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Osteria Francescana

L’Italia di Massimo Bottura

Nella forma risiede la sostanza delle cose. Prendiamo la forma stessa dell’Italia: fuoco prospettico del Mediterraneo, all’Italia guarda la maggior parte delle rotte mediterranee e non è un caso che, tra le culture europee, l’italiana sia così magnetica, così centrale. Presto spiegata, dunque, l’italianità, irresistibile a tutte le latitudini fuorché in patria che “nemo propheta…” dicevano, non a caso, i savi. Centrale e cruciale nell’italianità di ieri, di oggi e di domani, in questa cultura è la cucina, che dell’Italia è cultura materiale e immateriale, oltre che lo sport nazionale e, da qualche tempo, pure movimento culturale, giacché s’impegna a interpreta la contemporaneità con una sensibilità che potremmo definire neo-neo-romantica, presa com’è a celebrare la Nazione degli archetipi e, con essi, del futuro. È il palato mentale e sopratutto quello concettuale, che funge in cucina da lingua e linguaggio condiviso.

Che dalla e per la cucina passi anche l’etica e la politica contemporanea è, ormai, cosa nota; più subliminale il fatto che, come fa notare Massimo Bottura, il futuro dell’Italia alberghi solo nella differenza ovvero nel valore, inestimabile, della diversità, da cui scaturisce non solo il gusto ma anche la vita tutta, intellettuale e non. Lo sosteneva già l’accademico Massimo Montanari: nel mondo di Bottura la cucina diventa però  enciclopedia collettiva, memoria intesa come rete di memorie passate, presenti e presaghe del futuro, tramite piatti che esistono in un repertorio corale, quello della tradizione. A un lettore distratto potrebbe sembrare che non ci sia nulla di nuovo, in tutto questo, oppure che sia un fenomeno innocuo: eppure è qui che s’annida la rivoluzione, ovvero nel mutuo convergere tra alto e basso che  feconda la cucina di nuovi semi, rendendola provvida di nuova linfa: è la Nuova Cucina Popolare Italiana. Accogliere e amplificare questi fenomeni è la vocazione della cucina italiana e, nel particolare, della cucina botturiana: un’opera omnia che possiamo leggere, oggi, anche grazie all’interazione tra i diversi menù e, nello stesso menù, come un effetto sensoriale risultato di una composizione (nelle parti e nel tutto) di grandiosa efficacia.

Il mageiros della nuova cucina italiana

Questo menù, in particolare, inizia là dove ci eravamo lasciati, giocando sulle dolcezze esotiche di un’Italia che corre sul confine del salato e dolce degli amuse-bouche, ove spicca una gestione lucidissima delle temperature: fisiologica, quella della Panzanella liquida, per un comfort così totale da essere destabilizzante. Bassa, sempre, la luminosità: più importante è la luce naturale a infondere un senso di intimità, di disinibizione, essenziale nel Panettone lenticchie e cotechino estivo, come il rito del tortellino in brodo ferragostano, un brandello di Padania strappato al nord, che richiama quanto già accaduto in A Day in The Life (due menù or sono, With A Little Help From My Friends) ma con significati più ampi e, allo stesso temo, più precisi. Si comincia dunque dalla fine, ovvero à rebour: zero acidità, piuttosto una rivendicazione totale sulla salivazione, che torna prepotentemente nello scrigno aperto di un’insalata di mare, di un verde che più verde non si potrebbe. Piatto dalla fluidità seminale, super-marittimo, quella che innerva questo orto di mare della campagna romagnola. Ma manco il tempo di pensarlo e arriva la Piadina rucola squacquerone (e alici), dove la piadina è in dissolvenza, anzi dissolta, per dare un senso compiuto all’italianità che trascende il campanile. A completare il quadro, edotto e illuminatissimo, intervengono appunto le alici iridescenti che subito portano, invece, in Liguria. Tonale lo sviluppo al palato di opera in rosso-nero camouflage, il Risotto come una parmigiana di melanzane acquisisce qui una verticalità anche concettuale, tale da svilupparsi per contrappunti che si confondono, si ibridano, si mescolano in un piatto che guadagna, a ogni cucchiaiata, definizione.

