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Clown Bar

L’alter ego di Saturne è un circo enogastronomico

Domatori di tigri e leoni, fachiri, pagliacci, acrobati, equilibristi, mangia fuoco e ipnotizzatori. Questi erano i clienti del Clown Bar nei primi anni del ‘900, quando i circensi del vicino Cirque d’Hiver Bouglione desinavano in tranquillità tra le belle mura decorate a tema.

Dal 2015 la storia trova nuovo slancio, grazie alla coppia ChartierLe Moigne, già proprietari di Saturne, che da dietro il banco presidiano i pochi tavolini in legno. Il successo è immediato. Fuori dal locale c’è sempre una fila di persone in attesa di provare gli equilibrismi palatali del duo delle meraviglie. Non c’è trucco, non c’è inganno. La formula rasenta la totale purezza, numeri da circo accompagnati dai classici da “retro tendone,” truccati quanto basta per essere contemporanei. Nessun formalismo, dunque, ma un servizio leggero e spontaneo, mentre il profumo del burro bianco si arrampica su per le scale, passando dalla cucina alla sala. Un luogo di totale perdizione in cui la suspense è rappresentata dall’attesa tra un passaggio e l’altro, mentre l’adrenalina cresce durante la scelta di un altro verre de vin.

L’intelligenza di Chartier esplode in cucina

A testimonianza di quanto già raccontato qui, Sven Chartier dimostra di possedere un’intelligenza finissima, tanta spregiudicatezza e un’affinità imprenditoriale fuori dal comune. Eccezion fatta per la filosofia di base, ovvero il rispetto per la naturalità in ogni sua forma, tra Saturne e Clown Bar non c’è alcun punto di contatto. Diretto e irriverente, Clown Bar sopperisce ai limiti dell’atteggiamento un po’ troppo politically correct di Saturne, facendo mostra di sé attraverso una cucina impeccabile nella sua semplicità e assolutamente spregiudicata.

Il cervello di vitello, gremolada e salsa al ponzu, presentato nella sua interezza, è un esempio di edonismo applicato, la sublimazione dell’arte dello stare a tavola, la volontà esplicita di infrangere qualsiasi tabù. Seppia, riso venere, inchiostro e rafano è un esercizio stilistico il cui tema è la gommosità di insieme data dalla seppia e dal riso venere cotto come fosse un risotto. Gommosità smorzata grazie alla vena balsamica e piccante del rafano e alla voluta eccessiva sapidità apportata dall’inchiostro. Piatto totale.

Non sono da meno i Ravioli con ricotta, consommé al cedro e tartufi di mare, in cui la morbidezza della ricotta si lega alle note citriche del consommé e lascia libero sfogo all’intrusione dei tartufi di mare.

Passare da Parigi senza far visita a Clown Bar sarebbe un errore imperdonabile. Fare visita a Clown Bar senza visitare Saturne sarebbe un errore altrettanto grave. Due locali che si completano a vicenda e che consigliamo di visitare uno dopo l’altro in rapida sequenza.

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Nel quartiere della borsa parigina, Sven Chartier ha trovato la sua maturità espressiva

La cucina di Sven Chartier, chef patron di Saturne, è un distillato di idee chiare, di grande sicurezza di sé e di una carriera scintillante scritta in pochi anni.

