Sono passati ormai molti anni da quando il tamtam gourmet iniziò a rimbalzarsi il nome di un giovane chef argentino, di speranze assai più che belle.
E dieci anni sono passati anche da quando Mauro Colagreco, fresco di un apprendistato che aveva visto fra i propri maestri Ducasse, Passard e perfino Loiseau, inaugurò a due giri di tango dal confine italiano il proprio Mirazur. Ora, due stelle, innumerevoli altri importanti riconoscimenti e qualche apertura collaterale dopo, Mauro Colagreco ha quarant’anni. Non cinquantacinque. Quaranta. Si tende a percepire lo chef argentino come un cuoco “arrivato”, quasi che il momento di andare a provare la sua cucina per raccontare l’evento agli amici fosse superato in favore di nomi più freschi, mentre ci troviamo davanti a un professionista maturo, sì, ma ancora in piena parabola ascendente.
Colagreco sembra arrivato a un primo punto di ripensamento, in cui le conoscenze maturate durante l’apprendistato hanno iniziato ad amalgamarsi perfettamente in una cucina che ha come centro espressivo l’orto. Un orto che non è (o non è più, o non è più solo) sterile icona di virtuosismi agresti, ma è utilizzato come specchio per rileggere l’intero spettro gustativo. Forse rispetto al passato la cucina di Colagreco ha anche meno del Prometeo che cerca di liberare se stesso dall’ombra della propria, sontuosa, formazione culinaria; le acidità sono utilizzate non solo in senso provocatorio ma, onnipresenti e dosate magistralmente, sono funzionali al perfetto e antiaccademico non-equilibrio delle creazioni. L’insalata di asparagi con pompelmo, crema di yogurt e miele d’acacia è un piatto di rara perfezione, metallico e affilato come una spada di Hattori Hanzo, destinato a non abbandonare facilmente la nostra memoria.
Moltissimi, poi, sono i miglioramenti che il ristorante ha visto negli ultimi anni: ad una cucina con picchi altissimi facevano infatti un tempo da contraltare una notevole discontinuità (in cui molto giocava la presenza dello chef in cucina), un servizio in perenne difficoltà e una carta dei vini sotto il livello minimo dell’accettabilità a questi livelli gastronomici. Nonostante l’assenza dello chef, invece, abbiamo vissuto un’esperienza gastronomica di livello assoluto, con un servizio di assoluta efficacia e con la possibilità di accompagnare il nostro pranzo con una chicca imperdibile come il Clos de la Néore 2014 di Edmond e Anne Vatan.
E se a tutto ciò aggiungiamo la ciliegina, ovvero la bella sala con una splendida vista sul mare, diviene in pratica quasi impossibile trovare un valido motivo per non passare da queste parti.
Stuzzichini: gelée di rapa rossa, mousse di formaggio di capra, macaron di sanguinaccio e mela verde, sardina del mediterraneo e limone di Mentone.
Il pane, strepitoso.
Uovo Florentine con caviale Osciètre: un inizio rotondo e opulento.
Insalata d’asparagi, pompelmo, crema di yogurt e miele d’acacia.
Spugnole, favette e patate. Materia prima strepitosa (una costante).
Baccalà candito, nage di verdure primaverili, agrumi e vongole. Capolavoro di tecnica in cui orto e mare emergono a braccetto senza prevaricarsi ma ben distinti. Piatto di incredibile persistenza.
Sella d’agnello, cavolfiore, purea di broccoli affumicati e latte di capra. Carne strepitosa, va bene, ma anche qui è l’orto a fare la differenza fra un buon prodotto e un grande piatto di carne.
Pomelo candito, spuma di cioccolato bianco.
Strutture di cioccolato nero: come rendere interessante un elemento che nel 2016 ha ormai detto tutto molte volte.
Gelatine all’arancia amara, di mate e cioccolato bianco, meringa all’acetosella.
Si conferma un porto sicuro il Comptoir des Tontons, semplice locale a due passi da Place de Madeleine a Beaune.
Lo è ancora per la carta dei vini, ricca di importanti bottiglie con ricarichi di grande correttezza, anche se, con il passare degli anni e l’afflusso al locale dei grandi “bevitori” che affollano la Borgogna, la profondità della annate è notevolmente diminuita, in particolare sui bianchi locali.
