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Rest

Nel centro di  Gallarate, un ristorante diverso

In pieno centro, anche se un po’ nascosto, nella zona pedonale di Gallarate si trova il Rest, ristorante con un sottotitolo importante: “la materia, prima”. Il locale è nato da un’idea di Giorgio Giammarino, Matteo Macchi e Michele Magri, tre amici imprenditori alla loro prima esperienza nel campo della ristorazione.

Il ristorante si richiama a un concept che vuol essere internazionale a partire dalla struttura architettonica post-industriale – era un ex magazzino di filati – in cui un bel parquet di legno antico contrasta con le pareti bianche, le nicchie blu e due maestose lastre di marmo nero. Internazionale anche la carta che abbandona la classica distinzione tutta italiana tra antipasti, primi e secondi.

Qui si ordina e si sceglie tra 5 starter, 5 main course e 3 dessert – con qualche incongruenza, per la verità, vedi i Plin di coniglio tra gli starter. Due i menu degustazione (rispettivamente da 4 e 6 portate) composti interamente da piatti presenti in carta.

A guidare la cucina è stato chiamato Giovanni Battista Barisi, 25 anni, varesino, di ritorno da un periodo di esperienza londinese allo Sky Garden. Semplicità e golosità per aprire le danze: Tartelletta al castelmagno, asparagi e spugnole, un piatto fresco, riuscito, che introduce a una linea di cucina che predilige piatti lineari e dal gusto rotondo. Molto buoni i già menzionati Plin di coniglio, in cui la dolcezza della carne e il sentore di nocciola dei semi di girasole sono esaltati dalla nota erbacea dell’emulsione di carciofi. Piatto molto equilibrato in cui gli ingredienti si sposano perfettamente per la gioia del palato. Senza dubbio la portata migliore della cena.

Qualche dolente nota arriva da altri piatti che ci sono parsi un po’ slegati. È il caso della Tagliatella con fave, stracciatella e menta, penalizzata da una salsa troppo lenta e da una temperatura di servizio troppo “tiepida”. Simile discorso per la Triglia di scoglio, lardo di pata negra, finocchi e pompelmo, piatto decisamente poco armonico e sostanzialmente irrisolto. Dessert scolastico, invece, ma di ottima fattura.

Lo chef è ancora molto giovane e – a nostro giudizio – ancora difetta in questa fase del suo percorso di quella personalità e padronanza delle tecniche necessarie per rendere riconoscibile, nei piatti, la propria mano e il proprio pensiero e poter così ambire a più alti livelli. Indubbia, però, la sua stoffa, tanto che alcune preparazioni ci sono sembrate presagio di un radioso futuro. L’esperienza complessiva resta, infatti, piacevole, e una nota di merito va al servizio premuroso e gentile orchestrato con grande professionalità e savoir-faire dai bravi Nunzio e Sara.

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Una cucina d’ispirazione mediterranea, nel profondo Nord

In una bella villa liberty al centro di Gallarate, nel cuore della Lombardia, da anni va in scena una delle più interessanti cucine del Sud Italia. Una cucina col sole dentro, per dirla con un eufemismo: leggera, fondata su alcuni prodotti simbolo della mediterraneità, a cominciare dall’olio extravergine d’oliva, che lo chef utilizza sempre, anche per mantecare i risotti, fino al pomodoro, alle grandi paste artigianali e al pescato dei nostri mari. Ma con un ingrediente in più. La notevole personalità di un cuoco capace di reinventarsi di continuo e che – per inciso – abbiamo trovato in uno stato di grazia.

Cucina fortemente italiana – ci tiene a precisare Vinciguerra – e con una forte anima meridionale, aggiungiamo noi, sebbene vada elogiata la capacità non comune del cuoco che, pur partendo dalle proprie orgogliose radici partenopee, continua ad apportare feconde contaminazioni. Emblematico in questo senso il Biancostato sfumato col sake e impreziosito da miele, soja, zenzero e da una quenelle di mela annurca. Piatto che da solo vale il viaggio, più che la semplice sosta.

