“Le cose sono più buone quando si bevono e si mangiano nel luogo da cui provengono, questo è naturale, però il fatto che i sapori restino legati al corpo come ricordi ha dell’incredibile”
(Banana Yoshimoto – “Un viaggio chiamato vita”)
L’importanza di onorare i sapori autentici, anche di una cultura distante e complessa.
Rintracciare rigore tecnico, varietà dell’offerta e impiego di ingredienti etnici, fedeli alla tradizione nipponica, non è mai stato facile nella Capitale.
Anche in validi indirizzi giapponesi, assecondando di default i gusti “romani”, si tende ad inseguire un’indotta contaminazione occidentale, che non rende merito alla profondità gastronomica del Sol Levante.
Maurizio Di Stefano, insieme alla moglie Miwako, è riuscito nell’impresa, confezionando un format tanto folkloristico quanto coerente e centrato in ogni aspetto. Il primo Waraku, aperto all’interno di una palestra in una via decentrata dalla movida del Pigneto, ha riscosso un successo clamoroso sulla piazza romana, guadagnandosi uno status di luogo di culto e costringendo gli appassionati a prenotare con largo anticipo ad ogni visita. La formula vincente prevedeva schiettezza, semplicità, rispetto cultural-gastronomico e soprattutto un’offerta che metteva al bando sushi, sashimi o tempura, concedendo il ruolo di protagonista alla cucina “casalinga” di una vera trattoria giapponese.
La richiesta impellente, sommata ai coperti ridotti della sede originale, hanno spinto Maurizio & Co. a traslocare in una nuova location, affacciata su via Prenestina.
Il rischio di “deformare” lo spirito e l’unicità del locale poteva manifestarsi in varie forme: ampliando eccessivamente l’offerta o stravolgendo banalmente il format iniziale.
Nonostante la nuova insegna reciti “Bistrot giapponese”, l’intelligenza della proprietà è riuscita ad ingrandire gli spazi senza intaccare l’animo e le proposte che ci hanno fatto apprezzare Waraku fin dagli esordi.
Bancone con due sedute all’ingresso, corridoio stretto con tavolini affollati, un piccolo dehors e inesauribile solidità culinaria. Tutto è rimasto devoto al concept primigenio, migliorando fruibilità del servizio in un’atmosfera ancor più genuina e pittoresca.
L’inserto di pochi piatti fuori carta, proietta il cliente in un rinnovato viaggio di sapori “made in Japan”. Prenotate sempre con discreto anticipo, accomodatevi in questo raro angolo di quiete e godete a suon di ramen, udon, soba e piatti simbolo di una cultura tremendamente affascinante. Solo a pranzo, troverete anche gli strepitosi Takoyaki: palline di pastella e polpo con salsa agrodolce otafuku, alga nori, maionese e katsuobushi.
Noi siamo rimasti piacevolmente colpiti dalla golosità leggiadra dell’Okonomiyaki realizzata a mestiere (frittella condita in vari modi, con verdura e salsa agrodolce); dalle sfumature poliedriche del Tofu pastellato in brodo di miso e wasabi; o dall’evoluta Pancia di maiale in agro saltata con verza fermentata e con un sottile, aromatico allungo piccante.
Sempre impeccabili e appaganti i Gyoza, di carne o verdure, oltre alla vasta scelta di ramen (vegetariani o special). Su tutti citiamo la complessità equilibrata e saporosa del Kimchi miso ramen e l’eleganza voluttuosa dei Soba freddi al tè verde con zuppa di soia e alghe. I dolci ricalcano l’impronta da “ramen bar”, con l’ottimo tiramisù homemade al tè verde e azuki o caratteristici dorayaki e mochi a pasta di riso (realizzati da un laboratorio artigianale esterno). Dimenticate il vino per una sera e affidatevi al garbato e scattante servizio, per accompagnare il pasto con sakè, tè alla ciliegia o ritempranti liquori giapponesi.