Più timbrico il Viaggio nel Bel Paese coi Ravioli, intesi come contenitori, soprattutto di idee: un itinerario dai gusti così esplosivi e definiti da far incontrare territori distanti, con un’energia che rifugge qualunque compromesso, men che meno quello, manicheista, della micro-territorialità. Così come accade anche nella Porchetta di Rombo, che diventa una espressione più che ricetta. La crosta è di farro lavorato come non mai, il cuore fondente come proseguire ideale proseguimento 3-0  del Magnum di Fegato Grasso (signature storico) dal cuore sdilinquevole. Questo intermezzo è, però, presago di quanto accadrà di lì a poco: la potenza assoluta, ma sfaccettata, della Fiorentina e dei suoi condimenti (Fiorentina Fujuta), dove il solido diventa succo di carne, mentre le nuance dei legumi diventano apparentemente proteine animali.

La potenza del vegetale ritorna con la linfa del Think Green, un sorbetto che declina il mondo del verde con acidità puntute, sferzanti, e tali da trasformarsi nel suo complementare, ovvero un verde che trasfigura in un rosso vivido e brillante nel Quasi spaghetto al pomodoro. Fredda deflagrazione, anche nella temperatura, di peperone e amarene (pairing inusitato che crea un gusto affatto nuovo) con eco di mandorle che si fondono ma che ritroviamo nette in una definizione del gusto davvero sorprendente. E se qui il pomodoro scompare, arriva primo ma ultimo in Ops! Ho dimenticato il pomodoro, omaggio virtuosistico a un virtuosista: Cédric Grolet.

In questo quadro non si possono dimenticare gli accorgimenti minuziosi di Beppe Palmieri, che lavora nell’ombra lasciando respirare il menù di vita propria ma intervenendo con tocchi di inusitata fragranza che sia nel campo enoico che in termini di miscelazione hanno una personalità unica e talvolta geniale, giocando sul mondo delle diluizioni e dei profumi. Si finisce riprendo l’incipit del cambio di prospettive del gusto con Macaron, Cannolo e Cioccolatino, che magari fanno presagire qualcosa di nuovo… Del resto, come pure scrive Gianni Revello, la sua è una vita da mageiros dove mago e cuoco, come alle origini, si stratificano, in un gioco ad arte che rende doppio il piacere.

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Silvio Salmoiraghi, o del talento 

Il talento di un cuoco è il palato, senza palato non è nulla”. Questa frase, presa in prestito a Mauro Uliassi, definisce perfettamente cos’è, secondo noi, il talento culinario. Potrebbe apparire riduttivo, a tratti scontato, ma in realtà i cuochi con un palato raffinato sono pochi. Uno di questi alberga e officia in quel di Fagnano Olona. Palato non solo inteso come dote fisica, che è ben presente, con la capacità compositiva dei sapori più inediti e la ricerca del bilanciamento perfetto. Palato inteso anche come sensibilità mentale, e culturale (anche qui, definizione presa in prestito dal nostro Gianni Revello). Ciò significa una profonda conoscenza delle tecniche, della storia, delle preparazioni della cucina classica. Solo così un cuoco riesce, nella sintesi di tutte queste doti, a fare la vera differenza.

Silvio Salmoiraghi, trascorsi importanti con il maestro Gualtiero Marchesi, docente per lungo tempo alla scuola ALMA, lo ripetiamo spesso, è tra i cuochi più sottovalutati dello Stivale. Gli si rimprovera spesso, anche noi lo facciamo, che la sua cucina, seppur fantastica e non ordinaria, è spesso statica e uguale a se stessa. Vero è che i piatti e le preparazioni sono quasi sempre le stesse, in carta, ma ad ogni visita che farete troverete sfumature e importanti variazioni su proporzioni, geometrie e ingredienti. Il piatto evolve, insomma, e lo fa continuamente, al punto che non è mai uguale a se stesso. Ricordiamo nitidamente un grandissimo colpo da maestro che inflisse Salmoiraghi con Vongole e fichi, abbinamento apparentemente assurdo che, però, portò molti colleghi presenti al consesso di Spessore, in Romagna, a strabuzzare occhi e palato.

Salmoiraghi è capace di questo, di infliggere colpi gustativi come nelle Lumache alla finalina o nell’Omelette suprise, in cui il gioco è indovinare tutti gli ingredienti presenti per comprendere sino in fondo dove arriva il talento di questo straordinario cuoco. L’equilibrio degli abbinamenti e delle proporzioni è tutto, e proprio in questo piatto l’esercizio di stile lascia il passo alla meraviglia del gusto. Gusto tutt’altro che ordinario e confortevole, ma con la giusta e moderata spinta amarotico-sapido-acida. Per poi approdare, infine, a una rilettura contemporanea, anzi proiettata nel futuro remoto, del Filetto alla Rossini in cui il fondo vegetale, la melanzana e il sedano rapa sostituiscono la proteina animale egregiamente. Un piatto vegano di una bontà e profondità uniche e inarrivabili.

