Passione Gourmet Francia Archivi - Pagina 6 di 14 - Passione Gourmet

Una nuova Pausa Pranzo a Parigi

Girovagando per Parigi alla ricerca del bello e del buono

Per poter sopportare i grassi saturi e insaturi ingurgitati durante le splendide cene parigine occorre tanto moto e un pranzo leggero, ma senza farsi mancare il gusto. Poi, capita di andare a trovare un manico vero, anzi due, nei loro rispettivi ruoli e forse la pausa veloce e leggera che ti eri immaginato lo diventa un po’ meno. Ma, come sappiamo, la testa in questo caso fa molto, ed ecco quindi una interessante, e per certi aspetti, diversa prospettiva per una pausa pranzo alternativa a Parigi … con tanto, tantissimo gusto!

Restaurant Passerini

Giovanni Passerini, seppur quarantenne, è già un cuoco e un imprenditore maturo. Ha creato un luogo d’elezione vicino alla Bastiglia che è il regno dell’italianità più spinta. Un pastificio di fianco al ristorante, ormai sempre più marcatamente un avamposto della cucina italiana a Parigi. Semplice, ma non per questo non ricercato. Il puntiglio e la maniacalità, nonché la tecnica e il senso del gusto, del grande cuoco romano si sentono. Eccome se si sentono. Se poi deciderete di andarci a pranzo, avrete dalla vostra anche uno scontrino incredibilmente economico.

Cedric Grolet

Trentadue anni, oltre 1 milione di followers su Instagram, pastry-chef star e uomo del momento a Parigi. Capo pasticcere de Le Meurice, premiato come miglior pasticciere dell’anno 2018 dalla The World’s 50’s Best Restaurants, Cedric Grolet ha aperto la sua pasticceria, in collaborazione con Le Meurice, in cui allieta, tutti i giorni tranne il lunedì, i palati raffinati dei parigini. Famosissimo per i suoi dessert “trompe l’oeil”, prepara anche un’ampia gamma di prelibatezze che, frigorifero in camera permettendo, si possono degustare in un paio di giorni. Tanto belle quanto incredibilmente buone.

Genio con poca sregolatezza e tanta organizzazione

Fine servizio, XI arrondissement parigino. Inaki è fuori sul marciapiede, appoggiato a uno scooter, con una sigaretta in una mano e un calice di vino bianco nell’altra. È una serata di inizio estate e lo chef sembra godersi la vita. Ci saluta con un “ciao” tanto spontaneo da risultarci estraneo, mentre ci incamminiamo sotto i lampioni di Avenue Parmentier, allontanandoci da quel fantastico luogo di perdizione che è Le Chateubriand.

Ci piace cominciare da qui il nostro racconto. Di Inaki Aizpitarte si è già detto tutto. Genio e sregolatezza ai fornelli, con la fisionomia dell’artista tormentato e l’atteggiamento da poeta maledetto che si applica in cucina, risultando uno dei migliori chef della capitale parigina. Una cucina espressa, che segue la proposta del mercato e la stagionalità, che non vuole piacere a tutti, ma che riesce ciecamente a entusiasmare molti. Come può uno chef praticamente autodidatta, con a disposizione una cucina troppo piccola per essere vera, riuscire a danzare con leggerezza sull’alternanza dei sapori, in una successione di dolcezze, acidità, temperature e consistenze, tanto precisa da risultare degna di un menu da ristorante vero? La risposta sta nell’organizzazione. È riuscito a raggiungere il traguardo dell’inaspettato, dando vita a una cucina di assemblaggio, precucinata per la maggior parte, che riesce a colpire le papille gustative con esuberanza e gentilezza, senza farsi mancare un pizzico di sfrontatezza. Inaki Aizpitarte è un talento cristallino, capace di tanto sulle montagne russe su cui ha scelto di lavorare, ma in grado, senza dubbio, di gestire la brigata di un hotel di lusso qualche arrondissement più a sud. Il contrario, in questo ipotetico scambio di cucine e brigate, non sarebbe affatto scontato.