La tecnica al servizio dell’istinto

Una cucina capace di rassicurare e confortare con i suoi classici come il Vesuvius, elegante elaborazione di pasta fagioli e cozze, ma anche di sorprendere e rischiare presentando una nuvola di zucchero filato all’inizio del pasto: il piatto, molto buono, si chiama Isola e lo zucchero filato è arricchito da arachidi, grana, julienne di pomodorini, basilico, gelatina di aceto balsamico, sale maldon e olio. Piatto molto interessante tutto giocato su contrasti dolce/salato.

Vinciguerra sembra insomma aver raggiunto la piena maturità tanto da neutralizzare qualche passaggio a vuoto, rilevato in alcune delle precedenti esperienze. Oggi le sue preparazioni sono sempre pensate e perfettamente calibrate, la tecnica non è mai fine a se stessa ma sempre al servizio di un piatto di grande efficacia, così come le soluzioni cromatiche, sempre interessanti. Provare per credere, a questo proposito, il Capu, che sta per Campania-Puglia, con triangoli di zucca, alici di Cetara, polvere di pomodoro e sgombro, adagiati su una soave crema di burrata. Piatto molto bello, e quindi molto buono, secondo la regola aurea di marchesiana memoria.

Un pezzo della nuova cucina italiana, quella di ispirazione più marcatamente mediterranea, passa, oggi, anche dalla apparente semplicità della cucina appassionata e intrigante di Ilario Vinciguerra. La valutazione, come la scorsa volta, è arrotondata per eccesso. Ma ci sentiamo di dare ancora fiducia al cuocone partenopeo, confidando nelle sue doti e nella sua volontà di riprendersi i meritati riconoscimenti che un tempo possedeva.

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La corte del re, Gallarate, Varese

Ogni tanto anche noi ci prendiamo una pausa tra reportage di esperienze gastronomiche assolute, cucine concettuali da provare almeno una volta nella vita e speciali sui grandi ristoranti del Sol Levante.
Ogni tanto sentiamo il bisogno di normalità, di un posto adatto a tutti e per ogni tasca, in cui è possibile trascorrere una serata gradevole in un ambiente confortevole.
Un locale in cui non si viene per fare la grande esperienza gastronomica ma semplicemente per mangiare bene in un ambiente curato e per trascorrere una serata che non abbia necessariamente il cibo al centro.
Sembra una legittima aspirazione non difficile da esaudire, ma in realtà forse non lo è. Anzi, paradossalmente si rischia di sbagliare molto meno se si cerca una grande tavola. Oggi i grandissimi ristoranti sono segnalati da qualsiasi guida degna di questo nome (certo non nello stesso ordine, ma i nomi alla fine quelli sono).
Ma trovare un posto dove trascorrere una bella serata spendendo il giusto senza essere avvelenati o affogare nella mediocrità di cibi precotti e materie prime dozzinali, non è semplice.
Questa volta segnaliamo un grazioso bistrot in pieno centro a Gallarate. L’ingresso è nella corte di un elegante palazzo storico e nella bella stagione è possibile mangiare nel suggestivo dehors.
A dirigere le operazioni dividendosi tra sala e cucina, un personaggio d’altri tempi, il vulcanico Giovanni Mastroianni, instancabile ricercatore di materie prime d’eccellenza e di prodotti tipici provenienti da tutte le regioni d’Italia. E basta un rapido sguardo alla carta per capire che qui tra uova di Parisi, salumi di cinta senese, lumache di Cherasco e carne di Chianina (e potremmo continuare) non si fanno mancare nulla.
All’interno l’ambiente è gradevole, i tavoli ben distanziati, le luci giuste, insomma si sta bene. Il servizio è rapido e cortese. La mise en place è del tutto informale con tovagliette all’americana.
Della bontà delle materie prime si è detto, aggiungiamo che la cucina, assai semplice, non delude. In carta molti classici dal vitello tonnato alla pasta e fagioli con le cozze, dalla lingua in salsa verde al fritto misto, tutto è eseguito in maniera più che corretta e servito in porzioni generose.
Ci dicono che la carta dei vini è in allestimento e non fatichiamo a crederci. Molte bottiglie indicate non ci sono, qualche annata non corrisponde, alcune bottiglie ci sono ma non sono elencate. Su questo punto c’è da lavorare.
Un indirizzo prezioso, da annotare in agenda. Non vi deluderà.
Ad Majora

