Tanto si è scritto su quest’ultimo menù di Massimo Bottura all’Osteria Francescana. Fiumi di parole legate all’omaggio che il cuoco modenese fa a molti suoi colleghi, contemporanei e non e, più in generale, alla cucina italiana. Un percorso storico-filologico che si snoda lungo tutto il periodo e i protagonisti della rinascita e ancor di più della costruzione del modello di alta cucina contemporanea che possediamo, oggi, in Italia.
E, da buon ambasciatore, il leader Maximo ripercorre, in 18 atti, questo fil rouge storico con maestria, imprimendo il suo sigillo, la sua maturità palatale e filosofica nonché culturale alle preparazioni. Cosa che fa in maniera rispettosa ma, al contempo, provocatoria, traslando su un piano differente le preparazioni, trasformandole, trasfigurandole e rendendole contemporanee, aggiungendo e incorporando tutto il suo sapere maturato in giro per il mondo e costruito su una sensibilità culturale e palatale davvero unica.
Tutte le ricette sono sostanzialmente un pretesto da cui partire, una libera ispirazione, finanche una licenza poetica che viene presa e di prepotenza traslata in una dimensione completamente diversa, trasfigurando l’originale. Non in forma caricaturale, sia inteso, ma aggiungendo punti di vista, proiezioni e in qualche caso lenti di ingrandimento che focalizzano l’attenzione sui dettagli, spesso trascurati, ma qui invece elevati al massimo grado di potenza.
L’emblema di questo concetto è, senza dubbio, la Zuppa fredda di carbonara di Gianfranco Vissani ma, per certi versi, anche l’insalata di spaghetti freddi di Gualtiero Marchesi. Il primo di cui sono enfatizzate le note dolci-salate, è contestualizzato proprio nel ruolo di passaggio tra il salato e il dolce: qui la crema inglese al pepe unita al caviale e al gelato al pecorino è una esplosione totale tanto più che proporzioni e dosaggio rendono questo piatto davvero indimenticabile, nonché stimolante per chi sa riconoscere la doppia citazione del cono rovesciato: una sfoglia di buccia di banana che, nella sua complessa lavorazione, ricorda il guanciale e in cui si assommano i concetti cari a Massimo Bottura di lotta allo spreco e di citazione del piatto Oops mi è caduta la crostatina al limone, ribaltando la prospettiva della presentazione.
Il secondo, invece, proiettato in una dimensione totalmente differente, con il miso di spaghetti, la pasta di seppia e i gomitoli di verdure a ricreare un paesaggio surreale e un rimando ancestrale davvero formidabile.
E ancora la cipolla di Salvatore Tassa da grasso-fondente-casearia si trasforma in un biscotto sfoglia di Parmigiano Reggiano e cipolla, in cui ciò che più stupisce è il contrasto tra la versione originale e questa, asciutta, astringente, quasi biscottata. E poi le capesante ripiene di mortadella di Fulvio Pierangelini vengono ribaltate, dalla versione originale, e diventano dei ravioli, peraltro piatto simbolo del cuoco di San Vincenzo in doppia citazione, il cui ripieno è proprio la capasanta. Piatto a geometria fissa, con le proporzioni e il connubio degli ingredienti dosati al millimetro che rendono la capasanta molto più protagonista del piatto originale, ribaltando con il fantastico chowder di finocchio sul fondo tutti i pensieri e le priorità gustative della versione nativa, proiettandolo nello spazio iper gustativo.
Ma potremmo continuare all’infinito nell’analisi – grammatica, semantica – di queste trasfigurazioni dove ciò che più ci preme osservare è come questo insieme di piatti assurga a vero e proprio menù, anzi meglio a una partitura come già abbiamo avuto modo di constatare in passato, in cui ogni elemento non è fine e grande al contempo da solo, ma fa parte appunto di un’opera che ha un inizio, una fine e, soprattutto, una sua ritmica nella scansione, dove la scelta e la collocazione di ciascun piatto e la concatenazione col precedente e col successivo è frutto di un pensiero d’insieme profondo e articolato.