All’interno delle due sale in cui si sviluppa il ristorante, lo chef, affiancato in sala da Ewen Le Moigne, manda in scena una rappresentazione il cui credo è il rispetto per la natura in ogni sua forma. Le etichette biodinamiche rappresentano il primo criterio di selezione insieme, ovviamente, al fattore qualità. Il ritmo del servizio è incalzante, frenetico, sorridente. La spirale emozionale avvolge il cliente e gli tiene compagnia per tutto il pasto. La brigata di Chartier lascia intravedere l’energia che poi arriverà nei piatti del solo menu degustazione proposto, attraverso il frenetico movimento delle toque blanche. Farsi guidare dall’apparenza però, come spesso accade, risulta fuorviante. Il racconto gestuale evoca una cucina totalmente disinibita, spontanea nei suoi contrappunti, laica nei confronti dei capisaldi francesi. Mentre Sven Chartier dimostra di possedere una maturità sorprendente, che applica a ogni piatto, dando vita a una cucina certamente vivace, inappuntabile dal punto di vista tecnico, ma anche piuttosto furba. Comunque, sempre sofisticata.  Una cucina che trova la sua vivacità nella perfezione esecutiva, nei cromatismi e soprattutto nelle studiatissime temperature di servizio. Nota, quest’ultima, che dimostra l’intelligenza gustativa dello chef che, pur prediligendo una linea tondeggiante, riesce a renderla estremamente personale e seducente.

Una cucina autoriale capace di non scontentare nessuno

Asparago, foglia d’aglio, maionese al burro nocciola è un’ode al prodotto, con la fibrosità dell’asparago nemmeno pelato, che si confonde con la nota tostata del burro nocciola, mentre la foglia d’aglio è l’involucro verde, all’interno del quale la tiepidità del servizio sprigiona tutta la sua eleganza. Cambiano le temperature, ma il risultato rimane eccelso con Muggine, funghi blu, funghi champignon, grano saraceno e brodo di funghi in cui la profondità iodata, apportata dal muggine, incontra il terreno boschivo in un gioco di rincorsa tra umori e consistenze. Il brodo freddo e il grano saraceno soffiato sono il tocco di spensieratezza necessario per rendere fruibile un piatto di una complessità eccitante.
Animella, sesamo tostato e salsa ai datteri percorre lo stesso sentiero gustativo del resto dei piatti del menu, sfoggiando una tecnica sopraffina senza vergognarsi di saper strizzare l’occhio alle dolcezze di supporto.

Con un pizzico di irriverenza in più il Saturne sarebbe da annoverare tra le più grandi tavole d’Europa. Ma Chartier ha un altro asso nella manica, si chiama Clown Bar e tra poco andrà in onda su questi schermi.

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Un cuoco tristellato ha lasciato i fasti delle cucine più blasonate di Francia per aprire il suo bistrot

Chi ha detto che meno si fa e meno si vorrebbe fare? Christophe Saintagne è la personificazione del relativismo della cultura popolare. Alla corte di Monsieur Ducasse (dal 1999 al 2016) lo chef normanno sembra aver sviluppato un approccio scientifico all’arte della semplificazione. Pregio e limite allo stesso tempo di un locale, il Papillon di cui è chef patron, dai tratti tecno-eleganti ben delineati, che mostrano il fianco solo quando le emozioni cercano un rifugio sicuro.

A Parigi, tra l’XIII e il XVII arrondissement, il rigore di un tre stelle Michelin si mostra attraverso le vetrate che lasciano intravvedere i profili dorati dei tavolini ravvicinati e le sedie di legno. Il neo bistrot di Saintagne non lascia spazio a interpretazioni. Il talento eleva a scelta valoriale la comodità estetica dell’arredamento del locale, affiancato a una cucina tagliente come la lama di un rasoio, diretta come un insulto e ricca, palatalmente parlando, come le tasche di un milionario.