Tuttavia, nonostante la razzia di parte della cantina, questo rimane uno dei posti migliori nel centro città per stappare una buona bottiglia (ed è possibile anche richiedere alcune bottiglie da asporto, con prezzi che, incredibilmente, sono a volte più bassi di quelli praticati direttamente nelle cantine dei produttori).
La cucina non è da meno, semplice e rispettosa di ingredienti biologici di ottima qualità.
In questa occasione ci ha molto colpito la portata principale: poulet, ottimo bouillon ridotto ai germogli di pino e poi il gran colpo delle verdure di stagione, cotte semplicemente in maniera divina; piatto che non avrebbe sfigurato in un ristorante di livello.
Si può fare un pasto completo con una quarantina di euro.
I formaggi poi, sono quelli di Alain Hess…
Cosa chiedere di più?
Appetizer.
Ravioli di Pancetta Bellota ripieni di bietole e Parmigiano Reggiano; ceci e passata di pomodoro.
Poulet di Bresse della Ferme Merle, Bouillon ridotto ai germogli di Pino Silvestre; legumi di primavera.
Formaggi.
Crème Caramel.
Un pizzico di Italia.
Se siete a Beaune il sabato mattina, non dimenticate di fare un passaggio al bel mercato.
Cosa ci fa innamorare di un ristorante?
Cosa amiamo così tanto di questa passione, che trasforma gli 800 km che ci separano da una tavola in una comoda e necessaria passeggiata?
E soprattutto, come spiegarlo agli “altri”, quelli che, quando va bene, trovano in gusto e abbondanza tutte le risposte ai loro bisogni primordiali?
Diventa una lotta quotidiana il cercare una spiegazione a qualcosa che sovente è inspiegabile. Allora, spesso, non ci resta che circondarci di altri malati come noi, altri esseri che hanno trovato nel ristorante la loro dipendenza fisica e psicologica: sì, quasi tossici, ma è una droga questa che fortifica e non affossa.
Dunque, come spiegare tutto questo?
L’altro giorno ho avuto il dono di poter osservare l’espressione di mia figlia che per la prima volta assaggiava la panna montata: una rivelazione. Non dimenticherò mai la sua espressione, quel misto di stupore e felicità che tocca il profondo. Ecco, lì davanti a me, mente e palato vergini che provano una sensazione mai provata, un cancello che si apre su una prateria sterminata, di cui l’occhio non riesce a vedere la fine.
Chissà se avrà provato quel brivido che sentiamo noi, quella scossa che ci attraversa braccia e schiena fino a generare un sorrisino ebete, quella smorfia incontrollata che è segno inequivocabile della grande emozione.
Ecco perché.
Ecco gli 800 km, le spese folli, le grandi abbuffate, le delusioni e le gioie, il mal di testa del giorno dopo e le incontrollabili euforie. E’ questo che cerchiamo: il brivido dato dalla conoscenza.
L’incontro con il sapore sconosciuto, che sia un vino o un piatto da gustare, è evenienza assai rara per noi uomini non proprio di primo pelo: se va bene, un paio di volte l’anno, ma il numero è destinato a calare proporzionalmente all’aumentare dell’esperienza.
Ma c’è un’altra via per ricercare l’emozione: la reminiscenza, il ricordarsi in modo vago e impreciso di una cosa quasi dimenticata. E non c’è trigger migliore di un sapore o un profumo: una tempesta di neurotrasmettitori che scuotono la mente e portano il corpo altrove, ad un momento definito o indefinito del nostro vissuto.
Se la cucina di avanguardia trova il suo naturale compito nella ricerca del nuovo, di un pensiero trainante, di quel sapore che solo la mente vergine ha la fortuna di accogliere, allora la cucina d’autore classica va alla scoperta dell’altra emozione, del ricordo camuffato da abiti nuovi, del calore e la sicurezza che sa dare solo l’abbraccio del conosciuto. Gli ingredienti migliori, la perfezione della tecnica, sono il veicolo per raggiungere tutto questo, la più alta espressione di artigianalità. E’ grande la soddisfazione che si prova nel poter leggere un territorio, scrutarlo nel profondo, attraverso i piatti di un grande interprete.