Una cucina di assemblaggio fatta per essere ricordata

Il gioco psicologico tanto attraente quanto irritante è quello che ci riporta bambini, quando in un qualsiasi negozio di giocattoli, venivamo rapiti dalla bellezza di una costruzione di Lego mastodontica, compravamo la scatola e, una volta a casa, cercavamo di ricostruire la meraviglia impressa nella nostra memoria, puntualmente senza riuscirci. Ecco, Inaki Aizpitarte, se non avesse fatto il cuoco e altri mille lavori, potrebbe essere l’addetto alla costruzione di Lego da allestimento nei negozi di giocattoli.

La sequenza Riso, salicornia e tartufo (senza riso), un classico da queste parti, rappresenta la sublimazione della filosofia di cucina dello chef e la dimostrazione di quanto appena scritto, con la crema di salicornia a scaldare i piccoli chicchi composti dalla pianta marina, mentre il tartufo supporta il peso iodato con un tocco di eleganza, che dona una freschezza inaspettata al complesso. Sgombro e cassis gioca sul contrasto dell’acidità colorata delle bacche di cassis, accolte dalla grassezza di un pesce appena tiepido, splendido nella sua integrità. Nasello, acqua di vongole, zucchine gialle e fiori di sambuco si fa notare per l’audacia del servizio; il pesce crudo si cucina direttamente nel piatto grazie al calore dell’acqua di vongole, che supporta la rincorsa di dolcezze presenti con un estratto di umori marini. Pollo e patate è il colpo di scena, il piatto che non si dimentica, che giustifica e conclama le scelte di un cuoco totale, capace di tutto, fiero di sé stesso e del suo lavoro. Su cui noi vogliamo rischiare qualcosa.

La galleria fotografica:

L’inizio della rivoluzione a pochi passi dalla Bastiglia

Quella di Bruno Verjus è una storia tutta da ascoltare. Basta guardarlo per rendersi conto di avere a che fare con un personaggio sui generis, capace di realizzare in una sola vita ciò che gli altri non realizzerebbero in tre, e forse nemmeno riuscirebbero a sognare. Dopo un percorso scolastico passato studiando libri di medicina, capisce che la sua vera passione riguarda certamente la salute, ma in maniera preventiva piuttosto che curativa. Il cibo, il vino, i prodotti  genuini, l’arte della lavorazione delle materie prime diventano il suo obiettivo, affrontato in maniera analitica come d’uopo per un aspirante dottore. Il passo per diventare un giornalista è breve, con una carriera in impennata tra carta stampata, microfoni radiofonici e telecamere. Magnetico, carismatico, con uno sguardo profondamente complesso di chi, da un momento all’altro, potrebbe inventarsi una contorsione celebrale in grado di lasciarti sbalordito, Verjus si fa notare diventando in breve un punto di riferimento per appassionati e addetti ai lavori. Tutto sembra incanalato per il verso giusto, Verjus si potrebbe pensare essere appagato dal suo successo professionale, e invece arriva il colpo di tacco del campione, la giocata che cambia la partita in un istante. Corre l’anno 2013 e dall’alto del suo sapere teorico raccontato nel corso degli anni, Verjus decide di diventare un cuoco e di aprire il suo ristorante, Table.

Ovviamente il risultato non è banale. Il locale si sviluppa lungo uno splendido bancone di acciaio, che serpeggia sinuoso, creando piccole isole che delimitano la privacy degli ospiti, mentre dall’altra parte lo chef Verjus e i suoi collaboratori danno vita allo spettacolo delle cotture.

