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Il Tinello di Davide Oldani

L’italianizzazione dello chef’s table 

Il tinello vanta, tra le sue accezioni semantiche, un impasto di frugalità e intimismo. E ciò è tanto più vero nel tinello di Davide Oldani che, all’uopo, su una fabula sweet ordisce un intreccio bitter & sour e crea un congegno così ben oliato da sembrare la sua diretta estensione.

La similitudine narrativa, del resto, non è casuale: perché ciascuno dei piatti di Davide Oldani costituisce il tassello (il testo) di cui si compone un menù – il Tinello – da leggersi come un ipertesto tanto è coerente da un punto di vista strutturale e formale. Un’opera la cui caratterizzazione autoriale è data dalla ritmica con cui si alternano, e compenetrano, riferimenti classici provenienti dalla sua solida esperienza professionale – la sua è una tecnica totale tanto da sembrare, in alcuni tratti, austera e anaffettiva – con altri attinti invece da una dimensione più domestica e personale fatta di concessioni al regno enciclopedico del comfort e, come tale, indulgente verso gusti che sono tanto levigati quanto rassicuranti e senza farsi mancare, per giunta, pure momenti dichiaratamente, felicemente ludici.

In questa alternanza tra registri risiede buona parte della grandezza dell’esperienza. In “a portata di mano” l’invito è quello di mordere l’intera struttura dopo averla afferrata con le mani; simile ma ancora più ascendente il climax del gambero rosa dorato al cucchiaio, che rappresenta anche il momento in cui realizziamo la presenza dell’ipertesto di cui si parlava dianzi, e che si manifesta grazie alla coerenza nell’uso del colore: una progressione cromatica ton sur ton, per la precisione, e per lo più incentrata sul timbro del colore naturale degli alimenti, prediletti nelle tonalità del nude. Il senso è quello di un profondo bon ton, che si manifesta anche nello spaghetto al cartoccio, ovvero coperto perché vestito di un etereo e svolazzante velo argenteo da lasciar svaporare sulla cremosissima base di cacio, pepe, limone e rafano e che ritroviamo anche nella serica e fondente mantecatura del riso con forma di quadrello, riduzione all’eucalipto e frutta secca.

Coi secondi, poi, si fa ritorno a una cucina d’impronta più tecnica dove cotture e guarnizioni sono sempre ragionate e precisissime, come nel caso del trancio di lucioperca gratinato, sedano rapa e litchi o nell’“a fuoco lento” di pesci e aglio invecchiato. Così, in una progressione che dal faceto è andata via via verso il serio, si chiude il cerchio con la grandeur del civet di lepre alla royale e col piccione al nero e salsa di tartufo nero pregiato: due piatti scuri, quasi impenetrabili, dove il colore è restituito nella sua più naturale essenza.

Sempre a proposito di tecnica, infine, impossibile tacere sull’esecuzione del soufflé alla granadilla, grappa, uva e anice: impeccabile.

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Una reminiscenza evocativa, quella del tinello: una rievocazione storica, oggi riattualizzata, che va non solo a rappresentare l’evoluzione dello chef’s table, ma che reclama a gran voce il superamento dell’agone tra domestico e professionale. Tra cucina domestica e cucina professionale, nella fattispecie, che è poi la dialettica su cui si è issata, per anni, la differenza tra la cucina francese e la nostra, di cucina: eccellente nei ristoranti ma carente nelle case la prima, sontuosa e complessa nelle case più che al ristorante, invece, la seconda. E benché il livello della cucina professionale italiana si sia elevato, negli ultimi vent’anni, in maniera esponenziale, è proprio questa dialettica che va a risolvere il tinello che vive, oggi, di una seconda vita grazie alla presente ricollocazione.

Una dialettica tra pubblico e privato che invero già si risolveva in passato nelle case nobiliari, là dove il tinello era nato col compito di ospitare i pranzi e della servitù e dei signori che, desiderosi di godere di un pasto più frugale e più raccolto vi si rifugiavano al riparo dagli ossequi e dalle cerimonie della vita mondana. Perché per godere, a tavola, c’è bisogno di semplicità, di raccoglimento, di riservatezza: caratteristiche, queste, molto care a Davide Oldani dove il Tinello, com’è d’uopo che sia, si ritrova davanti alla cucina che, per appunto, è la sua casa. Fedele alla sua iconografia, il tinello rieditato da Oldani promette quindi di esperire della dimensione domestica, familiare e homy, per dirla all’inglese, di casa Oldani e, com’era lecito aspettarsi, prevede un menu fisso il cui incipit è demandato a una carrellata di elementi cari allo chef e che, nel corso del pasto, si slanciano dalla loro dimensione privata per diventare, strada facendo, autentico omaggio alla cucina edificata nelle cucine dei grandi ristoranti italiani e francesi, ma non solo.