Un altro aspetto che ci preme sottolineare è, poi, l’estrema leggerezza e ariosità di queste preparazioni. Mai, finora, la leggerezza s’era manifestata con tale efficacia nel repertorio di Massimo Bottura. Ma questa volta il cuoco modenese si è superato ancora una volta rendendo tanto lievi quanto più incisive, al gusto, le sue preparazioni. E proprio il gusto è un altro aspetto su cui riflettere perché in tutti, o quasi, i piatti s’è svolta un’analisi gustativa atta a valorizzare il gusto, le sue derivate e le sue componenti di allungo con una perizia mai incontrata, finora, in un menù degustazione. Qui scomposizione e ricomposizione gustativa raggiungono vertici impensabili soprattutto con il germano ripieno di Anguilla di Igles Corelli, che ricorda un viaggio in Oriente, in Giappone, nella fattispecie, tanto è trasfigurato e innalzato.
Partendo da quest’ultimo piatto un cenno è d’uopo sulla faraona, piatto che ci ha davvero impressionato. E che apre lo spiraglio all’ennesimo ragionamento su questo percorso, ovvero il sottile e trasversale gioco sulle consistenze. Siamo, difatti, al cospetto di un menù in cui la quasi totale assenza di consistenza domina prepotentemente. Abbiamo passato gli ultimi dieci anni, almeno, a sentirci ripetere che la parte croccante di un piatto, la sua compostezza e struttura, fossero fondamentali. E che senza una componente croccante o, in qualche modo, tenace il piatto sarebbe risultato incompleto. Ebbene questo paradigma è stato completamente annientato da un menù che è quasi privo di consistenze eppure totalmente armonico, lieve e morbido, tenue nel morso e nella masticabilità e che pertanto dimostra, ancora una volta, che ogni dogma è fatto per essere demolito.
Perché la filosofia di cucina e del lavoro sulle consistenze è indiscutibilmente un percorso elevato e, a nostro avviso, centrato, ma ciò non mortifica o sminuisce il suo opposto, se saputo amministrare, ovvero il lavoro sull’assenza o, meglio, sulla inconsistenza delle consistenze. Appunto.
Chiudiamo questa nostra scheda, ora, con un plauso a Beppe Palmieri e a tutta la squadra della Francescana per aver pensato un percorso di abbinamento, qui descritto nelle didascalie, tanto originale quanto mai centrato e preciso. Segno che il talento non alberga solo nel Grande Capo ma in ogni singola individualità che anima il numero 22 di Via Stella.
Gelinaz! è un parto deflagrante, innovativo, geniale nato dalle menti di Andrea Petrini e Fulvio Pierangelini. Cos’è, ma sopratutto cosa è diventato lo lascio spiegare alle parole usate dall’amico Nicolò Vecchia in questo articolo.
In sintesi 40 cuochi da tutto il mondo si scambiano, in segreto, le cucine per una serata fuori porta. Quest’anno l’evento, avvenuto il 10 novembre 2016, è partito in contemporanea in tutto il mondo. Ogni cuoco non sa che poco tempo prima dove dovrà andare, e per una settimana cercherà di conoscere a fondo la brigata, lo stile di cucina, i fornitori di ingredienti del suo collega, spesso ubicato dall’altra parte del mondo. Ecco quindi Bottura a Londra, Niko Romito in Perù e Riccardo Camanini a Copenhagen… e noi, al lido 84 di Gardone riviera ad accogliere Zaiyu Hasegawa del Jimbocho Den, ristorante kaiseki contemporaneo già visto su questi schermi.
L’iniziativa è coordinata in ogni luogo da un Ambassador, presente in ogni location, che nel nostro caso è il grandissimo solista jazz, un pò funky ma anche tremendamente rock Paolo Vizzari.
Una serata divertente, che Zaiyu ha interpretato nel migliore dei modi possibili:
Giorno 1: ci racconta il nostro Ambassador, interamente trascorso a degustare tutta, e ribadisco tutta, la carta di Riccardo Camanini al Lido 84.
Giorno 2: 14 ore ininterrotte a conoscere i fornitori e le loro storie.
Giorno 3: prima sperimentazione di menù contaminato.
Giorno 4: messa in onda dello shuffle
Hasegawa ci ha letteralmente sorpreso e sconvolto. Al rigore e alla pragmaticità tipica del suo popolo unisce un’anima profondamente artistico-genialoide, oltre che scanzonata e irriverente, che ha contaminato e contagiato tutti i commensali. Tanta tecnica, tanti passaggi raffinati, sopratutto di pensiero, ma anche di gusto.
Gli spaghettoni con quel lieve profumo di sake li ricorderemo a lungo, come difficilmente scorderemo una guancia in cui la salsa imperiosamente stagliava per la sua profondità e intensità. Divertentissimo il caffè-affogato al tartufo, vero colpo da maestro. Così come l’uso della vescica per cuocere dei tuberi, da aggiungere, con la loro salsa grassa e persistente, ad un insieme di foglie e di frutti della terra in diverse strutturazioni e cotture.