Cultura mediterranea e tecnica francese con la miglior materia prima

Il servizio squisitamente francese, parsimonioso nei sorrisi e molto professionale nella sua informalità, accompagna l’evoluzione di una degustazione che abbraccia la cultura mediterranea, a cavallo tra Europa e Nord Africa. Date le indubbie qualità tecniche maturate negli anni di gavetta dorata, Saintagne firma il suo menu attraverso la selezione del prodotto, raggiungendo vette in materia che superano la comune comprensione. Gli asparagi crudi, la rucola e soprattutto lo scalogno servito con l’insalata dettano nuovi parametri di valutazione in grado di rappresentare non solo il centro della composizione del menù, ma addirittura di fare ricordare lo stesso per la sua violenza gustativa e non per la tecnica, ineccepibile, espressa dalla brigata di Saintagne. Tecnica millimetrica, forse troppo, che anche a causa di una deformazione culturale italiana (la nostra), stempera il carattere dei piatti, che invece per concezione e risultato ambirebbero a una maggiore libertà, a una anarchia tecnica controllata e non a un controllo tecnico sul loro spirito anarchico. L’irruenza dei sapori è tale da lasciare immaginare che ogni giorno, a ogni servizio, al Papillon si possa trovare uno spunto nuovo, una sfumatura diversa, un’idea intrigante. Il “fattore ritorno” diventa dunque un tema da considerare nella valutazione di questo locale che si identifica nel continuo cambiamento, tanto da renderlo uno dei punti di forza che ne determina il successo.

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Maison Blanc, una cucina da Highlander nella campagna di Bresse

“Who wants to live forever?”
Pensando all’esperienza ‘Chez’ Blanc, in testa risuona la voce di Freddie Mercury dei Queen, mentre intona la colonna sonora del film “Highlander”.
Sì, perché nel fascinoso e pittoresco villaggio di Vonnas, in Francia, si celebra una cucina immortale. Scolpita nei gesti e nella storia in divenire di questa magica Maison.
Lui, Georges Blanc, è ancora lì. Con spirito immutabile, come la bontà dei suoi piatti.
Chef icona di una dinastia di grandi cuochi. Sguardo luminoso, chioma argentea e tempra d’acciaio, mentre a 75 anni si aggira pacioso per la sala.

150 anni di storia, tra successi, mutamenti e quattro generazioni di cuochi

Un percorso da predestinato il suo, che lo ha visto muoversi con agilità dai fornelli delle navi militari (durante la leva), fino a prendere in mano con classe indiscussa l’eredità culinaria di mamma Paulette e della nonna Élisa Gervais. Lei, la “Mère Blanc”, che assicurò le 2 stelle Michelin al ristorante di famiglia, già negli anni ’30.
Questione di DNA? Poco importa, perché, dopo aver fatto il suo ingresso in cucina (a soli 25 anni), il prode Georges comincia a rimaneggiare e alleggerire con rispetto i ‘cavalli di battaglia’ e le ricette di famiglia. Tesori culinari tramandati dal 1868. Un nuovo stile dunque si afferma: riconoscibile e affinato nella forma e nel gusto. Evoluzione sussurrata con intelligenza, che lo porta negli anni a segnare un’epoca: elevando Vonnas a imprescindibile meta gourmet. Identità propagata con ardore verso la conquista delle 3 stelle Michelin (dal 1981 a oggi) e nell’Olimpo dei ‘Mostri Sacri’ di Francia. Cuochi del calibro di Bocuse, Robuchon, Loiseau, Chapel e Guérard.
Non solo, il suo piccolo villaggio nel cuore della Bresse ha visto sorgere nel tempo nuove strutture e progetti: hotel, cinema, parchi, resort, un’azienda vinicola. Oltre al bistrot ‘Ancienne Auberge’, che sforna piatti in omaggio alla formidabile nonna. Una storia troppo densa e romantica, per essere riassunta in singoli assaggi. Ma che trova comunque nei piatti una corrispondenza energica, piena e vitale.

Attualità classica, dal valore inestimabile

Oggi ai fuochi troviamo Frédéric Blanc, figlio di Georges, ma il valore immutabile di questa cucina non è stato compromesso. Al contrario, è un immenso piacere perdersi tra sapori vellutati, evocativi e confortanti, che riescono a far primeggiare un gusto attuale. Grazie alla padronanza impareggiabile di salse e cotture classiche declinate al moderno. Alla ricerca di materie prime eccezionali. Una tavola senza tempo insomma, che detta ancora il tempo.
Così, dal boccone ghiotto, profondo e iodato dell’Ostrica in gelatina della sua acqua e caviale; si passa in eleganza alle impeccabili Rane con carciofi, rinvigorite dall’acidità di una salsa all’acetosa dalla struttura esaltante. La possanza materica del Rombo in salsa di molluschi, trova dinamicità e freschezza nel tocco sensibile del finocchio all’anice e dello zafferano gestiti al millimetro. L’Animella al burro affumicato con salsa di cipolle e “corona” di patate soufflées è un limpido trattato di succulenza e finezza.