Il ristorante di Régis e Jacques Marcon è tutto questo, e molto di più.
Se avrete la fortuna di arrivare in questo splendido luogo nel tardo pomeriggio, quando le cucine sono freneticamente impegnate a preparare la linea per il servizio serale, all’ingresso verrete investiti da un profumo stordente, all’inizio quasi invadente, poi via via piacevole, ammaliante, infine incantevole. Il fond blanc de volaille si sente nell’aria e si trova nei piatti, quasi una firma di questa cucina che trova la sua massima espressione nella preparazione dei funghi e dei prodotti dell’Auvergne.
Un posto indimenticabile la casa dei Marcon, uno spazio dove tutto è calma e serenità, una costruzione che gioca a nascondersi tra il verde dei prati e il marrone della terra. 24 ore passate qui sono un dono: col passare delle ore, diventa più comprensibile la scelta di Regis di tornare in questo suo paesino di poco più di 200 abitanti, di cominciare qui la sua impresa.
Cucina ricca di morbidezze, dolcezze, ma non noiosa o banale. Ogni fondo, ogni piccola nota gustativa, regala una profondità infinita ai piatti, una complessità che rende questa tavola unica, una delle migliori nel suo genere.
Le erbe spontanee di questi territori fanno capolino in ogni piatto, usate con grande personalità e grande equilibrio. Una leggera deviazione dalla impronta classica che rende il tutto ancora più accattivante.
Un posto unico per la sala, splendidamente affacciata su un paesaggio di bellezza struggente: chiedete al momento della prenotazione di avere un tavolo vicino alle vetrate.
Unico per il servizio, preciso ma rilassato, e per la carta dei vini, piena di grandissime bottiglie, con ottima profondità di annate (in particolare sul Rodano) e soprattutto a prezzi accessibili in relazione al contesto (anche se, a questi livelli, è imperdonabile indicare in lista come del Domaine Leroy una bottiglia in realtà del négociant)
Unico per la cucina, fortemente ancorata alla classicità francese, ma moderna, elegante, personale.
Il ristorante di Régis e Jacques Marcon è un assoluto riferimento per chi decida di fare cucina di impostazione classica.
E ovviamente lo è per noi, malati, innamorati, o semplicemente vivi.
Albergo e ristorante.
La sala.
“La festa comincia con la rappresentazione dell’abete, re delle nostre foreste”:
La pigna da cogliere.
Il porcino da raccogliere.
Cono farcito di lenticchie verdi di Puy.
Ostrica in gelatina di mele verdi, crescione e sedano.
Sfoglia al Comté.
Cucchiai gourmandes, tra Ardèche e Auvergne.
Salmerino di fontana.
Caldo e freddo di salmerino di fontana alle spezie di abete, asparagi verdi d’Ardèche, ceviche e jus da bere.
Scampo e prugnoli.
Aparago bianco del Lubéron, scampo arrostito, zabaione al gusto grigliato, pimpinella e portulaca.
Spugnole, piselli, silene rigonfia.
Spugnole farcite (di spugnole stesse e pollame), piselli novelli, bouillon schiumoso alla santoreggia, silene rigonfia. Ecco, per capire il perché della nostra passione, è sufficiente assaggiare questa spugnola. Semplicemente commovente, un paradigma assoluto per chi decida di cucinare i funghi.
San Pietro e agretti dei nostri campi.
Filetto di San Pietro stufato dolcemente alla foglia di acetosella, broccolo, conchiglie.
Consommé e tartufi.
Thé di funghi profumato alla foglia di Tanaceto, raviolo al tartufo.
Capretto e senape.
Capretto ai germogli di senape, risotto di farro spelta alle spugnole.
I Formaggi di Ardèche e Auvergne.
Predessert nel segno della fragola.
Spugnole e mini banane.
Su una brioche speziata, banana e pera al caramello di spugnole, sorbetto per rinfrescare.
Si può fare.
Cioccolato e frutti rossi.
Biscotto, mousse, croustillant al cioccolato, gelée e frutti rossi.
Limone di Mentone ed erbe di primavera.
Limone confit servito alla maniera di un vacherin, sorbetto alle erbe.