Due milioni di chilometri quadrati. Più di quindici milioni di abitanti. Ventitré quartieri con vocazioni e aspirazioni diverse. Una storia, lunga e complessa, che qui, e solo qui, non sembra essersi stratificata verticalmente come sempre accade, ma spalmata sull’intero territorio, fino ai bordi, con i suoi paradossi e le sue follie ad ogni passo: strade senza nomi e palazzi senza numero, pagode con tegole e legni scuri, poi chilometri di neon, lampi di fosforo e treni volanti. Botteghe mai più alte di un albero e dietro, edifici ricalcati sulle geometrie dei circuiti stampati.
Giardini come architetture, grattacieli come foreste.
Tokyo.
Allora per tentarne il racconto, per rintracciare un filo, sarà necessario la scelta di un luogo come metafora, un microcosmo nei cui confini ricercarne più facilmente l’anima. Magari un mercato. Sicuramente uno. Lo Tsukiji Market, quello del pesce, imprescindibilmente nelle prime cinque ore di permanenza del viaggiatore curioso e nelle prime cinque pagine di qualsiasi guida turistica che voglia suggerire un’idea di questa città.
Poi, saranno parole per spiegare quello che le fotografie qui non riescono a fare.
Tutto comincia prima, percorrendo quel quartiere di Ginza -marciapiedi come autostrade, e pareti di vetrine- che inaspettatamente termina lì, proprio tra quei capannoni umidi e le sessantamila persone che ogni mattina li respirano. Un calo di luce improvviso appena ci si addentra dopo essere sopravvissuti alle ruote dei velocissimi carrelli elettrici che attenteranno alla vostra vita. Poi alle luci delle lampade sospese, l’immagine apocalittica di un oceano improvvisamente ritiratosi, lasciando così, agli occhi, tutti i suoi abitanti muti riversi sul fondo. Di ogni taglia. Di ogni colore. E allora sarà come camminare dentro un acquario, una discesa in apnea lungo i tagli dei banchi come scogli ma con i piedi nelle scarpe, all’asciutto delle volte, tra voci, meraviglia e sangue.
All’esterno dei capannoni c’è l’altro mercato. Qui, esposto fuori dalle minuscole botteghe, il pesce si offre porzionato, lavorato, essiccato, conservato, cucinato, in un fantasmagorico caleidoscopio di colori, forme e geometrie. I vicoli sembrano essere stati ritagliati a fatica intorno ai cesti, alle scatole, a quelle cassette, a comporre una sconfinata natura morta del mare, silente ed immobile. E sempre qui, quando si arriverà, rigorosamente all’alba, nell’attesa dell’apertura al pubblico dei capannoni sgombri ormai dalle aste e dai grossisti, che si affronterà la fila, lunga ma ordinatissima, di chiunque voglia avere, per una volta, lo sgabello davanti il banco di Daiwa Sushi, per guardare le mani sicure e velocissime dei maestri che sfilettano, impilano il riso e lo depongono su quel tagliere in legno, davanti a te. Omakase, il breve menu dello chef, si intenderà senza parole. Nigiri per sette volte, poi qualche maki, una zuppa di miso, una tazza di the verde. Null’altro sarà necessario per avere l’esperienza del sushi, quella da portarsi appresso per tutta la vita.
A novembre però, tutto questo non sarà più, si è già troppo rimandato, e dunque il nuovo teatro di questo spettacolo avrà spazi più moderni, banchi più ampi, luci piu’ diffuse, taglieri con meno rughe.
Vedremo, ma la magia di questo luogo, no, non riuscirà a traslocare, gli uomini non sussurreranno più ai pesci carezzando le squame, e il mercato di Tokyo non sarà più un luogo dove cogliere in qualche ora l’anima millenaria del paese.
La fila delle 6 per accedere a Daiwa Sushi.
Seduti al banco.
The verde e zuppa di miso per accompagnare.