Un plauso anche al socio e co-chef Choi Cheulhyeuk, ormai in simbiosi totale con il maestro varesino e suo stimolo costante. Cosa manca affinché pubblico e critica si accorgano che, qui, esercita tutto il suo talento uno dei più straordinari cuochi dell’era contemporanea ? Secondo noi, nulla.

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La cucina “class-ica” di Roberto Stefani

A Sirmione, nella strada che porta al Castello Scaligero, direttamente in riva al Lago, col suo grazioso dehors, c’è il ristorante Tancredi. Il nome, in onore del cantante lirico Tancredi Pasero che possedeva una dimora proprio sulla penisola. La “musica”, qui, è diretta da Roberto Stefani, scuola di Gualtiero Marchesi e Antonio Guida, con un imprinting di quest’ultimo molto forte, avendo collaborato per anni, con lui, sia al Pellicano sia al Seta sia per l’apertura del Mandarin Oriental a Bodrum. Dopo un periodo trascorso Alla Lepre a Desenzano e alcune consulenze, è partito per questa apertura, nel periodo appena pre-Covid.

La sua è una cucina di impostazione classica, elegante, raffinata, nitida nei sapori, con cotture millimetriche e salse tirate alla perfezione. È “class-ica”: classica con classe, piacevolmente gustosa, molto equilibrata e a fuoco, prevalentemente ittica, anche se nel menù alla carta ci sono anche proposte di carne.

Sotto la terra e sotto l’acqua

È il nome del menù degustazione che parte con un piatto che racchiude entrambi gli elementi, oramai divenuto un signature dish: il king crab con purea di patate viola, aria di Champagne e caviale di aringa affumicata, un piatto perfetto per equilibri dei vari ingredienti con una gradevolissima nota acidula di fondo. Sorprende per intensità il risotto con limone candito, polvere di sarda del lago e salmerino, per la capacità di incuriosire piacevolmente il palato.

Tutti i piatti sono eseguiti in modo esemplare, con una elegante delicatezza di fondo: spicca, al riguardo, per le eco al lontano Oriente, il rombo al Vadouvan, ricoperto di amaranto al cavolo viola, accompagnato da una salsa all’ostrica.

La parte dessert ha la supervisione della creative pastry-chef Annalisa Borella, con un curriculum che vanta anche lei Gualtiero Marchesi e poi Stefano Baiocco e Mauro Colagreco; il suo curd di limoni, arancia amara, aria di capperi ed erbe aromatiche è davvero notevole per complessità e intensità, con i vari ingredienti che rimbalzano e arrivano in modo forte e deciso.

La carta dei vini vanta 500 etichette, con una bella selezione sulla Francia. Il servizio è affabile e preciso: nota di merito per l’attenzione rivolta agli amici quadrupedi, a cui vengono portati dei biscottini davvero graziosi oltre, ovviamente, alla ciotola d’acqua.

In conclusione, un’area potenziale di miglioramento, che ci sentiamo di suggerire, consiste nell’alzare l’asticella delle intensità: perché la tecnica, l’equilibrio, la precisione e le capacità ci sono tutte per farlo e accedere, così facendo, a un punteggio più elevato.

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Daniel Canzian a Brera: molto più di un semplice ristorante

Un vero e proprio “laboratorio del gusto”: un emporio dove è possibile acquistare prodotti di eccellenza e vini, ma anche richiedere la preparazione di menù completi per eventi privati e catering, servizio take away, corsi di cucina sia per semplici appassionati che per professionisti; questo e anche altro caratterizza il locale eponimo di Daniel Canzian alle porte di  Brera, nel cuore della Milano più glamour.

Cuoco attivissimo e molto conosciuto in città, allievo di Gualtiero Marchesi, per non farsi mancare nulla Canzian cura, dal 2020, anche l’articolata proposta gastronomica del nuovo Campus SDA Bocconi. E questo ristorante che si definisce di “cucina italiana contemporanea” nel quale lo Chef, uno dei meno mediatici tra i Marchesi Boys, propone la sua idea di cucina fatta di semplicità, modernità – seppure nel solco tracciato dalla tradizione – stagionalità e sostenibilità.