Piccola pasticceria.
Delle buonissime ciliegie, semplicemente.
Un particolare: lenticchie caramellate all’arancia, stupefacenti.
Con il servizio del caffè…
I vini della serata.
Monsieur Régis al pass.
No, non è una mera questione di campanilismo. Per quanto ci riguarda, di Simone Tondo ne avremmo scritto con gli stessi toni fosse stato anche francese, spagnolo, cinese o proveniente da qualsiasi altro angolo del mondo. E’ semplicemente bravissimo, a prescindere da quanto riportato sulla Carta d’Identità.
Che poi sia italiano, e che sia riuscito ad emergere su una piazza di altissimo livello come quella parigina, non può che farci piacere ed inorgoglirci, ma il suo valore resta il medesimo anche posto in scala assoluta.
Solamente ad un paio d’anni dalla creazione di Roseval, in società con l’inglese Michael Greenwold, è riuscito a riscuotere enorme successo, un massivo riscontro positivo da parte di critica e clientela, lodi praticamente all’unisono e tavoli costantemente pieni.
Poi il colpo di scena: dalla riapertura a settembre di quest’anno, Michael ha scelto di intraprendere altre strade, e Simone è rimasto da solo al comando del ristorante.
Delicati equilibri quindi, che rischiano di diventare instabili, a causa della rimozione di una delle due colonne portanti?
Assolutamente no, anzi. Con piacere abbiamo scoperto che in rue d’Eupatoria, attualmente, si sta ancora meglio che in passato. Si respira un’aria serena e si percepisce distintamente un sacco di voglia di fare bene, probabilmente anche grazie all’individualità di tutte le scelte e le idee.
Nonostante gli stravolgimenti ai vertici, quella che è sempre stata la caratteristica primaria, l’essenzialità, resta la chiave di Roseval. Tutto è ridotto all’indispensabile: godimento al netto degli orpelli.
L’ambiente è ristretto, spartano e con spazi ridotti all’osso. Tavoli e sedie sono piccoli, decisamente ravvicinati e apparecchiati in maniera spoglia ed essenziale. Il menù è uno solo ed uguale non per tutto il tavolo, bensì per tutto il ristorante: 50€ 6 portate, 75€ abbinandovi i vini.
Menù nuovo ogni settimana, nuovi dessert ogni quindici giorni.
Se il dizionario definisce un contrario di “grandeur” ecco, quello è il termine che meglio riesce a raccontare Roseval.
Lo stesso aspetto spartano è riportato sui piatti, apparentemente semplici, che in realtà si rivelano dei veri e propri piccoli capolavori. Essenziali nell’idea, ma complessi nell’esecuzione; spogli nella forma ma assolutamente completi, centrati ed intelligibili; scarni nella descrizione in carta, ma articolati e sfaccettati da richiedere un’attenzione oltre la media. Dalla costante e ricorrente nota vegetale, ma mai troppo in mostra, mai ridondante.
Totalmente mediterranei nel cuore, ma valorizzati da ingredienti, idee e tecniche “worldwide”, grazie all’influenza e le esperienze dell’eterogenea brigata, composta da tre persone in cucina e tre in sala, di sei nazionalità differenti, che lavorano in piena armonia.
Globalizzazione nell’aspetto più positivo del termine ed il tutto, coerentemente, nel cuore del Menilmontant, il quartiere più meticcio della città.
Funzionerebbe ugualmente Roseval, in qualsiasi altro angolo di mondo? Chi può dirlo, commistioni forti come questa sono rare e delicate. Di certo riuscire a distinguersi per essenzialità e per un inarrivabile rapporto qualità/prezzo qui, a Parigi, non è propriamente cosa da tutti i giorni, e sicuramente ha maggior valore che altrove.
Lo scotto da pagare però, sempre dovuto alla Ville Lumière, è il rischio di fare il vaso di coccio tra vasi di ferro, che il vero valore di Simone e di Roseval passi in secondo piano senza che ne venga colta l’essenza, principalmente a causa della concentrazione e del livello dei grandissimi che li circondano.