I maestri all’opera. Spazi ristrettissimi per gesti precisi.
Momenti dell’omakase. Mazzancolla,tonno, riccio, anguilla e i maki misti.
L’esterno. Dove tutto comincia e finisce.
La zona esterna al mercato. Qui gli essiccati.
Ostriche grigliate.
Sezionati.
Pose.
Millimetrati.
I giganti.
Le miniature.
Occhi di tonno. L’ultima specialità della tavola giapponese.
Forse i fratelli Alajmo qui hanno avuto l’intuizione per i paralumi del ristorante.
Scorci dell’interno del mercato coperto, accessibile ai visitatori solo dopo il termine del lavoro degli operatori del settore.
Lavorazione del tonno.
Teste.
Colori.
La mattanza. Poi gli scarti.
Fugu. Il pesce palla e la fama del suo veleno.
Prenotare in un grande ristorante di Tokyo, si sa, è impresa ardua. Se poi l’ambizione è di trovare posto in uno dei più ambiti come Sushi Saito che, oltre a offrire (pare) una qualità straordinaria, richiede anche una spesa decisamente inferiore alla media, è indispensabile dotarsi di un “piano B”.
Ci abbiamo provato anche questa volta senza successo, da Saito, nonostante il prodigarsi del nostro referente in loco, ma mai scelta di un’exit strategy fu più felice, perché la serata da Sushi Yoshitake è stata formidabile.
Non avevamo dubbi che considerarlo un ripiego fosse un’esagerazione, vista la nostra visita precedente, ma dobbiamo dire che a fine serata l’impressione è quella di essere stati davvero in una tavola straordinaria. Per la grande perizia di Masahiro Yoshitake, un maestro con le lame; per la cordiale accoglienza sua e del suo team, capace ora anche di descrivere i piatti in un inglese comprensibile; per la qualità formidabile della materia utilizzata, selezionata con cura infinita nel meglio della produzione del paese intero.
Aggiungeremmo anche per la formula: da Sushi Yoshitake, infatti, oltre a poter gustare una serie di sushi tra i migliori della capitale nipponica (ergo, del pianeta), si ha la fortuna di godere, prima del sushi stesso, di alcuni magnifici piatti degni di un grande kaiseki, bocconi divini che giustificano in pieno riconoscimenti di pubblico e critica e conto conseguente.
Difficile trovare lo zenit, in una sequenza memorabile, ma si fa fatica a non citare il formidabile abalone con salsa del suo fegato: un inno allo iodio che fa letteralmente impazzire papille e cervello di chi ama i frutti di mare e che si completa in una “scarpetta” tutta nipponica con aggiunta di riso, offerto dal maestro, da intingere nella salsa rimasta. Sperando che non si crei a breve un movimento per la tutela dell’abalone, possiamo dire che ci siamo fatti un’idea di quale sia il fegato che preferiamo a tutti gli altri (che pure non disdegniamo).
La sequenza dei sushi è inappuntabile, esaustiva di ogni possibile preferenza (da un otoro opulento, alla delicatissima seppia, all’esplosivo riccio in doppio strato) e fedele all’impronta edomae segnata dalla presenza nel riso di aceto rosso, senza zucchero. Ogni assaggio è ricco e fine insieme, impossibile trovare non diciamo difetti , non previsti da queste parti, ma cose migliorabili. Il mancato voto top è solo per rispetto del benchmark assoluto del genere, il riverito Jiro-san.
Per non ingenerare equivoci: anche da queste parti, una prenotazione con largo anticipo è indispensabile per aggiudicarsi uno dei sette posti a sedere, così com’è più che opportuno prevedere un po’ di tempo alla ricerca del locale, al terzo piano di uno dei tre palazzi contrassegnati dallo stesso “indirizzo”, nell’accezione giapponese del termine (per praticità, lo abbiamo fotografato).
Vongola (praticamente un mostro marino, di inaudita bontà).
Scorfano leggermente affumicato.
