Zaiyu Hasegawa è uno chef coraggioso. Non è né facile né comune, in Giappone, proporsi come innovatori della tradizione, e l’attenzione al ben fatto più che all’originale è innata in una clientela cui non manca di certo la possibilità di mangiare bene o benissimo.
Proporre, quindi, come fa lui un vero e proprio kaiseki contemporaneo, in cui sono introdotti elementi ludici e “pop” in un percorso tracciato da secoli di tradizione, è un’impresa rischiosa.
Fortunatamente, la scommessa è stata vinta perché poggia su basi solide e oggi trovare posto al Jimbocho Den è una delle imprese più complicate per il turista gourmet, complice oltretutto un conto meno stellare che in altre tavole di successo nella capitale.
La cornice è meno paludata rispetto ai grandi kaiseki classici: cucina a vista, ma meno ovattata del solito e –anatema- ben due donne oltre allo chef de cuisine e agli altri maschietti, una delle quali nel ruolo di sous chef. Anche gli avventori sono meno silenziosi del solito, contenti, divertiti dalle proposte talvolta spiazzanti del menù.
A ben guardare, però, il rispetto dei cardini della tradizione c’è tutto: stagionalità, ingredienti locali di gran pregio ricercati con cura maniacale, anche la sequenza dei piatti coerente con la tradizione fino al formidabile riso che precede i dessert. L’innovazione è tutta nella confezione, in alcuni trompe l’oeil che giocano con le cucine “altre” o con presentazioni inattese, per prendersi un po’ meno sul serio. Sinceramente, fosse solo per questo Den non spiccherebbe rispetto a ben più sfidanti provocazioni cui noi occidentali siamo abituati in cucina, ma fortunatamente c’è sostanza, c’è grande capacità tecnica, ci sono materie prime di livello eccelso che giustificano la visita.
Paradossalmente, quindi, il piatto più memorabile è un clamoroso spanish mackerel dalla texture di velluto, contrappuntato da un wasabi d’impareggiabile freschezza (maniacale la cura nel mescolare le parti grattugiate all’estremità e al centro della radice fino a bilanciarne le diverse caratteristiche per il risultato perfetto; lo chef assaggia e riprova infinite volte prima di essere soddisfatto).
Una nota a parte per i dolci: in cucina lavora un pasticcere francese ed entrambe le proposte, all’insegna del giocoso, sono davvero di ottimo livello: una rilettura “campestre” del tiramisù e un “caffè” in stile Den che possiamo annoverare tra le migliori esperienze recenti di dessert nella ristorazione.
Servizio molto presente ed entusiasta di raccontare i piatti in un inglese fluente (con un accento molto locale a cui ci si abitua presto); un ulteriore segnale della voglia di guardare al di fuori dai confini nazionali testimoniata anche dalla presenza dello chef a iniziative congiunte con colleghi di altri paesi.
Forse non LA tappa da non mancare oggi a Tokyo come speravamo, ma di sicuro una visita interessante e consigliabile.
Personalissima versione del “monaka” come benvenuto: ma anziché la pasta di azuki, nel ripieno c’è foie gras con miso, albicocca e cetriolo sott’aceto. Un gioco molto divertente con la tradizione, riuscitissimo anche nel gusto e nei giochi di consistenze del ripieno.
L’interessante saké in versione “sparkling” proposto in abbinamento.
Il brodo di tartaruga, con verdure e zenzero in coreografica presentazione. Buonissimo, leggero e corroborante.
Il Dentucky Fried Chichen: piatto simbolo, famosissimo è un pollo fritto ripieno di fagioli e carne dello stesso pollo, pare ispirato a un piatto brasiliano. Forse il passaggio meno convincente della serata, viste le aspettative.
Lo splendido spanish mackerel: indimenticabile, da fondo scala.
Maiale con cavoli e mais, impeccabile.
Spettacolare insalata di verdure cotte e crude.
Pregiatissima “neonata” che accompagna il riso finale, come da tradizione servito con “pickles” di pregevolissima fattura.
Il primo dessert: “muschio” realizzato con una mousse di formaggio ricoperta da té verde, té nero e foglie di té nero. Una pregevole rilettura del tiramisù in chiave nipponica.
Star comebacks: un pudding di crema e zucchero di canna cotto 8 ore fino a farne uno spesso caramello, a cui viene aggiunto tartufo nero. Un caffé ricostruito in versione dessert, di magnifica persistenza. Il gioco di parole, oltre ad alludere alla famosa catena americana, è relativo all’auspicio dello chef di recuperare la stella perduta.