A cominciare dagli antipasti, una divertente ancorché divertita carrellata di elementi estemporanei, propedeutici alla comprensione del pasto per intero. Come la Scarpetta di lenticchie e pasta di salame piccante, che si richiama a  materie grasse e nutrienti, leguminose da un lato e di norcineria dall’altro riposizionate nella scarpetta golosa un tempo bandita dalla tavola quartata.

Altra composizione, ma già più vicina alla compiutezza di una portata vera e propria, l’Asparago di Mezzago col gelato alla rosa (richiamo al colore dell’asparago, tra i migliori in commercio) e il Tuorlo vegetale. A chiudere questi divertissement, e per lo chef e per il commensale, l’Ostrica Prestige des Mers, che è una deflagrazione di suggestioni che attingono e al mondo del mare e a quello della terra in primavera, ricco di germogli e di bacche. Ecco dunque un primo piatto: Zafferano, crosta e riso 2018: una citazione a Marchesi che viene qui scomposto, ricettato in tutti i suoi passaggi, e ricomposto, restituito nella composizione privata, appunto, individuale, della forchettata.

Si vola dunque al Mare col polpo, la salicornia, i rapanelli e l’amaranto e, successivamente, al mondo della cucina classica transalpina con le Cosce di rana, la salsa alle erbe, con interpolazione contemporanea dell’aglio invecchiato e del tamarindo. Intensa, poi, la Triglia in scaglie di polenta e rosmarino, ma il tinello di Oldani raggiunge la sua massima espressione quando svela la tecnica che lo anima, come fa nelle eteree, svolazzanti paillettes d’argento del Rombo al cartoccio, che spalanca un immaginario tutto italiano (i cartocci), da sabato italiano, se vogliamo, con le tavole apparecchiate all’aperto della riviera cui Oldani dà però un tocco di urbanità con lo zabaione al limone al posto della maionese.

C’è quindi un’incursione di nuovo presso le tavole dei grandi chef europei classici con il Filetto di vitello alla Wellington nel quale la crosta, paradigma della cucina e dello stile british (“contenuto” e stretto come negli abiti, magari proprio come negli stivali che portano ancora il nome del Duca stesso) diventa di cera d’api. Menzione d’onore va sicuramente all’Aligot, che definitivamente svela l’ossequio alle cucine d’Oltralpe, richiamandosi a Michel Bras: un purè di patate soffice e vellutato rinforzato di Ragusano e Grana Padano che, sciogliendosi, sono in grado di gonfiare il purè e di farlo filare tramutandolo in un ciuffo setoso, perfino nobile.

A chiudere, di nuovo un’incursione, solo olfattiva, in Provenza, con la lavanda sulle fragole smaterializzate e rimaterializzate mimeticamente, quindi l’impeccabile piccola pasticceria con la sfera n. 8 e polvere di lampone; cannoli siciliani con ricotta e kumquat e dama di macaron, bianchi di cocco e maracuja, neri di liquirizia e cacao.

Il Tinello, come avviene in molti altri casi e per molti altri chef, è l’espressione estrema della cucina e si colloca all’apice di essa. In questo contesto c’è la massima espressione del cuoco, che qui impiega il meglio di sé, alzando – come nel nostro caso – notevolmente il livello, seppur comunque elevato, del ristorante gastronomico. E da riflettere quindi se il vero valore del cuoco è, in questo caso, il Tinello o tutto il resto. Per far coppia tra esigenze del cliente, disponibilità dello stesso ma al contempo chiarezza e completezza di informazione, Davide Oldani, nello specifico, è un cuoco che vale molto di più di quanto racconta oggi il suo ristorante, e per completezza informativa andava detto. Potrebbe essere il caso anche in futuro di adottare questa tecnica comunicativa, questa completezza d’informazione anche per altri.

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