Dalla piastra alla bocca, una cucina “vanitosa” e senza filtri

Irruento, deciso e diretto, Verjus mette in atto una cucina in cui l’elemento prediletto è senza dubbio il fuoco, tramite il quale ogni cottura viene eseguita. Sfrigolii, “fiammeggiamenti” e rosolature sono la cornice all’interno della quale va in scena una contemporanea esibizione di cafè-chantant. Il menu è un manifesto, un compendio della filosofia dello chef, da leggere con attenzione per immergersi nell’atmosfera della serata. In brevissimo tempo ci si accorge che la cena non è una cena, il ristorante, in cui si è, non è un ristorante e lo chef che sta cucinando non è uno chef. Tutte cose, a conti fatti, facilmente prevedibili. Verjus si conferma il personaggio istrionico che è sempre stato, libero da vincoli imposti e alla continua ricerca di nuovi orizzonti personali da poter condividere con il resto del mondo. L’improvvisazione stravolge quanto letto in fase di ordinazione e l’attenzione si catalizza sullo chef più che sul risultato dei suoi piatti. Un approccio forse un po’ egoistico, sicuramente egocentrico, ma magnificamente realizzato. Lo spettacolo consente poche chiacchiere con il proprio commensale e prevede finezze tecniche visive davvero notevoli. Vedere cuocere per intero una faraona che poi, seguendo le sue esigenze di cottura, viene disossata à la minute direttamente sulla brace, è un pezzo di repertorio che porteremo con noi davvero a lungo.

Table è senza dubbio un locale che può esistere solo e solamente grazie alla presenza al suo interno dello chef patron. One man show che allieta e diverte, tendendo allo stupefacente, al colpo di bacchetta magica, che non si può concedere il lusso di una serata sotto tono, di un servizio scarico dell’energia che lo contraddistingue. Ciò rende Table e Verjus condannati a essere fedeli alla propria bellezza, in una sorta di “Ritratto di Dorian Gray” applicato al quotidiano. La vanità è la cosa più importante, specialmente per un vanitoso, il che comporta inevitabili conseguenze sia in positivo sia in negativo. Table è un locale che fa discutere, che non lascia indifferenti, esattamente come il suo ideatore. Il risultato è raggiunto a pieni voti, specialmente per Bruno Verjus.

La galleria fotografica:

A Lione uno chef giapponese studia e sviluppa l’estetica del gusto europeo

Lo spirito intellettuale di Takao Takano, chef dell’omonimo ristorante a Lione, si è formato e plasmato dal continuo confronto con il diverso, interpretato nell’accezione di nuovo. Quest’incontro, ha dato vita a una cucina che fa fede alla legge non scritta degli opposti che si attraggono, secondo la quale la verità sta nella differenza, che va cercata e sviluppata in ogni sua forma.

Lasciato il Giappone, senza avere alle spalle una formazione culinaria completa, Takano decide di intraprendere il suo percorso formativo con Nicolas Le Bec. La tecnica francese, applicata al rigore giapponese, dà spesso vita a una commistione vincente, alla quale Takano aggiunge una giusta dose di sensibilità che regala bocconi di cultura, esempio di integrazione e convivenza. Il menu degustazione è un manifesto che trae ispirazione da riflessioni, letture e dalla crescita umana relativa all’incontro con esperienze esterne. Senza tralasciare la propria identità, lo chef si approccia alla cucina con una psicologia di tipo associativo che affianca alla leggerezza e alla nettezza del DNA giapponese, la grassezza e l’assonanza tipicamente francese. Lo stile mostra la sua cifra attraverso gli impiattamenti, sempre circolari, che guidano la degustazione in profondità, con una salsa che abbraccia l’elemento principale legandolo con straordinaria armonia al resto del piatto. Le acidità calibrate sono il vocabolario grazie al quale gli ingredienti trovano il modo di dialogare, dettando il ritmo della loro entrata in scena e i limiti entro i quali possono spingere la propria esuberanza.

Studio continuo applicato alla cultura europea

Merluzzo, schie, percebes, salsa al cardamomo e fave regala l’immagine della mente di Takano completamente aperta e libera. La quiete e la tempesta in una fioritura primaverile, che vede la placidità delle schie incontrare la violenza delle maree oceaniche con i percebes e il merluzzo. Prodotti marini agli antipodi tra loro, studiati e fatti incontrare da un osservatore esterno, tanto sensibile da saperli rispettare, quanto puro da poterne osare l’incontro. Durelli, morchelle, fiori d’aglio e salsa al foie gras, trasporta tutti gli umori del cortile e della terra, facendo convivere l’alpeggio e l’allevamento con squisita naturalezza.

