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La Peca

La conferma dell’impronta

Su La Peca si è scritto tanto, di tutto, e a ragione. Attraversare tre decadi mantenendosi ai livelli di eccellenza di cui il ristorante si fregia è opera da fuoriclasse. Ma come ogni atleta che si rispetti, la qualità delle prestazioni è frutto di un costante allenamento, di un approccio mentale e fattuale che veda nel lavoro quotidiano il proprio punto di forza. Nella nostra visita abbia assaggiato in anteprima “il menù della Vigilia“. Proposta a base ittica, come nelle migliori delle tradizioni, L’idea poteva dar seguito ad accondiscendenze di sorta, frutto più del bisogno di onorare uno schema prestabilito anziché lanciarsi in una messa in opera innovativa. Nulla di più lontano da quello che abbiamo avuto il piacere di assaggiare. Perché l’intelligenza di Nicola Portinari e del suo staff, coadiuvato dall’impeccabile lavoro del fratello Pierluigi, in sala, consiste tanto nel confermare una riconoscibilità gustativa dai richiami classici, e dunque appetibile anche agli avventori neofiti, quanto nell’innestare sottili ma precise sperimentazioni che non stravolgono l’impianto generale ma lo arricchiscono.

Tra tradizione e innovazione

Prendiamo Boom di calamaretto, ricotta fermentata al finocchietto, dove il calamaro cacciarolo è ripieno delle proprie interiora, ricotta al finocchietto ad accompagnare: un mix suadente di dolcezza garantita dal ripieno, bilanciato da un lunga nota iodata del nero del calamaro con la freschezza del finocchietto a pulire e rilanciare al boccone successivo. Il tutto non dimenticando la morbidezza della ricotta a conferire una conferma della consistenza. Un piatto goloso, rotondo ed elegante. Quanto sopra, però, non ha impedito di innestare una portata a nostra giudizio squisita nella sua natura sperimentale: Crostacei al vapore, intingolo di mare al pompelmo e mela. Un piatto giocato su sapori intensi, non certo accomodanti, grazie all’intingolo dalla spiccata sapidità e verve speziata, apparentemente eccessiva ma atta a rilanciare nuovamente la nota iodata. Il tutto non dimenticando un gioco di consistenze con la croccantezza della mela capace di smorzare momentaneamente, con l’acidità, la lunghezza sapida per preparare al boccone successivo. Una portata intelligente, temeraria, abile a richiamare eco orientali senza disconoscere precise immediatezze tradizionali.

In chiusura, gran lavoro anche sul versante dolci con Mandorlato, oro e pere: gelato al mandorlato dalle intense note di miele, con fondo di pere a rilanciare la dolcezza, ammorbidendola, tenendo in considerazione la cialda on top, tanto regale nell’aspetto quanto friabile al morso. Un piatto estremamente elegante. Discorso non dissimile ci sentiamo di spenderlo per la Veneziana alle albicocche e rosmarino selvatico, dall’impasto ottimamente alveolato, a tratti evanescente nella delicatezza, con la farcitura del rosmarino a conferire un suadente e persistente retrogusto aromatico.

La Peca insiste e persiste nel proprio percorso di riconferma e sperimentazione, giocando sul confine sottile ma non scontato tra tradizione e innovazione, con la qualità che le è propria da anni e che continua a renderla una delle migliori tavole in Italia.

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L’impronta che da più di 30 anni illumina il panorama culinario italiano

Difficile immaginare realtà lungimiranti come La Peca. Da oltre 30 anni, l’apertura risale al 1987, il ristorante condotto dai fratelli PortinariNicola in cucina, Pierluigi in sala – è un faro luminoso e costante nel panorama gastronomico italiano e internazionale, e nella nostra visita abbiamo avuto conferma di quanto l’impronta (la peca, appunto) dei Portinari sia di livello elevatissimo.

Nicola propone un menù che, di portata in portata, evidenzia una maestria non meno che impressionante. Il percorso si presenta privo di indecisioni, rappresentando un modello da seguire in termini di competenza tecnica al servizio del commensale. Pierluigi, oltre a gestire con sapienza il reparto dolci, completa l’esperienza conducendo la sala con eleganza e discrezione, e garantendo di conseguenza un calore e un’accoglienza da tavola familiare. Perché quando si entra a La Peca si viene accolti e coccolati come si fosse in famiglia.

Ci si potrebbe chiedere quale sia il segreto del successo trentennale del locale. La risposta potrebbe risiedere in quanto appena scritto, ma non renderebbe giusto tributo a una tavola dalla profondità di pensiero davvero elevata.

Perché ogni piatto del nostro percorso ha dissimulato una complessità esecutiva sbalorditiva, la quale, travestita da immediatezza gustativa atta a giungere anche al palato meno allenato, ha nascosto un pensiero più articolato, che solo i grandi sanno gestire con tanta naturalezza.

Prendiamo lumache dormienti alla bourguignonne vegetale e broccolo fiolaro: piatto connaturato dal contrasto tra rotondità delle lumache e acidità della riduzione di melograno in accompagnamento, seguito dalla morbidezza delle carni e dalla croccantezza della foglia di broccolo. Già questo poteva bastare, ma vi si è unito un elemento in più: la parte bianca del radicchio in granella, servita previa congelazione tramite azoto, a fornire una profonda nota amaricante grazie allo shock termico col resto degli ingredienti. Risultato: una portata dalla carica gustativa sottile, intrigante e dalla lunghezza sorprendente.

Se il gioco sulle temperature ha acuito le potenzialità degli ingredienti – meritori di menzione anche i bigoli integrali con acciughe, alici marinate e gelato di cipolle rosse – non meno importante ne è risultato l’aspetto estetico.

La terra in inverno” ha infatti proposto i colori dell’inverno, prima dei sapori. Ne sottolineiamo l’importanza non certo per facili suggestioni, ma al netto del contesto: la sala dà sul paesaggio dei colli Berici, in questo periodo avvolto da sottili brume invernali. Rivolgendo lo sguardo al panorama, ogni boccone ha acquisito un senso diverso e più completo del territorio che la cucina stava omaggiando. Il tutto, è bene ribadirlo, senza dimenticare una riconoscibilità accessibile a ogni palato, ebbra di eleganza e intelligenza ma lontana da snobismi di sorta.

Pasta (Casarecce Fracasso) e fagioli di Lamon ne è stato un esempio fulgido: pasta integrale per fornire ruvidezza a ogni boccone, col fagiolo esaltato in tre versioni: cremosa, per garantire rotondità; solida, per garantire consistenza; croccante, per garantire gioco di contrasti. A questo, si è aggiunta la nota speziata dell’origano on top a fornire lunghezza. Un piatto accessibile a ogni palato, appunto, ma strutturato per rilanciare verso un’intelligenza compositiva tutt’altro che scontata.

In chiusura, giusto merito va riconosciuto alla giovane brigata, precisa e puntuale nell’accompagnare la degustazione, a completamento di un quadro già di per sé dalle tinte luminose.

La Peca si conferma dunque una delle grandi tavole italiane. E siamo certi la sua impronta continuerà giustamente a lasciare il segno sui palati dei suoi commensali.

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Tripudio d’inverno: estratto di un pranzo trimalcionico a La Peca

In una cruda e grigia giornata di inizio febbraio

Seduta al tavolo dell’accogliente e calda sala de La Peca di Lonigo, dopo una sequenza di portate pantagruelica e di alta levatura, mi viene presentato un piatto così declinato: lepre, fegato grasso, nespole al bitter e chips di verza.

La visione d’insieme mi regala immediatamente sensazioni molto piacevoli. Lo sguardo è rapito e attratto da una cromaticità variegata, straordinaria: si va dal rosso rubino della carne alla carrellata di tonalità del verde della verza, passando per l’ ocra – ruggine della composta di nespole al bitter.

Avvicino il viso al piatto per cercare un ritorno olfattivo e un’esplosione di sentori aromatici sale verso di me, esaltandone l’intensità: su tutto, i profumi speziati dati dal bitter di Baldo.

Accosto le mani al piatto e sento che la sua temperatura è calda: il giusto accorgimento per far sprigionare appieno i sapori.

La lepre, a vederla, è soda e compatta; al palato, il sapore è giustamente gustoso, avvolgente, nessuna nota selvatica: ciò che sto assaporando è il frutto di una sapiente frollatura e di una ricercata modalità di cottura, di brevissima durata e a temperatura assai bassa. Adagiata sulla carne, c’è una salsa civet dal timbro sì speziato, ma non invadente e, in bocca, si avverte una consistenza piacevolmente setosa.  Ancora, c’è un gioco serrato tra la componente acida della crema di nespole e quella aromatica del bitter. Di più, ci sono la dolcezza e la grassezza del fegato grasso, resa lieve perchè servito fresco, semplicemente salato, a dare morbidezza al piatto, sposandosi perfettamente alla magrezza della carne.

Su tutto, qua e là, con grande perizia estetica, delle chips di verza, rese croccanti e friabili affinchè pure l’udito abbia la sua felicità, donata dai suoni della masticazione.

Nell’ insieme, il piatto, pur nella sua complessità, presenta un equilibrio di rara fattura e, degustandolo, mi convinco, una volta ancora, che il cibo è gioia, divertimento, allegria, emozione, cultura, storia, soddisfazione. E merito immenso a un ristorante di cui veramente troppo poco si decantano i pregi : La Peca di Lonigo.

Vessillo zoomorfo di tutta l’alta cucina, specie di quella classica francese, la lepre è il grimaldello della consacrazione gastronomica di qualunque chef sin dai tempi di Archestrato da Gela che nella seconda metà del quarto secolo a.C. scriveva che: “Sono molti i  modi e i precetti per preparare una lepre, ma eccellente è mettere la lepre arrosto calda, condita di solo sale, in mezzo a commensali di buon appetito, con la carne ancora un po’ crudetta, strappata a forza (…).” Inopportune ed esagerate sarebbero tutte le altre preparazioni, sosteneva il poeta siceliota, sebbene in tanti, dopo di lui, l’avrebbero smentito.

Ecco le migliori versioni degli ultimi anni.

Nel ripieno delle paste

Massimiliano Alajmo, Le Calandre, Rubano (PD)

Presso uno dei migliori ristoranti d’Europa, paradiso non solo per gli appassionati ma anche per i profani, la lepre è, come tutto, del resto, uno dei motivi stagionali di Massimiliano Alajmo. Qui, la si ritrova ben avviluppata nel menù di novembre: autunnale per antonomasia.

Antonio Biafora, Hyle, San Giovanni in Fiore (CS)

Presso il piccolo gioiellino-giocattolo di Antonio Biafora, un ristorante bomboniera con poco più di una decina di coperti, lo chef si esprime in tutto il suo talento e la sua profondità, la stessa con cui ispezione il territorio, in una veste contemporanea. E l’obiettivo è ampiamente centrato e riuscito, con una cucina davvero sottile, elegante e moderna come questi agresti bottoni di lepre, borragine e succo d’albicocca: paradisiaci!

Cristophe Pelé, Le Clarence, Paris

Piccolo luogo di incanto, già sede di Château Haut-Brion, a Parigi, con una cave da fare invidia a molti. È qui che Cristophe svuota i frigo a ogni servizio, proponendo una cucina di totale e completa improvvisazione. Perché salse, fondi e tutte le basi dell’alta scuola classica francese sono preparate fresche ogni giorno, con un tocco impeccabile, partendo da quanto offre il mercato: in questo caso, solo il fondo della lepre a impreziosire un raviolo ripieno di funghi porcini su cui è assiso il fegato grasso d’oca. Chapeau!

Risotti

Davide Palluda, All’Enoteca, Canale

Da Davide Palluda il palato fa fatica a comprendere dove finisca la tradizione e inizi la modernità. I suoi sapori s’impongono alla coscienza perché importanti, decisi, centrali, complessi ma senza un ingrediente di troppo come nel riso, ginepro e lepre: un Carnaroli cotto in acqua, mantecato con burro, ginepro e aceto, servito al tavolo direttamente sul piatto dove è gia stato posizionato il ragù di lepre con un ristretto di barbabietola. Un piatto bellissimo, oltre che golosissimo.

Enrico Bartolini al Mudec, Milano

All’alba dei suoi quarant’anni, onusto di successi e riconoscimenti, Enrico Bartolini ha compiuto una scelta coraggiosa quanto inattesa: quella di reinterpretare i propri piatti più celebri, alla luce della contemporaneità. Kaiser Soze di questa rielaborazione, il riso e latte, dove alla salsa si melograno e al civet di lepre si aggiunge la pungenza del pepe verde, a rendere l’insieme incredibilmente multisfaccettato.

Tentazioni agresti: lepre e lumache

Giovanni, Restaurant Passerini, Paris

Giovanni Passerini, seppur quarantenne, è già un cuoco e un imprenditore maturo. Ha creato un luogo d’elezione, vicino alla Bastiglia, che è il regno dell’italianità più pura. Semplice, ma non per questo non ricercato, dove con puntiglio e maniacalità si ripropongono assiomi della cucina italiana, come questa insalata improvvisata di erbe aromatiche, lumache e cuore di lepre.

Massimo Bottura, Osteria Francescana, Modena

Un piatto che è in tutto e per tutto trompe-l’œil di un paesaggio, una suggestione, un ricordo, e che è vessillo di una maturità che corrisponde, nel caso di Massimo Bottura, all’interiorizzazione di una verità: quella di esistere nella relazione e nella comunione col mondo, di cui il piatto è tributo. Anche in questo caso lumache e lepre si uniscono, per dare vita a un paesaggio campestre.

Il famoso “civet” di lepre

Nicola Portinari, La Peca, Lonigo (VI) novembre e gennaio 2019

Era scontato che una preparazione tanto classica non poteva che trovarsi se non nella casa della grande, alta cucina del ristorante di “lusso”. Una caratteristica che, a La Peca, convive tuttavia con uno squisito senso di familiarità: la valorizzazione della “casa” e la capacità di far sentire qualunque cliente come avvolto in una nuvola di comfort. Il lusso spogliato della altezzosità e portato al livello della vera eleganza, come questo piatto, tanto elegante quanto succoso e disinvolto.

Cristophe Pelé, Le Clarence, Paris

Torniamo dunque a Le Clarence dove, nella stessa visita, Cristophe Pelé ha dedicato alla lepre alcune memorabili declinazioni, come in questa personalissima e affascinante preparazione, in cui gli sfilacci di lepre convivono con l’aragosta e con importanti lamelle di tartufo bianco. Una combinazione sublime, e nobilissima.

Tra Civet e Royale

Davide Oldani ne “Il Tinello”, Cornaredo (MI)

Non di rado, la grandeur sta nel mezzo e, in questo caso, nel punto di incontro tea il civet e la royale. E se il primo è un mla royale è, come vedremo, il punto più alto di realizzazione della lepre, in congiunzione con funghi, foie gras e tartufo nero pregiato: qui le due tecniche s’incontrano in una doppia declinazione, dove il colore è restituito nella sua più naturale essenza.

Christian Milone, Trattoria Zappatori, Pinerolo

La cucina di Christian Milone è dichiaratamente, profondamente legata alla terra; è una cucina dell’orto, di elementi vegetali, di sensazioni amare, acide, a volte terrose. Una cucina che, anche quando osa, mantiene una componente di concretezza e senso del gusto che non rende mai le preparazioni eteree o fini a sé stesse. Marcate note vegetali, freschezza, leggerezza, ma anche omaggi alla classicità d’Oltralpe nella sua lepre, a metà strada tra civet e royale visto che il fondo è tirato proprio con foie gras e tartufo nero.

À la royale

Cristophe Pelé, Le Clarence, Paris

Ancora una volta Pelé, dove la lepre alla royale acquisisce una piccola licenza sulla ricetta classica (1775), che qui vi riportiamo. La preparazione originale, a opera del cuoco di corte Marie-Antoine Carême, prevede una lepre disossata e marinata col Cognac. Per la farcia vengono usati i tartufi neri del Périgord, insieme ad altri funghi, come le trombette dei morti, il lardo tagliato sottile e a cubetti. Il fegato e il cuore vengono spadellati con burro e scalogno, e deglassati col Cognac per poi essere aggiunti alla farcia della lepre stessa. Completano il ripieno blocchi interi di foie gras  di anatra, distesi lungo l’intera superficie dell’animale. Con ago e spago la lepre viene chiusa e ricucita. Segue una marinatura nel vino insieme alle spezie, per circa 6 ore, fino al momento in cui viene infornata e cotta a temperatura molto bassa. Viene servita tiepida, cosparsa con il fondo di cottura ridotto della lepre, ottenuto dalla carcassa arrostita e deglassata più volte con il Porto. Ecco, non pago a tutto questo Pelé aggiunge, sulla sommità, un cubetto di anguilla caramellata.

Luigi Taglienti, Lume, Milano 

Da Luigi Taglienti la chiusura della parte salata del menu viene affidata a un’icona della cucina borghese transalpina, presentata in chiave moderna. La sua lièvre à la royale viene farcita con foie gras, tartufo, rognone e nappata con la sua salsa di cottura, legata fuori fuoco, e servita con patate noisette e uno spinacino di fiume.  Sontuosità ai massimi livelli.

Antonio Guida, Seta, Milano

Apparentemente semplice, direte voi, la strada verso la classicità. Niente di più falso, se è vero com’è vero ch’essa è lastricata di difficoltà, non ultimo il paragone indefesso coi giganti della cucina. Stavolta, tuttavia, la lièvre à la royale di Antonio Guida è ancora più intensa e vibrante, nonché vessillo di una cucinapiù gagnairiana che mai, con tanto di capriccio: la ruota di pasta di Gragnano, a indicare le origini dello chef.

Gian Piero Vivalda, Antica Corona Reale, Cervere (CN) coming soon

Una delle migliori royale dell’anno, qui veramente realizzato a regola d’arte. Equilibrio perfetto tra farcia e carne, salsa da manuale tirata col sangue, come vuole la tradizione, morbidezza e tenerezza filologicamente rispettate, ma con una turgidità delle carni che non ne smaterializza la consistenza, anche se la tradizione lo vorrebbe.

Eugenio Boer, Bu:r, Milano

Una cucina con una timbrica classica davvero importante, quella di Eugenio Boer, che corona in questa splendida royale di lepre, ingentilita e rinfrescata dalla provvidenziale riduzione di vino e di visciole. Un piatto in cui salse, fondi, riduzioni, concentrazioni e dove l’uso, imperioso, delle componenti lipidiche, corona un piatto dai sapori molto precisi e definiti.

Braci, salmì & co.

Massimiliano Poggi, Trebbo (BO)

Il goloso filetto di lepre al pepe verde rappresenta per Massimiliano Poggi l’occasione di una rivisitazione importante, nonché la realizzazione di una salsa che ci ha costretto alla scarpetta: una demi-glace molto persistente che strizza l’occhio alla scuola francese, a conferma di quanto le basi siano, qui, decisamente solide.

Gianluca Gorini, Da Gorini, San Piero in Bagno (FC)

Menzione d’onore per la lepre, mandarino, estratto di ginepro e timo cedrino di Gianluca Gorini: una materia prima quasi indescrivibile (la scioglievolezza di questa carne va toccata con mano per essere creduta) e una perizia nella gestione di equilibri gustativi (ematicità, balsamicità, acidità) e strutturali, da vero fuoriclasse.

Mauro Uliassi, Uliassi, Senigallia (AN)

La Lepre in salmì con croccante di carbonella (oliva nera marchigiana) sfoggia, oltre a una materia prima strepitosa, una maestria assoluta nella gestione degli equilibri interni, con una salsa di un’eleganza e di una leggerezza sopraffina, cui il tocco “marchigiano” conferisce vivacità texturale e gustativa. I piatti di cacciagione non fanno altro che confermare la grande mano di Mauro Uliassi anche su questo versante, dove le grandi preparazioni classiche diventano letture attualizzate e alleggerite, appropriate anche durante le torride estati marchigiane.

Trittici iberici

Mateu Casañas, Oriol Castro ed Eduard Xatruch, Disfrutar, Barcellona

In soli quattro anni questo ristorante si è imposto sulla scena gastronomica mondiale vantando uno dei pedigree più creativi. Disfrutar è un ristorante al contempo magico e informale, in cui rimanere semplicemente e felicemente estasiati a ogni assaggio, tra effetti speciali mai fini a se stessi, momenti divertenti ma anche didattici, che generano l’equazione perfetta della felicità.

E il trittico di lepre che segue ne è la dimostrazione:

 

Il grande ristorante italiano

Pochi luoghi al mondo restituiscono la sensazione del tempo. Il tempo passato, quello presente e quello futuro, talvolta s’incontrano restituendo un’instantanea vividissima di quella cosa mistica e terrena che è, semplicemente, la vita. Questo, è uno di quei luoghi.

Un’architettura molto classica se vista dall’esterno; dall’interno, una casa estremamente contemporanea, abitata da elementi di design che prediligono le linee morbide a quelle spezzate e un discreto avvenirismo, quello di tecnologie studiate appositamente per preservare e conservare il piacere dei sensi, evidente tanto nel fumoir all’ingresso quanto nella sala, col suo discreto eppur inesorabile affaccio sui Colli Berici.

La Peca sarà forse anche cambiata, nel tempo, ma è cambiata dimostrando una coerenza verso se stessa, in una parola, un’integrità, che ha pochi uguali nel panorama identitario dei grandi ristoranti della contemporaneità. Merito, anche, di Luigi Portinari, uomo di sala capace di trasformare il servizio in una forma d’arte capace come poche di leggere i tanti livelli che affollano l’esperienza sensibile tanto che piatto, commensale e abbinamento diventano qui elementi di una pièce concepita dalla stessa ratio, dallo stesso genio, quello, famigliare, dei Portinari.

È dunque a Nicola Portinari che si deve un menù in cui l’Italia è sia musa che deus (dea) ex machina: una divinità totipotente e onnisciente che si permette infiniti giri intorno al mondo, infinite divagazioni e finanche depistaggi, ma parla sempre di se stessa, e per se stessa, interpolando i confini della verdura e della carne, della frutta e del pesce, annientando come detto i confini, soprattutto quelli geografici, dimostrandosi sì creativa ma sempre codificabile, famigliare, materna. E curatissima in ogni dettaglio.

Dalle straordinarie, croccanti carni di cozza e ostrica, sdrammatizzata e anzi elevata sin quasi alla sublimazione la prima dal concentrato di cetriolo, alla crema di marasche e cardamomo che trasforma la salinità dell’ostrica in umami puro. Passando, poi, per la tagliatella e per l’impareggiabile risotto al chipotle con gamberi, marasche e curry, chiusura del cerchio e anzi pacificazione di due spinte uguali ma contrarie: quella tra la cultura materiale locale veneta e la scuola della cucina internazionale.

È in questo, e in altri piatti come, per esempio, l’impeccabile anguilla alla brace, fungo Shiitake, teryaki e daikon piccante, che si corona l’essenza di quello che è, e sempre sarà, uno dei grandi ristoranti dell’Italia presente, passata e futura.

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