Ottimo Prosciutto di Modena 15 mesi, gentilmente offerto.
crudo, La corte del re, Gallarate
Sott’olio artigianali.
sott'oli artigianali, La corte del re, Gallarate
Vitello tonnato al modo piemontese, molto delicato, in porzione maxi.
vitello tonnato, La corte del re, Gallarate
Pasta e fagioli con cozze.
pasta e fagioli, La corte del re, Gallarate
Gnocchi fatti in casa con zola e noci tostate, il piatto migliore, davvero perfetto. Gli gnocchi si sciolgono in bocca, il formaggio è di gran qualità e la nota croccante e aromatica delle noci fa la sua parte.
gnocchi fatti in casa, La corte del re, Gallarate
Fritto misto all’italiana, asciutto e fragrante.
fritto misto, La corte del re, Gallarate

Che cos’è la cucina italiana?
Volendo sintetizzare la risposta in una frase e, con la stessa, riuscire a mettere d’accordo bene o male tutti, dall’Artusi a Marchesi fino agli Chef contemporanei, con il tacito assenso delle nonne e delle mamme di ognuno di noi, un risultato soddisfacente lo otteniamo grazie a Wikipedia: “La caratteristica principale della cucina Italiana è la sua estrema semplicità […] I cuochi Italiani fanno affidamento alla qualità degli ingredienti piuttosto che alla complessità di preparazione.
Se a queste due righe aggiungiamo un pizzico delle tecniche attuali, per contestualizzare la frase all’anno 2013, e leggiamo il tutto con accento marcatamente campano, otterremo con buona approssimazione un quadro della cucina di Ilario Vinciguerra.
Sebbene le fiere origini napoletane dello Chef non siano certo un mistero, ma ben individuabili dalle prime entrate fino ai dessert, il suo stile di cucina non è da classificare sbrigativamente come “partenopeo”. Uno sguardo alla carta ci racconta una realtà italianissima e mediterranea, un viaggio tra le eccellenze dei nostri mari, dei prodotti simbolo del nostro territorio, dal pomodoro all’olio d’oliva e ancora alla pasta, quella corta, spesso snobbata dalle grandi cucine e qui valorizzata come in poche altre tavole.
Vinciguerra non sfoggia l’utilizzo di mirabolanti tecniche per tentare di stupire, ma adopera le medesime con il contagocce, al servizio del piatto, senza soverchiarlo ma concentrandolo ed esaltandolo con lo scopo di far leva sui sapori che ogni italiano, a patto che abbia almeno una volta vissuto il Sud e il suo mare, ha radicati nel DNA, valorizzando l’assieme ed elevandolo al rango di alta cucina.
Il piatto risultante non presenterà contrasti marcati, acidità spinte o note amare, ma ruoterà attorno alla qualità dell’elemento principale e di ciò che lo accompagna. Questo potrebbe apparire come “semplice” o addirittura essere visto come un difetto, una cucina concepita in maniera orizzontale, la via più breve per piacere a tutti e appagare il maggior numero di coperti: in realtà è proprio così, ma ciò è indiscutibilmente un pregio nonché motivo del successo di questo ristorante.
Tutto ciò grazie soprattutto agli ingredienti dei piatti, a prova di scettico (per capirsi, baccalà, mozzarella, gamberi e pomodoro, non “emulsione di rafano selvatico tardivo delle Asturie settentrionali”) e di massima qualità, che riescono a mettere a proprio agio soprattutto il profano, che non si sentirà “perso” in un vortice di preparazioni ritenute apparentemente astruse, insensate e incomprensibili.

Insomma, una cucina tradizionale del duemila, una tra le meglio riuscite e più adatte (in questo Aimo e Nadia resta Il riferimento indiscusso) per far capire e riscoprire peculiarità e potenzialità della cucina mediterranea, spesso sacrificata sull’altare delle sirene e delle mode, in realtà viva e pulsante, apparentemente semplice, estremamente appagante.