Ma lasciamo spazio alla geniale e scanzonata interpretazione della cucina del Lido 84 di Riccardo Camanini da parte di Mr. Zaye Hasegawa…
L’arredo originale, come del resto la cucina, di Casa Camanini… in sfondo si scorge la preghiera Zen dedicata all’evento da Zaiyu San.
Monaka, una tipica merendina pop giapponese fatta solitamente con ripieno di crema di azuki e castagna, qui in versione Haut de gamme… al foie gras e castagne.
Il pane, straordinaria prima contaminazione, prodotto con la ricetta di Riccardo Camanini. Unica aggiunta, invece dell’acqua per l’idratazione, un leggero dashi powered by Hasegawa.
Ravioli di funghi, brodo dashi di funghi e colatura di alici, polvere di funghi, yuzu.
Tartare di persico e gamberi gobbetti, cavolo cappuccio, wasabi. Notare la simpatica rievocazione della bandiera giapponese.
Spaghettoni come Riccardo: burro e bottarga di Zaiyu al sakè.
Marchesi del Lago: riso, stracchino, anguilla, sansho e unagi.
Coscia di pollo fritta ripiena di polenta taragna.
La fantastica Lido/Den salad con cacio e pepe in vescica… omaggio alle fattorie italiane.
Guancia marinata alla soia, mirin e sake…
Troppo spesso ci troviamo a giudicare cucine creative che non fanno i conti con la storia. Troppo spesso godiamo assaggiando piatti che vivono di emozioni estemporanee, verticali e fatue. Gusti decisi, giovani, nervosi ma poco profondi, facilmente dimenticabili, che creano un divertimento nell’immediato spesso fine a se stesso.
Si rischia di farci l’abitudine: anche il gourmet più preparato tende a lasciarsi trasportare da questo moto effervescente, ma anche poco virtuoso.
Poi succede di accomodarsi alla tavola di uno chef lombardo, Silvio Salmoiraghi, che in punta di piedi ristabilisce l’ordine che i grandi maestri della storia della cucina avevano sapientemente creato.
Uomo schivo e introverso, Salmoiraghi, cela dietro gli occhi stanchi di chi non smette mai di pensare una profondità ed una finezza tranquillamente definibili come straordinari.
È nella semplicità che si esprime la genialità di un autore, che in questo caso si “limita” a creare un’epitome di tutte le opere scritte dai grandi maestri di cucina, alleggerendole, contestualizzandole e rendendole stupefacenti per gusto e umiltà di presentazione. Un racconto che cita Escoffier, Fernand Point, Artusi, Marchesi e Pierangelini. Una storia narrata da una voce esterna tranquilla, calda e rassicurante che accompagna il commensale passo dopo passo immergendolo all’interno della più alta cultura gastronomica degli ultimi tre secoli.
Non ha paura Silvio Salmoiraghi di rimanere vittima della timidezza, postponendo la sua personalità alle citazioni che si sente in dovere di offrire in continuazione. Una cena all’Acquerello è un elegantissmo film di costume, con tempi dilatati e dialoghi caustici, in cui la provocazione è sempre dietro l’angolo senza però essere mai espressa direttamente, cercando di stimolare il senso di malizia nascosto in ogni avventore.
I trompe-l’oeil che accompagnano le pareti della sala sembrano essere messi lì apposta per introdurre ad una sorta di fase ipnagogica attiva, creando così un distacco cosciente dalla realtà tangibile, al fine di lasciarsi completamente avvolgere dalla magia proposta dallo chef. Spezie orientali, tecniche di cottura giapponesi, ricette riprese da manuali ottocenteschi e rinominate in chiave squisitamente italiana. Questa in sostanza la cucina di Silvio Salmoiraghi, che non ha bisogno di spiegazioni perché si dichiara da sé, che non può lasciare interdetti perché è tecnicamente perfetta e gustativamente travolgente, che non può che far riflettere perché questo infondo è forse il suo fine primo. La mugnaia di carne è una geniale intuizione per nobilitare una ricetta comunemente bistrattata, utilizzando la cottura shabu shabu per la carne di vitello e il cervello scottato in padella per ricordare la classica cremosità della versione ittica originale. Il risultato è sbalorditivo per consistenze, gusti e richiami alla memoria.