Abalone. Il piatto col suo fegato lo abbiamo praticamente ingurgitato intero.
Seppia ripiena
Maccarello reale affumicato con salsa allo zenzero.
Il meraviglioso granchio con la sua gelatina.
Finalmente (per modo di dire) si parte con i sushi: seppia.
Sardina.
Ark shell.
Riccio di Hokkaido (sotto) e Miyake, un doppio strato di piacere puro.
Gamberone lievemente scottato.
Anguilla.
Inevitabile conclusione…
Il palazzo, non potete sbagliarvi.
Il perfezionismo del minimalismo.
Questa è, a nostro parere, la sintesi della filosofia kaiseki e di questo grande ristorante. Abbiamo già trattato l’argomento nella recensione di Kitcho, ma qui vorremmo dare un ulteriore punto di vista, che vada oltre la maniacale attenzione per la materia prima, per la stagionalità e per il rito.
Perché al ristorante Koju ci troviamo di fronte ad un’interpretazione, se volete estrema, del modernismo stilistico kaiseki targato Giappone. Un rito che rimane tale e che al contempo viene spogliato di numerosi orpelli, reso metropolitano e contemporaneo, per certi versi anche antiteticamente veloce, ma che preserva tutti i contenuti veri e profondi di quest’arte.
Punto di partenza è la cura nelle preparazioni, apparentemente semplici, ma frutto di elaborazioni lunghe e molto puntigliose. In cucina, anche se non si vedono, ci sono 2 addetti alla cottura del riso, 3 addetti alla preparazione dei brodi, altri 4 alla cesellatura di verdure e pesce. Un esercito concentrato su partite a prima vista elementari, in realtà coordinate e capitanate da veri e propri maestri dotati di esperienza pluriennale.
Il “Maestro” rifinisce e cesella il sashimi, assaggia e ritocca il già quasi perfetto brodo per lo shabu-shabu, osserva e dirige con una attenzione da vero e proprio direttore d’orchestra. Comprendiamo ora sino in fondo l’assonanza con un altro Maestro come Marchesi con questa filosofia, ed anche il suo costante accostamento alla simbologia e alla stilistica, nonché al rigore della grande opera musicale d’orchestra. Mai come in questo caso metafora fu azzeccata.
Il giorno della nostra visita lo chef Toro Okuda si trovava a Parigi per l’apertura del suo primo locale fuori dal Giappone (Okuda Paris, già segnato col pennarello rosso tra le prossime visite da fare nella Ville Lumière).
Il suo sostituto, giovane ma con una sicurezza da chef navigato, non ha fatto rimpiangere il Maestro.
Koju è l’esperienza, con la E maiuscola, di una contemporaneità Kaiseki portata all’apice.
Dove ogni ingrediente primario, un pesce o una verdura, viene preservato nella sua essenza più profonda. Non troverete sale aggiunto da nessuna parte. Tutto puro, se è dolce sarà dolce, se è sapido sarà sapido. Così come, se l’ingrediente lo è, lievemente piccante. Presentato nella sua purezza maestosa e intonsa.
Il ruolo di protagonista di ogni preparazione è demandato spesso ai brodi, di concentrazione, finezza e persistenza, nonché sapidità, notevoli e dagli apparenti comprimari. Una volta un frutto secco, l’altra volta un’erba piuttosto che una laccatura in cottura.
Una affascinante esperienza che dovrete, se vorrete avere un quadro completo ed esaustivo, affiancare ad un grande esempio di tradizione kaiseki in quel di Kyoto. Ed il vostro cerchio gustativo in Sol Levante sarà completo.
La table du chef.
Mise en place.
Il giovane chef all’opera.
Granchio reale, gelatina di aceto di riso e soia, agrumi: un concentrato di rara eleganza.
Abalone, purea di melanzana e fagioli di soia: consistenza fantastica dell’abalone e della melanzana profumata al gelsomino.
La preparazione del nostro sashimi.