E poi c’è lei, la Poularde de Bresse AOP, che da sola varrebbe il viaggio. Perfetta nella sua opulenza leggiadra e soave. Manifesto della cucina di Blanc, rimarca come la storia di questa tavola abbia un significato inestimabile. Vigore tradizionale elevato alla massima potenza, trasmesso al palato con orgoglio e solidità spiazzanti. Un’esperienza da vivere e contemplare così com’è, senza interpretazioni nostalgiche.
Sorprende infine la pasticceria: incredibilmente tecnica, lieve e dai pulsanti contrasti moderni. Il servizio sfreccia a ritmi da record, narrando una cantina di rara foggia e recapitando in tavola pani e burro da assuefazione.
Forse Georges Blanc non vivrà per sempre come un Highlander.
Ma la sua cucina sì, continua a vivere. Ancora vibrante, autentica e immortale.

Dal classico e familiare al contemporaneo in un menù unico, prendere o lasciare

Ad arricchire la già abbondante offerta gastronomica di Lione, una città in questo senso formidabile, si è aggiunto da un paio d’anni scarsi Les Apothicaires, ristorante informale ma a suo modo molto raffinato.
Tabata Bonardi (oggi Tabata Mey, cognome del suo secondo marito Ludovic, che l’affianca in questa avventura) ha un percorso talmente ricco che sembra difficile associarlo al suo aspetto molto giovanile.
Arrivata in Francia dal Brasile, ha tenuto le redini del ristorante di Nicolas Le Bac, successivamente si è lanciata in un suo locale che proponeva temaki per gourmet, per poi far innamorare i francesi nell’edizione 2012 di Top Chef. La partecipazione televisiva l’ha catapultata, quindi, alle redini di Marguerite, bel ristorante borghese del gruppo Bocuse.

Ludovic era il suo secondo e, divenuti compagni di vita, hanno deciso di far nascere questa versione moderna del ristorante di quartiere: tavoli abbastanza ravvicinati, clientela in buona parte di habitué, arredo molto femminile (come anche il giovane servizio) ma, soprattutto, una cucina libera di spaziare dal classico e familiare al contemporaneo in un menù unico, prendere o lasciare.

Un’interessantissima proposta gastronomica, tecnica e raffinata

Le portate che si succedono sono otto (al prezzo quasi incredibile di 55€) e possono spiazzare nell’alternare un’ammirevole rilettura del classicissimo farcement de Savoie al tartufo nero (è una sorta di terrina di patate con pancetta) a un sorprendente, buonissimo abbinamento di rapa e pot-au-feu con topinambur fermentato e levistico, solo un po’ troppo spinto sulla sapidità per non essere da fondo scala.

Portate centrali di grande tecnica e coerenza nella filosofia di classicismo décontracté della maison: un faux fillet da manuale che si sposa però col kimchi oltre che con le carote e il rombo con cavoletto di Bruxelles sferzato dal bergamotto (anche qui forse un lieve eccesso di sale rovina un quadro altrimenti da applausi).
Applausi che, invece, non possono mancare su uno dei dessert più buoni da tempo: kiwi e cocco su cremoso di avocado e aneto, una delizia per finezza nel gusto ed eleganza alla vista che ha anche il merito della straordinaria leggerezza.

Le piccole imperfezioni non condizionano il giudizio finale, piacevolmente influenzato anche da un conto davvero encomiabile che si abbina a una carta dei vini non ricca ma mai banale, da cui peschiamo un vivacissimo Chenin dello Chateau di Brèzé, e da un servizio di sala sorridente e accogliente, affiancato dalla brigata di cucina che presenta i piatti al tavolo con un certo orgoglio.

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