all’atto di tagliare la carne, vanno qua e là per il piatto, mischiandosi.

Suprema di faraona caramellata all’aceto balsamico, con sedano mele e ribes rosso.
Anche in questo caso l’eccessiva cottura, complice anche il sensibile spessore della faraona, è causa della consistenza -praticamente bollita- della carne.

Fondente al cioccolato con crostata di nocciole cruda e salsa vaniglia.
(Omaggio al ricordo di un grande chef, amico e maestro “Georges Cogny”)

Zuppa inglese con zabaione caldo, amaretti ai due modi, gabbia di zucchero filato.