La delicatezza e il tatto sono il filo rosso di una degustazione fatta di soli colpi da fuoriclasse, in grado di essere compresi dal neofita come di lasciarsi interpretare e studiare dall’appassionato, in un gioco di profondità complesse, da scoprire poco a poco.
L’educato servizio di sala è un puro accompagnamento formale di una cerimonia che specchiandosi non si trova bella come in realtà gli altri la vedono, che vorrebbe di più quando il di più forse non c’è, che probabilmente è inconsapevole della sua levatura e per questo si nasconde in una dimora troppo umile per le sue potenzialità.
Silvio Salmoiraghi è un cuoco eccellente oltre che un uomo intelligente. Basta poco per riuscire a capirlo, basta poco per rimanere folgorati dalle sue qualità, basta accomodarsi ad un tavolo della sua casa e lasciarsi trasportare dalla sua saggezza.
Cocktail di scampo. La salsa fatta con il corallo dello scampo trova il suo bilanciamento nel fiore di pepe fritto, che dona una piacevole nota piccante, acida e speziata. Un cocktail a base di carciofo, cognac e interiora di scampo è stato il perfetto sposalizio di un classico anni ’80 reinterpretato alla perfezione.
Uovo in agrodolce. Una cialda di polenta, pane e aceto copre la preparazione a base di uovo, curcuma, zenzero e peperone. Giochiamo ancora sui toni classici: il benvenuto perfetto.
Il pane nero.
Il burro, eccezionale.
La mugnaia di carne, semplicemente splendida. Il finger lime dona una nota esotica ad una preparazione che si discosta radicalmente dall’originale, riuscendo comunque a rievocarne gusto e consistenze. Un bell’apporto di spezie ne allunga la profondità, rendendo il tutto ancora più intrigante di quanto lo stravolgimento della ricetta non avesse già fatto.
Il gratin, omaggio a Fernand Point. Passaggio giocato sul caldo-freddo dettato dalla temperatura del piatto (caldo) e della salsa (fredda) a base di menta e parmigiano (citazione a Fulvio Pierangelini). I carciofi, le vongole, la menta, i piselli secchi ed il parmigiano danno vita ad un rincorrersi di sensazioni gustative che variano dal dolce all’amaro, mantenendo una tensione straordinaria. Chapeau!
Sorbetto di rabarbaro, genziana, cioccolato bianco e pompelmo.
Si cambia tipo di pane.
Piccione alla milanese con indivia, petto di piccione crudo, acciughe e senape in grani. Davvero grande.
Il secondo servizio del piccione. Questa volta sono le cosce, che fanno da ripieno alle spugnole coerentemente fritte. Non manca mai la nota speziata che fa volare in medio oriente.
Le anatre, cotte allo spiedo, che nell’arco dei successivi tre servizi ci verranno servite declinate in diversi modi.
Primo servizio: anatra, caviale, frutto della passione e porro. Millimetrica.
Secondo servizio: Dim Sum di coscia, con brodo d’anatra e tè nero. Avremmo bevuto tre litri di brodo a testa!
Terzo servizio: sovracoscia piccante, catalogna, gamberi e spezie. Il finale perfetto di una cena perfetta.
La piccola pasticceria.
Radicchio, frutta secca, latte di mandorla e Vov. Chiusura di pasto decisamente sopra le righe. I ricordi del tabacco e della liquirizia affiorano subito alla mente. Dessert assolutamente non banale, molto virile, correttamente eseguito sebbene estremamente sapido: la percezione personale, più o meno acuita, di questo gusto ha diviso la tavolata in perplessi ed entusiasti, con un vantaggio a favore di questi ultimi.
Le bottiglie della serata.
Non esiste appassionato, almeno in Italia, che non debba ad Andrea Petrini almeno un paio di segnalazioni gastronomiche che gli hanno cambiato la vita.
Chi, tra noi, sarebbe mai finito a dormire su una piccola barca ormeggiata in un’isoletta svedese, leggi Oaxen Krog, o sarebbe andato in cerca della sogliola della vita in una torrida Vichy agostana o avrebbe lasciato il cuore in un mini bistrot della rue Legendre, senza leggere un suo pezzo?
Ci troviamo quest’anno a commentare un’altra delle trovate di questo agent provocateur, inscritta nel più generale progetto Gelinaz!, un collettivo di chef da tutte le latitudini messi insieme dal nostro per realizzare cose letteralmente mai viste intorno al cibo.