Una sorta di contemporanea trasposizione del brutto anatroccolo dove, al pari della fiaba, se riuscirete a guardare oltre le apparenze ed andare dritti alla sostanza, ecco che potrete scorgere uno splendido cigno che no, nulla ha da invidiare al resto dello stagno…
L’ingresso del locale.
L’essenziale mise en place.
Il pane.
“Saint Jacques”: capasanta, lamponi, burro nocciola, aceto. Eccellente partenza, con un piatto che lavora molto bene sui contrasti, tra le morbidezze dell’eccellente capasanta e del burro, contrapposte alle acidità del lampone e dell’aceto, che spicca sul resto.
“Langoustine”: zuppa di patate, scampi, polvere di scampi, combava. Al contrario del piatto precedente, dove prevalgono le acidità, qui si viaggia sul velluto con la zuppa di patate molto lenta, la decisa impronta degli scampi, e la nota citrica della combava che vivacizza il tutto.
“Maquereau”: sgombro tataki, ricotta di pecora affumicata al fieno, moromi. Terzo gran piatto, un gemellaggio tra la Sardegna ed il Giappone: protagonista del piatto la ricotta, dal carattere deciso anche grazie alle note legnose dell’affumicatura, con lo sgombro lavorato tataki, ridotto a texture e a lieve apporto acido, così come il moromi, la soia fermentata, che grazie alla sua profondità fa da trait d’union tra i due ingredienti principali.
Il primo vino in accompagnamento. Sia in carta che per quanto riguarda gli abbinamenti al calice, si percorre la via del naturale e del bio, rivolgendosi comunque sempre al piccolo vigneron.
“Cabillaud”: baccalà, midollo, purée di ortica, dashi. Perfetta la cottura del baccalà, anch’esso reso poco più che texture, in favore della sapida concentrazione del dashi e della profonda nota vegetale del purée di ortica.
Secondo vino abbinato.
“Rouget”: triglia, fiori di carote viola, cavolfiore, kale, colatura di alici. Piatto che percorre le medesime note del precedente, marcandole ulteriormente. Un uno-due marino/vegetale.
Terzo vino abbinato.
“Agneau”: sella d’agnello, sedano rapa, mela, bietole bianche. Si vira verso il dolce nel piatto di carne: spiccano la cottura esemplare e l’intelligente utilizzo di una parte vegetale più “bianca” e terrosa, che a meraviglia si accorda all’agnello.
Il quarto vino in accompagnamento.
“Chaource”: formaggio Chaource, mostarda, acetosella.
…con il quinto vino abbinato.
Predessert: Crema di latte e arancio.
“Poire”: cioccolato, pera confit al pepe, olio, crumble. Eccellente dessert, goloso sebbene non eccessivamente dolce, con la pera resa croccante e masticabile, ed il pepe a donare una bella aromaticità. Degna chiusura di una cena sorprendente.
Con il sesto ed ultimo vino abbinato.
Mascarpone, pompelmo e vaniglia.
Se serve un riferimento, proprio di fronte a Roseval…
Il parco del Luberon, alle spalle della fascia costiera provenzale, è una delle mete turistiche più conosciute in Francia e non solo.
La bellezza dei piccoli e deliziosi paesini che ne costellano i rilievi montuosi, poco più che colline, ognuno con la sua storia, vere e proprie enclave separate dal mondo con pochi e sparuti turisti, offre la possibilità di una salutare e balsamica pausa in una dimensione diversa.
In una di queste salvifiche piccole oasi urbane, Bonnieux, posta in un territorio che è un irresistibile mix fra il mare e la montagna rappresentata dalle vicine alpi, opera da diversi anni, nella Bastide arroccata sulla sommità del paese, Eduard Loubet.
Lo chef, già giovanile speranza sciistica transalpina, nasce infatti in Val-Thorens, savoiarda stazione di sport invernali, acquisisce subito dimestichezza con l’alta cucina di matrice alberghiera grazie al prestigioso hotel di famiglia, il Fitz Roy.
Successivamente affina il suo talento e la sua passione prima da Alain Chapel a Mionnay e poi dal cappello più famoso di Francia, Marc Veyrat.