Il primo brodo.
Aragosta, fagiolini di soia, funghi, polpetta ai crostacei e radice di loto.
Sashimi di tonno, seppia, orata, daikon, insalata di alghe, rapanelli. Di consistenza e purezza fantastici.
La preparazione dello shabu-shabu.
Barracuda al vapore con funghi, anguilla arrosto e laccata con bianchetti. Immersi in un giardino d’autunno. Patate dolci, noci gingo, polpette di daikon, radici di zenzero, peperoni, lime, pepe e shiso. La foglia di pepe sull’anguilla un tocco da vero maestro.
La preparazione della radice di Wasabi.
Shabu-Shabu di pesce (simil merluzzo) e funghi pregiatissimi Matsutake. Il brodo intenso e pervasivo, con il fungo che emana sentori di fiori d’autunno e sottobosco. Fantastico.
Riso, brodo di miso e funghi, cipollotto e sottaceti.
La rilettura del tradizionale mochi. Gelato al caramello e castagna, liquore di castagna, castagna bollita e palline di riso dolce. Strepitoso.
Il classico finale con il the Matcha.
Per avere un eloquente quadro del livello qualitativo della ristorazione giapponese, rappresenta davvero una buona idea quella di venire in questo locale nel cuore di Ginza e godersi una serata piacevole e al contempo istruttiva.
Elementi per esercitare il sano strumento dello scetticismo per chi, come noi, tende a selezionare accuratamente i luoghi dove mangiare non mancavano di certo: il ristorante non è minimamente blasonato, anche se titolare di una solida fama radicata nel tempo, la scelta è stata affidata senza alcun filtro preventivo alla conciergerie di un hotel e, come se non bastasse, esso è noto per essere frequentato anche da vip che di solito non prestano particolare attenzione alla qualità del cibo consumato.
Anche la struttura del locale ha destato viva preoccupazione: invece di un’unica e raccolta sala con pochi posti ecco diverse sale ognuna dislocata ai quattro piani in cui è suddiviso l’edificio che ospita la sede di Ginza, quella da noi visitata.
Parliamo, infatti, tra l’altro di una risorsa che ha diverse succursali.
Al primo piano ecco Yosuke Imada, fondatore e titolare, mentre in ognuno degli altri piani la sala presenta un bancone presidiato da due chef che, con un inglese più che dignitoso e un’appena più marcata teatralità, unica concessione alla frugale liturgia che abbiamo conosciuto finora, officiano con savoir faire altrettanto efficace il rito del sushi.
Una volta aspettato il nostro turno in una curiosa e quasi museale sala d’attesa, viste le suppellettili esposte, ci si è affidati all’omakase, la degustazione di sushi decisa dallo chef, scelta davvero felice, pur essendo da menzionare anche diversi menù kaiseki sulla carta altrettanto interessanti.
Si è avuto modo di conoscere così, a un prezzo molto accessibile, quella che potrebbe essere definita un’espressione della ristorazione media che, comunque, qui fa decisamente più rima con alta.
Il riso sempre tiepido, e dai chicchi perfettamente separati, appena aromatizzato dall’aceto, la giusta e misurata quantità di wasabi o sale o lime, la qualità del pesce, mai men che ottima (basti pensare ai gamberi serviti praticamente vivi) e un servizio come sempre solerte e leggiadro, hanno permesso di aggiungere un ulteriore e decisivo tassello alla conoscenza di questo paese.
E fornire, ovemai ce ne fosse ancora bisogno, una testimonianza ulteriore del fatto che ogni forma di espressione culinaria da queste parti non è mai affidata al caso ma tenacemente persegue e consegue standard sempre fuori dall’ordinario.
Tuna belly.
Seppia.
Gamberi danzanti prima…
E dopo…
Riccio di mare.
Tonno (maguro tuna).
Maccarello.
Capasanta.
Divino O-toro.
Maki assortiti.
Tamago.
Chef all’opera
Senza parole…