I primi stuzzichini, subito sul tavolo.

La bollicina, per iniziare. Ci affidiamo a Marika, cordialissima e capace direttrice di sala, sommelier nonché moglie dello Chef. La carta dei vini è notevole, con ricarichi nella norma.

Panzerotti e pizzelle, oramai un classico. Come sempre, golosissimi.

Una sequenza serrata di amuse bouche, serviti subito dopo l’ordinazione.



Il secondo vino in abbinamento.

Polpo del mediterraneo alla plancia e giardiniera di verdure. La prima portata del menù: polpo freschissimo e assolutamente morbido, di eccellente qualità. Buone anche le verdure, non eccessivamente acide.

Morro di baccalà massaggiato all’olio extravergine d’oliva, riso e latte di provola. La parte più pregiata del baccalà, dissalata e resa morbidissima dal lungo procedimento: come rendere delicato un pesce che tipicamente è tutt’altro. Notevole.

Bovino piemontese marinato al sale, pinoli e grissini. La carne marinata e lasciata a stagionare come fosse un salume. Contrasto finanche eccessivo, quasi fastidioso, con la croccantezza stridente dei grissini e con i pinoli tostati al limite per accentuare la nota bruciata e per simulare l’affumicatura.

Pasta, patate e cozze. Un capolavoro di semplicità: fusilloni del pastificio Vincidomini, cozze ripiene di pomodoro, leggerissima vellutata di patate sul fondo. Dieci anni di mare, spiaggia e campeggio, racchiusi in un cucchiaio.

Gnocchetti di seppia e alghe di mare. Per ricreare la callosità della seppia, gnocchi costituiti dal 90% di purea di seppia e dal 10% da patate. Perfettamente riusciti, gnocchi quasi al dente. La nota sapida e iodata è demandata alle alghe, sotto forma di polvere.

Il terzo vino in abbinamento.

Simpatico intermezzo, la vera pizza napoletana a lievitazione naturale. Colpisce la dolcezza del pomodoro, una pizza margherita da “due mozzarelle”.

Rombo arrostito e olio intenso di olive. Un rombo del mediterraneo di valore assoluto, condito con l’olio ottenuto dall’infusione di olive nell’olio stesso. Elogio alla semplicità e alla qualità delle componenti.

Maialino tenero e croccante, scaloppa di fegato d’oca e limoni. Limone dosato magistralmente per contenere la stucchevolezza intrinseca della scaloppa. Millimetrico.

Il celeberrimo “Oro di Napoli”, una pastiera liquida, contenuta in una gelatina di oro alimentare. L’intensità di una pastiera intera in un solo boccone.

Ultimo vino, in accompagnamento ai dessert.

Crème brûlée al cardamomo.

Piccola pasticceria, servita prima del dessert principale. Molto buoni tutti i pezzi, babà da antologia.

Fragociok: fragole, nocciole e gelato al cioccolato. Un dessert semplice ma goloso.

Ci sono quattro di queste pareti nel ristorante, due al pian terreno e due al primo piano, per un totale di oltre mille etichette di Romano Levi. Da svenire …

…ok, al ritorno non guido io…

Qual è il sogno ricorrente di ogni cuoco? Senza dubbio avere un ristorante di successo con una cucina che piaccia. Anzi, che piaccia a tutti, o quanto meno a molti. Ilario Vinciguerra ha realizzato il suo sogno già qualche tempo fa, dopo aver deciso di piantare le tende sul lago di Varese, portandosi con se il sole del sud per poter regalare qualche raggio luminoso ai palati lombardi che hanno gioito sin da subito per il talento del generoso ragazzone partenopeo. Forte delle sue esperienze acquisite in mezza Europa e fiero delle sue origini, Vinciguerra ha sempre creduto nelle potenzialità della sua cucina in cui ha saputo fondere il background campano con diverse contaminazioni di gusti di tutto il mondo, forgiando uno stile di cucina tutto suo, i cui capisaldi sono la leggerezza e l’immediatezza.

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