Soprattutto l’imprinting di quest’ultimo sembra riconoscibile nella sua cucina, dall’elemento vegetale con tutto il suo spettro di sensazioni, dal tannico all’acido, al dolciastro e all’amaro, tutto apporta una connotazione che ne caratterizza profondamente lo stile rendendo ogni portata, di volta in volta, una piccola scoperta capace di far passare persino l’ineccepibile maestria delle esecuzioni in sé come qualcosa di scontato o di complementare.
Già l’aperitivo, servito sulla bella terrazza della Bastide, è sintonizzato sulla meticolosa attenzione a tutte le opportunità che può offrire l’adeguata conoscenza di verdure ed erbe spontanee.
Il coerente prosieguo a questa brillante introduzione sono gli intingoli che guarniscono i piatti che vengono serviti nel giardino interno dove ha luogo la cena.
Il saperli utilizzare in modo appropriato a ogni ingrediente principale attraverso sfumature, consistenze, temperature, capaci di esaltarlo, ogni volta in maniera differente, fin quasi a rubarne la scena, è l’essenziale attributo di questo bravissimo chef.
Così, ad esempio, una splendida salsa fredda al levistico esalta il cuore di girasole sottolineandone, accompagnandola, la mineralità e armonizzando il tutto in un contrasto caldo-freddo equilibratissimo; l’altrettanto calibrata nota acida del pompelmo dell’astice viene completata dalla magnifica bisque alla maggiorana che la rifinisce o, ancora, la ferrosità del fegato di vitello anestetizzata da una funzionale e riuscita salsa di barbabietola e origano.
Più in generale qui ogni pietanza provata nel degustazione grande, “Hommage à Yvon”, è fondata sull’affascinante ambiguità che lascia amabilmente indeterminato il dubbio su chi fa da corollario a cosa.
La durata del pasto trascorre piacevolmente dall’inizio alla fine rappresentata dagli impeccabili dolci di alta scuola che concludono degnamente un’esperienza funestata solo dalla considerevole umidità progressivamente calata che ha costretto il solerte servizio a dotare la quasi totalità degli astanti di plaid confortevoli quanto la cucina provata.
Romantica mise en place
Piccolo aperitivo caratterizzato dal tartufo. Sia nello champagne che nella dignitosa pizza. Squisiti grissini a la viande des Grisons (carne di manzo essiccata e aromatizzata).
Cromesqui d’agnello e mostarda di rucola, crema di patate con mousse alla maggiorana.
Piccola e deliziosa cornucopia all’anchoiade (salsa di verdure e capperi con verdure di stagione).
Burro affumicato eccellente e pericoloso: ci vuole “professionalità” per astenersene…
Pane altrettanto squisito (come sopra).
Ragout di lumache con emulsione alle erbe. Emulsione che è un vero e proprio biglietto da visita.
Da qui le foto non rendono giustizia ai piatti … cala il buio ma non la qualità …
Tartufo in crosta su coulis di mais alla melissa, pop corn e girolles. Seconda prova di livello sulle salse.
Cuore di girasole, tartufo, radicchio bianco, girolles in vinaigrette, gazpacho al levistico. Eccellente piatto in cui il minerale trova giusta accoppiata con il tartufo, anche qui splendida la salsa al levistico.
Fegato di vitello, salsa di barbabietola e origano e piccola insalata di tetragonia e acetosa.
Golose coscette di rana, emulsione di patate, erbe di campo.
Astice agli agrumi, bisque alla maggiorana. Ennesima prova nella preparazione delle salse oltre che delle cotture. La nota acida, legata principalmente al pompelmo e quella fresca, legata alla maggiorana, completano un piatto di alta scuola.
San Pietro, salsa alla mostarda ed elicriso, aglio dolce.
Intermezzo defaticante con infuso fresco di foglie di Achillea.
Filetto di maiale, salsa al rabarbaro e ruta.
Insalata in accompagnamento con loprioresche variazioni di note amare. Eccellente.
Variazione alla lavanda. Concentrazione sublime…
Fragole con olio extravergine e aceto balsamico, gran mousse al gusto di opèra e pistacchio. Di nuovo salsa dalla concentrazione sorprendente.
Soufflèe al cedro del Luberon, crema ai chiodi di garofano, nocciole.
Petit Fours.
Un gran bel vino.
Angolo del giardino della Bastide
Bonnieux…