Il servizio di sala si mostra all’altezza della situazione, sottolineando intelligentemente come la professionalità non debba necessariamente essere schiava di un formalismo eccessivo. Un’equipe di questo livello meriterebbe forse un teatro più prestigioso dove esibirsi. Il locale infatti, per quanto curato e recentemente ristrutturato, non lascia particolare traccia di sé, con il rischio di ridimensionare il percorso creativo dello chef e la prestazione della brigata di sala.

La galleria fotografica:

Michele Farnesi rinnova le rotte turistiche parigine

Belleville è un quartiere parigino più famoso per il suo fermento notturno che per le bellezze artistiche presenti. In una piazzetta, all’ombra di una chiesa, un piccolo locale con pochi tavolini sul plateatico sembra accompagnare lo scorrere del tempo come uno spettatore farebbe nella sala di un cinema.

Quello che una volta fu il Roseval di Simone Tondo, oggi è diventato il quartier generale di Michele Farnesi, lucchese folgorato sulla via dei fornelli, che vede la propria mecca nella capitale francese. Il rapporto tra esterno e interno del Dilia è del tutto idiosincrasico. Il romanticismo porta con sé una dose di follia più o meno grande a seconda dell’innamoramento e a quanto pare quello tra Farnesi e Dilia sembra essere stato un colpo di fulmine lancinante. Non c’è infatti alcun motivo apparente per decidere di intraprendere un’avventura ambiziosa come quella a cui dà vita Farnesi in un locale di questo genere. Piccolissimo, presenta soffitti bassi che non aiutano l’acustica del locale, facendolo diventare anche un po’ claustrofobico, con una temperatura difficilmente gestibile dato il sovraffollamento umano e con sgabelli al banco talmente scomodi da risultare difficilmente sopportabili. Ma il disagio non è un ingrediente che caratterizza solo la serata dei clienti, bensì anche quella dei cuochi che si trovano a dover fare contorsioni in una cucina di pochi metri quadrati.

Magia, mantica, illusione, spettacolo o semplicemente tanto talento

Tutto viene ridimensionato, stravolto, rivalutato quando la macchina organizzativa di Dilia si mette in moto. Ciò che può rimanere di un servizio di sala, date le dimensioni del locale, si trasforma in una geniale forma di intrattenimento da parte dei due camerieri che esula dalla mera sfera gastronomica. Con una spontaneità invidiabile, i piatti e i vini in abbinamento si susseguono con grande ritmo. La sensibilità nel trattare i prodotti da parte dello chef è subito chiara, mettendo in sequenza quattro ingredienti accarezzati ed esaltati come meglio non si potrebbe. Tortellini di agnello, camomilla, bottarga e rabarbaro è l’introduzione al libro che accompagnerà la serata, un incipit chiaro e risoluto, in cui ogni masticazione spezza l’esplosione gustativa che deriva dalla precedente. La dolcezza leggermente verde della camomilla accompagna gli umori dell’ovino enfatizzati dalla concentrazione iodata della bottarga, mentre il rabarbaro è una piacevole nota croccante che dona freschezza. Impeccabili le Linguine con aragosta, pomodoro e pangrattato, un distillato di italianità memorabile. Si prosegue con Anguilla, stracchino e piselli, passaggio che dona nuova vita al formaggio spalmabile che funge da salsa, in cui l’acidità è veicolata dalla grassezza che incontra la nota terrosa e dolciastra dei piselli e sorregge la cottura magistrale dell’anguilla. Il coup de theatre arriva con Animella, vongole e agretti, delocalizzante, stordente, stratosferico. Francia e Italia non sono mai state così vicine con un piatto di indubbio valore gastronomico, che sottolinea la sua identità proprio superando l’eterna rivalità tra i due Paesi.

Dilia entra di diritto nella lista dei ristornati da visitare tassativamente durante un soggiorno a Parigi. Complimenti a Michele Farnesi e a tutta la sua brigata, che, nonostante vengano snobbati dal firmamento gastronomico, illuminano il cielo di Parigi a suon di fuochi d’artificio.

La galleria fotografica: