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Nerua

Una perfetta sintesi dell’affascinante complessità basca

I Paesi Baschi sono una meta di gran fascino per un appassionato di gastronomia, anche – o soprattutto – grazie a quell’apparente contraddizione che ne anima la cucina, in perenne tensione tra culto della tradizione – oltreché natura e materia -, da una parte, e avanguardia, dall’altra. Quest’animo “duale” si declina anche in altri ambiti: basti pensare a Bilbao, dove a pochi passi dalla città vecchia ci si può imbattere nel museo Guggenheim progettato da Frank Gehry, un edificio che sembra essere stato calato dall’alto sulla città e provenire dal futuro. Un capolavoro architettonico che ha proiettato una città in forte crisi verso un nuovo avvenire, senza tuttavia snaturarne l’anima. Allo stesso modo, in una sorta di parallelismo, ci si rende inevitabilmente conto di come la cosiddetta “avanguardia spagnola” – che in queste zone vede esempi leggendari, quali Mugaritz e Martín Berasategui, tra gli altri – non si sostanzi affatto in una rottura rispetto alla triade tradizione-natura-materia, quanto, piuttosto, in una riflessione e valorizzazione di queste ultime e, nel contempo, in una via di fuga da derive autoreferenziali, preludio all’anacronismo. In questa prospettiva, non sorprende che proprio all’interno del sopracitato museo si trovi un ristorante, Nerua, guidato da Josean Alija, uno dei più importanti cuochi spagnoli – tra i meno “visibili” ma più celebrati dai colleghi -, la cui cucina è capace come poche altre di distillare una tale complessità.

Muina, ovverosia l’essenza

Il ristorante propone un unico menù degustazione chiamato “Muina”- un termine basco che si riferisce al nucleo, all’essenza delle cose -, dal prezzo ammirevole, che ben illustra la concezione gastronomica dello Chef e ben si predispone a venire integrato con aggiunte alla carta, espressamente incoraggiate: l’idea è quella di fornire una base solida da arricchire secondo le proprie inclinazioni, una soluzione adottata nel periodo post-pandemico e rivelatasi vincente. La cucina di Josean Alija è essenziale – che non significa semplice -, tecnica, materica, evocativa e caratterizzata dall’utilizzo di pochi ingredienti in ciascun piatto. Un primo passaggio dall’eleganza disarmante è Carciofi, tapenade di olive nere, salsa di porro e latte di mandorla, giocato sull’intreccio tra differenti dolcezze, a fronte delle quali l’oliva funge da contrappunto. L’eco della tradizione è ben visibile, poi, in Peperone Apurtuarte, merluzzo e salsa  pil pil – un evidente riferimento al Baccalà con Piperrada (un piatto tipico basco) sublimato, in cui le consistenze vengono capovolte rispetto all’originale – nonché in Cipolla rossa di Zalla, lenticchie e ghiandole salivari di maiale, altro piatto basco – ma anche un po’ veneziano – che perde ogni gravezza per trasformarsi in pura, imprevedibile, grazia. L’importanza della testura – un’ossessione da queste parti – e l’esaltazione della materia sono invece ben percepibili in Cetriolo di mare alla brace e nero di seppia: lo schiaffo di un’onda, ben assestato. Una menzione merita, da ultimo, Spigola, spinaci e rabarbaro: una cottura impeccabile e un meraviglioso palleggio tra le due componenti vegetali. Il percorso si chiude con Avocado in crema, gelato di fieno greco, olive nere e caffè: un dessert – il punto debole della precedente visita – davvero molto interessante, ben riuscito, che vuole ricordare un tiramisù – riuscendovi – attraverso l’utilizzo di ingredienti, all’apparenza, difficilmente conciliabili.

Nerua si conferma una tappa imprescindibile per chiunque voglia comprendere l’essenza della cucina basca, da preferire ad altre insegne più blasonate. In questa prospettiva, il mezzo punto in meno rispetto alla precedente visita non vuole evidenziare un momento di flessione quanto, piuttosto, una fase di stasi e, quindi, fungere da sprone affinché Nerua compia quell’ultimo, piccolo, passo che ne sancisca la definitiva consacrazione.

La Galleria Fotografica:

Non accontentarsi mai è la chiave del successo

“Se è lecito rimandare con l’immaginazione agli albori dell’esistenza del genere umano, sarà altrettanto lecito supporre che le prime sensazioni siano state soltanto dirette, ossia che si sia visto senza precisione, udito confusamente, percepito gli odori senza scegliere, mangiato senza assaporare, goduto con brutalità. Ma poiché tutte queste sensazioni avevano il loro centro comune nell’anima, attributo specifico della specie umana e causa sempre attiva di perfettibilità, esse vi si sono riflettute, sono state paragonate e giudicate, e ben presto tutti i sensi si sono mossi gli uni al soccorso degli altri in nome dell’utilità e del benessere dell’io sensitivo, ovvero dell’individuo”.

(Jean Anthelme Brillat-Savarin, 1825, “Fisiologia del gusto”)

A quasi 200 anni di distanza, Josean Alija, chef del ristorante Nerua, si propone come artefice prescelto delle parole scritte dal più importante gastronomo della storia.

Oggi la cucina di Alija rappresenta la compiutezza del minimalismo, un tuffo nella piscina dei sapori, un concentrato di ricerca tecnica e intellettuale, la dimostrazione che si possa fare di più con meno. La cibernetica creativa di Alija sembra procedere passo dopo passo, con incedere lento ma inesorabile. Il traguardo è posto oltre la linea dell’orizzonte e cerca di essere raggiunto con la semplicità d’animo e la spontaneità di chi è consapevole di ciò che è e di ciò che fa.

Tutto questo contestualizza lo chef all’interno dell’involucro che lo contiene affiancandolo ai più grandi artisti di opere contemporanee. Riconoscibile da distanza siderale, fa ruotare ogni passaggio attorno a un brodo, a una salsa o a una spuma, caratteristici per la loro profondità. Ciò rappresenta il centro dell’opera che detta il ritmo palatale durante la degustazione, che accompagna l’ospite al suo interno tenendolo per mano, che gli permette di distinguersi, acuendo la propria identità senza mai intimorire. È un lavoro finissimo, che richiede una sensibilità concessa solo a pochi eletti. Attorno a questo centro, ruotano uno o due elementi, sempre comprimari. La loro funzione può essere mutevole, spaziando dalla reiterazione di un elemento sotto forma di diversa consistenza a un omaggio al prodotto o al produttore, e diventando l’orpello necessario per poter fruire completamente della complessità del piatto.

Nel loro complesso, i piatti della degustazione, rappresentano un movimento e formano un’identità, che crea un tutt’uno con il loro artefice, esaltando in ordine vista, olfatto, gusto e tatto.

Sinestesie palatali, quando i sapori prendono colore 

Questo lavoro di sintesi si manifesta con il tratto semplice del fuoriclasse, che riesce a stravolgere il tradizionale modo di intendere la tavola nel suo complesso. Un’ode alla gioia, all’importanza della leggerezza, una dichiarazione d’amore nei confronti della vita. Pomodorini, erbe aromatiche e fondo di capperi è il risultato cromatico di un’esperienza gustativa trascendentale: il brodo di capperi tiene le redini delle diverse acidità colorate che esplodono in bocca un pomodorino alla volta, dando vita a una scala di colori al servizio del palato. Consommé di gamberi, nata de coco e curry alza ancora l’asticella, della difficoltà per lo chef e del godimento per i clienti. La dolcezza del consommé sorregge egregiamente la nota speziata del curry, mentre la consistenza viscido/gommosa della “madre” della nata de coco sprigiona una frizzante acidità con pulsioni piccanti, che si apre e si chiude in perfetta sincronia con la meccanica mandibolare.

Potremmo andare avanti a raccontarvi tutti gli altri piatti con un profluvio di elogi, ma preferiamo chiudere sottolineando un’altra dote che lo chef può vantare: l’empatia, una caratteristica fondamentale per poter creare una squadra serena e affiatata. La testimonianza di ciò è il servizio di sala guidato dalla perfetta Stefania Giordano, che coordina un gruppo giovane ed entusiasta in grado di tenere testa all’esuberanza della cucina, con un paring centrato e mai banale, a base di vini e/o succhi di frutta.

Evviva Josean Alija, evviva Nerua!

La galleria fotografica:

Bilbao ti inghiottisce. Entrando nella città basca dall’autostrada, si viene avvolti da un vortice circolare dal quale non ci si riesce a liberare. All’ombra dell’energia luccicante delle curve morbide d’acciaio del Guggenheim Museum, la città sembra rivolgersi a questo capolavoro architettonico in una forma ossequiosa, intravvedendo nella sua ammirazione statica una possibile forma di redenzione. L’obiettivo è il miglioramento ed il mantenimento delle vie, dei palazzi, dei parchi, che correndo accanto al fiume si specchiano sui riflessi pallidi del cielo plumbeo.

È inevitabile dunque rimanere attoniti di fronte a tanta potenza, ad una energia contagiosa, da venerare come fosse una religione.
Josean Alija è prima di tutto un uomo sensibile, romantico ed entusiasta. In secondo luogo, un grande chef.
La sua sensibilità e l’attitudine all’arte culinaria non potevano che trovare sfogo proprio all’interno di questo tempio dell’arte.
Buenos dias” è il coro che proviene dalla brigata di cucina all’ingresso di ogni avventore.

Lì, nuda dirimpetto all’entrata del ristorante, introduce il cliente al mondo creato da Alija, in cui il sincronismo e la collettività sono i caratteri necessari per raccontare memorie ed esperienze di vita vissuta in chiave ludica. L’approccio diretto non trova soluzione di continuità durante tutto l’arco del viaggio gastronomico, mentre la sala spoglia, candida, leggermente movimentata dalla disposizione dei tavoli rotondi, scopre il suo alter ego in un servizio total black spigliato ed energico.
L’obiettivo è subito chiaro. Come in un liquido, il cliente viene immerso in una piacevole atmosfera che lo induce a rendersi inerme e disinteressato del mondo che lo circonda, concentrando le sue attenzioni solo su quanto stia accadendo al tavolo. Nulla di particolarmente sofisticato, nessun contorsionismo celebrale, solo una passeggiata all’interno del gusto made in Spain, focalizzato su usi e costumi baschi ma che non disdegna affatto le tradizioni culinarie del sud.

La sublimazione del gusto di ogni singolo ingrediente rende questa cucina inconfondibile nei suoi tratti. In maniera apparentemente semplice, lo chef si propone andando ad approfondire l’essenzialità degli ingredienti. Lo fa attraverso un minuzioso gioco cromatico, seguendo un’evoluzione palatale coerente con quanto proposto, lavorando più per sottrazione che per addizione. La sintesi perfetta della sua filosofia di cucina si riscontra nei brodi, nei fondi e negli estratti straordinariamente e stranamente consistenti, quasi viscosi, in grado di acuire l’essenzialità della preparazione andando a vestirla di un abito semplice ma di immensa eleganza. Emblematico esempio ne è “fagioli bianchi con brodo vegetale”, piatto che accarezza l’espressione massima del fagiolo, della sua consistenza, del rispetto assoluto per le sue tonalità. Il brodo vegetale accoglie e unisce con rispetto tutto ciò che lo chef voleva comunicare, andando però, senza mai rendersi eccessivo, ad allungare e amplificare gli umori del legume.

Nonostante la maniacale ricerca della perfezione, la cucina di Nerua non impegna psicologicamente e non affatica palatalmente. Il ritmo del servizio tiene alta la guardia dei commensali, sulla falsariga di quell’energia percepita passeggiando per la città. La proverbiale leggerezza delle preparazioni educa e prepara all’avvicendarsi delle portate, mentre le pareti del Guggenheim che si scorgono dalla sala accompagnano la nuance delicata e pura della cucina di Alija.

È una cucina sorridente quella di Nerua, che con la semplicità di un bimbo regala tocchi di finissima percezione che però emozionano proprio per la loro natura spontanea.

La mise en place.

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Il pane. Ottimo.

pane, Nerua, Chef Josean Alija, Bilbao, Spagna

Contemporaneamente all’inizio della degustazione comincia anche l’abbinamento dei vini correlato. Il pairing si rivela particolarmente interessante, anche grazie all’innesto di qualche bevanda analcolica. Davvero un bel lavoro.

vino, Nerua, Chef Josean Alija, Bilbao, Spagna

Pomodorini, erbe aromatiche e fondo di capperi. Piatto profondissimo e delicato. Ogni pomodoro presenta un grado di acidità leggermente diverso. Il fondo di capperi è il preludio alla maestria dello chef alle prese con i liquidi.

pomodorini, Nerua, Chef Josean Alija, Bilbao, Spagna

Dal rosso al verde. Asparagi, avocado, rucola e clorofilla.

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Tartare di branzino con caviale Asetra Imperial. Grande passaggio. La tartare leggermente tiepida lascia esprimere appieno il saké con cui è condita e i suoi aromi. La spinta iodata del caviale completa il tutto.

tartare di branzino, Nerua, Chef Josean Alija, Bilbao, Spagna

Arrivano due tipi di Jerez differenti da abbinare ad una sola preparazione. Gioco didattico per cogliere le differenze tra un abbinamento e l’altro.

jerez, Nerua, Chef Josean Alija, Bilbao, Spagna

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Rapa bianca, Parmigiano e Jamon Iberico. Il ricordo di una carbonara. Il piatto meno riuscito del pranzo. L’essere italiani in questo caso forse non aiuta.

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Ecco il primo abbinamento analcolico.

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Supportato da uno alcolico.

Nerua, Chef Josean Alija, Bilbao, Spagna

Scampo, fiori di zucca, curry e menta. Il mare e l’orto in un sol boccone. Materia prima eccellente.

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Gamberetti, taccole e pesca. Primo omaggio all’Andalusia. I gamberetti cotti sulla brace di quercia si armonizzano con i sentori dolci della pesca. Piatto fresco e ben riuscito.

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Gambero di fiume soffritto e pil-pil. Piatto da ko: goloso, speziato, profondo ed evocativo. Un racconto di un ricordo dell’infanzia dello chef che non ci appartiene, ma che arriva con straordinaria intensità.

gambero di fiume, Nerua, Chef Josean Alija, Bilbao, Spagna

Cuore di tonno con olive nere di Aragon. L’aperitivo andaluso riproposto in chiave gourmet.

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Acciuga fritta, crema d’avena e salvia.

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Astice con fondo di erbe aromatiche. Altro fondo e altra emozione.

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Fagioli bianchi con brodo vegetale. Straordinario.

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Scalogno in salsa nera. Molto divertente. La consistenza dello scalogno ricorda quella di un calamaro.

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Calamaretto, cipolla rossa e fondo di piselli. Piatto che completa il precedente, con la presenza del calamaretto prima solo immaginato…

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Kokotxa di merluzzo al pil-pil di peperone verde. La storia delle gastronomia basca sintetizzata in un piatto.

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Ventresca di bonito, crema di cipolline e aglio. Piatto totale. Goloso e e finissimo allo stesso tempo.

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Nasello fritto con fili di peperone “choricero”. Un altro classico della cucina basca. Molto bene.

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Guancia d’agnello, cavolfiore e manzanilla.

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Quaglia, purè di patate, mandorla ed estratto di grano.

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Fragole, mela e gelato di fieno greco.

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Nerua, Chef Josean Alija, Bilbao, Spagna

Fico, menta e latte dell’albero di fico gelato.

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Bollo de Matequilla.

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La piccola pasticceria.

Piccola Pasticceria, Nerua, Chef Josean Alija, Bilbao, Spagna, Guggenheim Museum

La cucina a vista in entrata del ristorante.

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Nerua, Chef Josean Alija, Bilbao, Spagna, Guggenheim Museum

I congressi sono come i calabroni: non dovrebbero eppure continuano a volare. A dispetto dei calcoli degli entomologi sull’apertura alare, il loro ronzio ogni tanto riesce persino a ficcare il pungiglione nel cuore vivo della contemporaneità. Provocando choc non solo anafilattici, che rimettono in discussione assetti dati comunemente per scontati. Ce l’ha fatta, almeno in parte, Gastronomika 2013, che a San Sebastian in questo mese di ottobre ha inquadrato con taglio a dir poco inusuale il panorama gastronomico internazionale. Dalla messa a fuoco sono stati infatti esclusi i paesi del nord Europa, ma non è andata molto meglio al continente americano, che ha visto il solo Acurio sul palco. Forse per sfatare il cliché di una cucina irrimediabilmente nomizzata, aureolata di una corona di fiori ed erbe spontanee nella scampagnata georgica dalle Ande alla tundra, giù giù fino alle foreste australiane. Quella forse ha già preso residenza in qualche evento più o meno clandestino (ma l’anno prossimo sarà la volta dell’Italia, presente quest’anno con Gennaro Esposito).

Focus su Londra, allora, e sulla sua cucina metropolitana, che significa Heston Blumenthal (un po’ stanco sul palco, alle prese con il filo da lui stesso tranciato del food pairing, complessificato dalla volatilità e dagli ingredienti ponte) e soprattutto tanta, tantissima fusion. Talvolta di enorme interesse, come nel caso del giapponese Junya Yamasaki del ristorante Koya, che ha illustrato sul palco passo dopo passo la complessa preparazione di un piatto tradizionale giapponese, il calamaro fermentato nel suo fegato (ikano shiokara), bomba vischiosa che adopera anche per condire, al posto delle acciughe, o preparare la maionese. “Sulle montagne i vecchi usavano fermentare in questo modo, con le sue interiora, anche la selvaggina, che così si conserva per sempre: sto attualmente investigando questi procedimenti nel tentativo di riproporli”.

E anche un’altra tecnica conserviera di matrice asiatica ha avuto la sua celebrazione sul palco: l’essiccazione, soprattutto dei prodotti ittici. Quasi che tramontato il sole della lunga estate spagnola, la cucina avesse messo mano alle dispense dei vasetti senza tempo per superare il grande freddo dell’immaginazione. Ad aprirli sono stati due “outsider” di razza. Corey Lee, chef coreano che per 8 anni ha affiancato Thomas Keller alla French Laundry, oggi al Banu di San Francisco, e Nuno Mendes del Viajante di Londra. Davvero eccellente la ponencia del primo, che continua ad attingere suggestioni dalla cucina quotidiana della madrepatria, incollandone i frammenti con l’oro di una tecnica francesizzante, quasi fosse una ceramica crepata e nobilitata dal kintsugi. L’essiccazione gli serve per variare la tavolozza delle testure nel senso, modernissimo, del gelatinoso e del gommoso (è il caso dell’orecchia di mare e dell’oloturia, essiccata, reidratata, farcita come la ballotine di un MOF); ma è anche simulata con mossa di flamenco nella zuppa di finta pinna di pescecane, trompe-l’oeil obbligato dalla messa al bando dell’ingrediente originario. “Sono prodotti da valorizzare nelle loro differenze dal fresco: stanno al pesce come l’uva sta al vino o il prosciutto al maiale”, ha spiegato.

Anche lo chef portoghese è voluto transitare per il ciclo delle metamorfosi, a lui congeniali grazie alla familiarità col baccalà. A sua somiglianza, la superba capasanta britannica viene marinata, disidratata e nuovamente marinata con il brodo delle barbe, sempre per ragioni di testura; mentre il “dashi” è preparato con il baccalà vero e proprio. Un accanimento impensabile fino a pochi anni orsono, che tuttavia non invade il perimetro dell’autonomia dell’ingrediente, regista e cuoco di se stesso.

Folate cariche di spore che non sembrano aver lambito la Spagna, dove gli chef continuano a fare finta di niente. Quique Dacosta come Dani Garcia e Pedro Subijana, Martin Berasategui e Juan Mari Arzak, inceppati nel tartagliamento dei trompe-l’oeil più improbabili. Con le solite eccezioni di Angel Leon, che dal mare trae non solo plancton, ma oggi anche zuccheri e peperoncini; Josean Alija, sempre più elegante ed epurato; Joan Roca, che tuttavia cerca l’innovazione lontano dal pass, nella creazione di un’opera d’arte totale chiamata Somni con l’artista visivo Franc Aleu. Mentre Andoni Luis Aduriz, che ha dedicato il suo intervento alla “rete neuronale delle idee” sottesa al balzo della creatività, forgia come un ingegnere venusiano i suoi UFO (Unidentified Food Object), esperimenti sul limitare stesso della cucina e del gusto. Spesso evanescenti come una fata morgana che si dilegua nella bocca (ieri le pompas, oggi le scaglie di ghiaccio al sugo di gamberi rossi), quasi un monito sull’obsolescenza programmata della cucina d’avanguardia.

L’impressione è che dopo un decennio a forma di freccia, monodirezionale e dromocratico dietro la punta sibilante di Ferran Adrià, la cucina abbia imboccato percorsi plurali e paralleli, dove a spuntarla è chi possiede un universo di sapori propri. Un po’ come è accaduto dopo lo spegnimento dell’incendio avanguardista, quando Michelangelo Pistoletto scriveva: “Per me non ci sono forme più o meno attuali, tutte le forme sono disponibili, tutti i materiali, tutte le idee e tutti i mezzi. Il cammino dei passi di fianco porta fuori dal sistema che va diritto… Procedendo di fianco, la corsa fra gli individui diventa parallela, perché ogni individuo procede individualmente senza proiettarsi fuori di sé né in punti astratti né sugli altri. In questo cammino non ci sono i più bravi e i meno bravi, perché ognuno è quello che è e fa quello che fa; nessuno ha bisogno di fingere per mostrarsi migliore e diventa facilissimo comunicare senza strutture di linguaggio perché è facile capire di ognuno chi è e come è”.

Tre istantanee di una cena da Andoni, al Mugaritz:

Toast affumicato, 100% astice.

Erbe fritte dell’orto con aromi stridenti (shiso e cannella).

Carote con i loro fiori.