Il ristorante è bello, ampio, i tavoli sono ben distanziati. Suggestiva la grande cucina a vista su un lato della quale sono predisposte una serie di postazioni dotate di comodi sgabelli che permettono di mangiare guardando la brigata in azione. Ma si tratta anche di un posto ideale anche per un pranzo di affari, dove è certamente importante mangiare bene –  possibilmente senza appesantirsi – anche se la testa è necessariamente impegnata altrove.

D’altra parte la filosofia di cucina di Canzian non è per nulla ideologica ma parte da pensieri e riflessioni sulla tradizione e sul mondo che, proprio alla tradizione, gira intorno.

Spaziare in molte direzioni: innovazione, riconoscibilità e tecnica

Nel menu degustazione gli antipasti sono serviti tutti in contemporanea. Ci hanno convinto le note agrodolci degli ottimi frutti di mare, cipolle, wakame, arance candite in infuso di pomodoro, meno le altre proposte un po’ evanescenti al palato a cui avrebbe giovato una maggiore concentrazione dei sapori. Grande il risotto al limone, sugo d’arrosto e liquirizia, un classico di Canzian datato 2013. Caratterizzato da una spalla acida importante e da una fascia aromatica notevole. Perfetto in cottura e mantecatura, golosissimo, semplice e diretto. Molto “Marchesiano”.

Meno riuscito nella nostra esperienza il maialino da latte caramellato alla cui temperatura di servizio, peraltro, non ha giovato un piatto di portata alquanto freddino.

Discreti i dessert tra tradizione (la centomila foglie) e modernità (la sfera di cioccolato). Cantina non estesissima ma con etichette di grande qualità a prezzi tutto sommato corretti. In conclusione, oltre che cuoco di indubbio valore Canzian si dimostra anche imprenditore in gamba, tanto che, alla fine, resta il dubbio sul fatto che, qualche volta, il ristorante possa non essere precisamente il primo tra i suoi pensieri. Sospetto avvalorato peraltro dal fatto che, quello stesso giorno, sia lo Chef che il suo secondo fossero assenti, entrambi altrove, impegnati in eventi.

Va da sé che, ovviamente, speriamo di sbagliarci: e che questo bel ristorante, nella sua bellissima sede, possa continuare a essere, e a rappresentare, una realtà di successo!

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Il nuovo capitolo di Massimo Bottura 

Tanto si è scritto su quest’ultimo menù di Massimo Bottura all’Osteria Francescana. Fiumi di parole legate all’omaggio che il cuoco modenese fa a molti suoi colleghi, contemporanei e non e, più in generale, alla cucina italiana. Un percorso storico-filologico che si snoda lungo tutto il periodo e i protagonisti della rinascita e ancor di più della costruzione del modello di alta cucina contemporanea che possediamo, oggi, in Italia.

E, da buon ambasciatore, il leader Maximo ripercorre, in 18 atti, questo fil rouge storico con maestria, imprimendo il suo sigillo, la sua maturità palatale e filosofica nonché culturale alle preparazioni. Cosa che fa in maniera rispettosa ma, al contempo, provocatoria, traslando su un piano differente le preparazioni, trasformandole, trasfigurandole e rendendole contemporanee, aggiungendo e incorporando tutto il suo sapere maturato in giro per il mondo e costruito su una sensibilità culturale e palatale davvero unica.

Tutte le ricette sono sostanzialmente un pretesto da cui partire, una libera ispirazione, finanche una licenza poetica che viene presa e di prepotenza traslata in una dimensione completamente diversa, trasfigurando l’originale. Non in forma caricaturale, sia inteso, ma aggiungendo punti di vista, proiezioni e in qualche caso lenti di ingrandimento che focalizzano l’attenzione sui dettagli, spesso trascurati, ma qui invece elevati al massimo grado di potenza.

L’emblema di questo concetto è, senza dubbio, la Zuppa fredda di carbonara di Gianfranco Vissani ma, per certi versi, anche l’insalata di spaghetti freddi di Gualtiero Marchesi. Il primo di cui sono enfatizzate le note dolci-salate, è contestualizzato proprio nel ruolo di passaggio tra il salato e il dolce: qui la crema inglese al pepe unita al caviale e al gelato al pecorino è una esplosione totale tanto più che proporzioni e dosaggio rendono questo piatto davvero indimenticabile, nonché stimolante per chi sa riconoscere la doppia citazione del cono rovesciato: una sfoglia di buccia di banana che, nella sua complessa lavorazione, ricorda il guanciale e in cui si assommano i concetti cari a Massimo Bottura di lotta allo spreco e di citazione del piatto Oops mi è caduta la crostatina al limone, ribaltando la prospettiva della presentazione.