In una scena gastronomica sonnecchiante come quella della Roma di questi tempi il Gelinaz Shuffle ha portato tre ore di divertimento “scambistico” (no, non parliamo di DSK…) ospitando nelle cucine del Jardin De Russie il bravissimo Bertrand Grébaut di Septime, a Parigi.
Un passo indietro: cos’è il Gelinaz Shuffle (o cos’era, visto che Gelinaz non è un semplice collettivo che replica per pigrizia formule di successo)?
Un’idea nemmeno così folle: prendere 37 cuochi di culto provenienti da ogni angolo del mondo e fargli scambiare, “vita, identità e ristorante”, per dirla alla Gelinaz.
In ogni locale, da Melbourne a Roma, Tokyo, San Paolo, lo chef, rimasto ignoto ai commensali sino alla lettura del menu, aveva il compito di preparare una cena di otto portate in linea con la cucina dello chef e del territorio ospitante, il tutto secondo la visione e la creatività dello chef ospite.
Una sfida, insomma, ai cuochi in primis, ma anche alla curiosità del pubblico.
Nella performance romana la cornice era quella del dehors dell’Hotel De Russie, una location ricca di fascino dove gli interrogativi erano tanti: cucinerà Ducasse o Aduriz, o magari sarà Atala o Desramaults?
E se poi ci capita un australiano alla prima vacanza romana?
La scelta (o la fortuna? Perché il meccanismo dello scambio resta misterioso e insondabile, ed è giusto così) ci ha portato a provare la cucina di Bertrand Grébaut, tutto sommato un vicino.
Ed è stato un successo, perché questo giovane e sensibile chef ha saputo dare una bella rilettura dell’idea di cucina di un maestro come Fulvio Pierangelini che in questo splendido hotel lavora da qualche anno come consulente.
Grébaut non è un novellino, nonostante l’età: prima di aprire con straordinario successo (provate a trovare posto…) Septime e i suoi due annessi Clamato e La Cave in un angolo super gourmand dell’11e arrondissement, ha passato anni al fianco di Robuchon e Passard, arrivando a maturare una cucina con un ancoraggio forte alla grande scuola transalpina ma una sana apertura alla modernità e soprattutto alla leggerezza.
Il tutto con una maniacale attenzione alla materia prima.
Capire lo spirito della cucina di Pierangelini e saperne restituire lampi e sfumature era impresa non scontata ma innegabilmente riuscita, nei calchi apparentemente più fedeli (il tortello al pomodoro, con la sferzata craquante della mozzarella di Barlotti) o nelle tappe più personali come le verdure infuse nel fieno e yogurt, la riuscitissima melanzana con nocciola e ovuli o la ricciola dal taglio spesso ma affinata da un’acqua di pomodoro al dragoncello di grande eleganza.
La “fusion” fra cucine di chef che hanno diverse matrici assume qui significati e connotati ideali.
Il termine, inflazionato come pochi e impoverito da derive ambigue e superficiali, spesso specchio di idee approssimative e confuse, rivendica qui la propria massima dignità.
I concetti e le idee di persone che con le loro esperienze e personalità hanno arricchito il panorama gastronomico mondiale raggiungono la massima sintesi possibile, la vera fusione.
L’interesse che suscita un esperimento del genere, chissà se unico e irripetibile, riesce ad andare oltre la singola, pur notevolissima, performance.
I brividi e l’eccitazione provocati dall’attesa dei piatti preparati in maniera quasi estemporanea da questi professionisti che in un paio di giorni si calano in realtà diverse dalla loro utilizzando materie prime che conoscono poco sono davvero intensi e riescono ad avvicinare come poche cose al vero concetto di globale, di qualcosa che oltrepassa davvero, abbattendole, le barriere.
La cena è stato un unicum, come detto, ma il fermento alla base di questo progetto ci auguriamo possa produrre altri eventi interessanti e significativi come questo Gelinaz Shuffle.
Testo di Norbert e Roberto Bellomo, foto per gentile concessione di Lorenza Fumelli (www.agrodolce.it)
Amuse bouche.
Ricciola, acqua di pomodoro al dragoncello.
Verdure infuse nel fieno e yogurth.
Melanzane, nocciole e ovuli.
Ravioli di pomodoro e mozzarella di bufala.
Gambero, pancetta e cipolle dolci.
Pesche tabacchiere e citronella.
Fico e gelato alle foglie di fico.