Il secondo, invece, proiettato in una dimensione totalmente differente, con il miso di spaghetti, la pasta di seppia e i gomitoli di verdure a ricreare un paesaggio surreale e un rimando ancestrale davvero formidabile.

E ancora la cipolla di Salvatore Tassa da grasso-fondente-casearia si trasforma in un biscotto sfoglia di Parmigiano Reggiano e cipolla, in cui ciò che più stupisce è il contrasto tra la versione originale e questa, asciutta, astringente, quasi biscottata. E poi le capesante ripiene di mortadella di Fulvio Pierangelini vengono ribaltate, dalla versione originale, e diventano dei ravioli, peraltro piatto simbolo del cuoco di San Vincenzo in doppia citazione, il cui ripieno è proprio la capasanta. Piatto a geometria fissa, con le proporzioni e il connubio degli ingredienti dosati al millimetro che rendono la capasanta molto più protagonista del piatto originale, ribaltando con il fantastico chowder di finocchio sul fondo tutti i pensieri e le priorità gustative della versione nativa, proiettandolo nello spazio iper gustativo.

L’opera omnia della cucina italiana: una riflessione sul gusto e sulla leggerezza

Ma potremmo continuare all’infinito nell’analisi – grammatica, semantica – di queste trasfigurazioni dove ciò che più ci preme osservare è come questo insieme di piatti assurga a vero e proprio menù, anzi meglio a una partitura come già abbiamo avuto modo di constatare in passato, in cui ogni elemento non è fine e grande al contempo da solo, ma fa parte appunto di un’opera che ha un inizio, una fine e, soprattutto, una sua ritmica nella scansione, dove la scelta e la collocazione di ciascun piatto e la concatenazione col precedente e col successivo è frutto di un pensiero d’insieme profondo e articolato.

Un altro aspetto che ci preme sottolineare è, poi, l’estrema leggerezza e ariosità di queste preparazioni. Mai, finora, la leggerezza s’era manifestata con tale efficacia nel repertorio di Massimo Bottura. Ma questa volta il cuoco modenese si è superato ancora una volta rendendo tanto lievi quanto più incisive, al gusto, le sue preparazioni. E proprio il gusto è un altro aspetto su cui riflettere perché in tutti, o quasi, i piatti s’è svolta un’analisi gustativa atta a valorizzare il gusto, le sue derivate e le sue componenti di allungo con una perizia mai incontrata, finora, in un menù degustazione. Qui scomposizione e ricomposizione gustativa raggiungono vertici impensabili soprattutto con il germano ripieno di Anguilla di Igles Corelli, che ricorda un viaggio in Oriente, in Giappone, nella fattispecie, tanto è trasfigurato e innalzato. 

Partendo da quest’ultimo piatto un cenno è d’uopo sulla faraona, piatto che ci ha davvero impressionato. E che apre lo spiraglio all’ennesimo ragionamento su questo percorso, ovvero il sottile e trasversale gioco sulle consistenze. Siamo, difatti, al cospetto di un menù in cui la quasi totale assenza di consistenza domina prepotentemente. Abbiamo passato gli ultimi dieci anni, almeno, a sentirci ripetere che la parte croccante di un piatto, la sua compostezza e struttura, fossero fondamentali. E che senza una componente croccante o, in qualche modo, tenace il piatto sarebbe risultato incompleto. Ebbene questo paradigma è stato completamente annientato da un menù che è quasi privo di consistenze eppure totalmente armonico, lieve e morbido, tenue nel morso e nella masticabilità e che pertanto dimostra, ancora una volta, che ogni dogma è fatto per essere demolito. 

Perché la filosofia di cucina e del lavoro sulle consistenze è indiscutibilmente un percorso elevato e, a nostro avviso, centrato, ma ciò non mortifica o sminuisce il suo opposto, se saputo amministrare, ovvero il lavoro sull’assenza o, meglio, sulla inconsistenza delle consistenze. Appunto.

Chiudiamo questa nostra scheda, ora, con un plauso a Beppe Palmieri e a tutta la squadra della Francescana per aver pensato un percorso di abbinamento, qui descritto nelle didascalie, tanto originale quanto mai centrato e preciso. Segno che il talento non alberga solo nel Grande Capo ma in ogni singola individualità che anima il numero 22 di Via Stella.

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