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Antica Corona Reale

Solida identità langarola

Che l’essenza più dritta, solida e granitica, per non dire marnosa, delle Langhe alberghi anche in questo mite comune della provincia di Cuneo, è cosa ormai nota.

A contribuire alla costruzione di questa identità, frutto di un impegno individuale che, stratificato negli anni, compone l’immaginario collettivo, c’è senza ombra di dubbio anche Gian Piero Vivalda il quale, con costanza e abnegazione, ha messo a punto una gioiosa macchina da guerra che, sin dall’accoglienza, mette al centro della propria orbita il suo ospite, soggetto e oggetto di un’esperienza umana prima ancora che culinaria. 

Un’esperienza senza tempo

Va detto subito che si tratta di una tavola, la sua, molto divulgativa e talmente eloquente, nel suo mix di classicità e grandezza, da non aver nemmeno bisogno di dichiarare i suoi prodromi, di lapalissiana scuola francese anche nel servizio, in una sala cadenzata alla perfezione e nel cui rapporto si innesca un’armonia tanto perfetta da essere, per appunto, sempiterna come in quegli storici ristoranti francesi di provincia, che difatti ricorda.

Mancavamo da tempo e con piacere abbiamo ritrovato, in un locale pieno, una cucina più accurata, e audace al punto da fare ricorso a risorse provenienti da tutta Italia; una cucina filologicamente ineccepibile e prodiga di quegli accorgimenti che la alleggeriscono, attualizzandola e mantenendola, al contempo, intatta.

Filologia culinaria

Altresì rispettata è la validità di preparazioni scrupolosamente improntate a una rigorosa aderenza territoriale. Preparazioni nitide nei sapori, golose ma non monocordi e stucchevoli, che rendono pienamente omaggio alla storia che rappresentano, una storia sabauda gloriosa e memorabile, che difatti encomia in piatti memorabili come il capretto allo spiedo, l’anguilla alla royale, i ravioli di gorgonzola e pere o il divin tegame di lumache di Cherasco e porri di Cervere, che rappresentano solo alcune delle copiose sollecitazioni palatali, e intellettuali, che qui si ha la fortuna di esperire.

In questo contesto non poteva mancare una lode alla cantina, capace di soddisfare le più disparate esigenze, e un’altra ancora al già citato servizio, degno oggi di una grande maison.

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Un pezzo di Tokyo nella ville lumière!

Nella generale mania per il Giappone che da qualche anno pare aver colpito la scena gastronomica delle città occidentali sembra essere stata dimenticata una delle sue espressioni più autentiche e affascinanti: i wagashi, ovvero i dolci tradizionali.

Si contano infatti sulle dita di una mano i posti dove poterne trovare nelle capitali europee, che abbondano, invece, di riletture à la japonaise di dolci della nostra tradizione, dal tiramisù al mont-blanc, spesso abbinati senza grande fantasia a creme e gelati al tè matcha di dubbia qualità. È davvero un peccato perché si tratta di vere e proprie meraviglie che a un delizioso gusto estetico abbinano una grande profondità di sapore e consistenze a noi poco familiari e, anche per questo,  interessanti.

Una sala da tè con pasticceria, in bilico tra Oriente e Occidente

A Parigi, per fortuna, accanto allo storico, eccellente Toraya ha aperto, a due passi dalla Rue Saint Anne, questo Tomo in cui si cerca di dare un colpo al cerchio e uno alla botte: da un lato, infatti, sono presenti dolci d’impostazione europea a cui si aggiungono tocchi giapponesi in forma di dorayaki; dall’altra, si producono giornalmente un  numero limitato di wagashi, totalmente rispettosi della tradizione della terra d’origine.

Questa sintesi è il frutto dell’incontro delle due anime del locale: Romain Gaia, francese, vive metà dell’anno in Giappone dove ha imparato i segreti della pasticceria nipponica con Takanori Murata, cresciuto in una famiglia di pasticcieri, è stato per anni la parte dolce dello stellato Aida e del suo salone da tè, lo splendido e compianto Walaku.

Sedendosi a uno dei tavoli della sala, un po’ anonima, si sceglie il proprio tè dalla bella selezione di sencha o di gyokuro proposti, descritti con dovizia di dettagli su produttore, regione e note organolettiche; al tè si può abbinare a quel punto un dorayaki o, per i più curiosi, un wagashi.

Sono certamente “dolci” d’impostazione molto diversa dai nostri: meno dolci, apparentemente molto simili tra loro per la frequente presenza dell’anko, la confettura di fagioli azuki che spesso ne costituisce l’ingrediente principale. Ma le variazioni sono infinite, così come le forme e le consistenze, che variano con le stagioni: non le nostre 4 ma ben 72 sono le stagioni in cui il giapponese suddivide l’anno: doveroso approfondirne le tipologie per familiarizzare con la raffinatezza del  pensiero di questo grandissimo popolo.

Noi abbiamo gustato un dorayaki classico appena fatto, dalla texture setosa come è possibile trovarne solo in Giappone e uno yaki guri in cui la crema di castagne e l’anko di Murata-san si sposavano a meraviglia.

Una sosta davvero consigliata in una zona centralissima ma non così frequentata, e vivaddio, dal turismo di massa.

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Il Campionato dei Grandi

Come mettere a confronto 16  bottiglie di Bordeaux Premier Cru di diverse etichette  e di diverse annate, per decretarne la migliore? Ho scelto una formula che mi è parsa divertente, quella del Campionato del mondo di calcio usata anche in  Champions League: quattro gironi all’italiana di singole verticali su 4 annate della stessa etichetta e poi la fase ad eliminazione diretta con le prime due in finale. E un ultimo tocco, per rendere il tutto davvero speciale, un divertente confronto del vincitore con un outsider in blind tasting.

I quattro gironi

Appuntamento dall’amico Alessandro Pipero presso il suo ristorante stellato di Roma. Otto partecipanti: oltre a Paolo Lauciani (FIS Roma) a fare da anfitrione, i grandi amici Orazio, Mario, Gianluca, Giorgio, Barbara e Agnese.

L’emozione di stappare queste sedici icone di Bordeaux uscite dalla mia cantina privata era immensa. Per non sbagliare, al cavatappi l’abilissimo Roberto Zitelli che con maestria unica ha salvato un paio di bottiglie dai loro tappi segnati dall’età. Tutte le bottiglie erano perfette.

Chateau Latour

 

Chateau Mouton

 

Chateau Lafite

 

Chateau Haut-Brion

 

La fase finale

I primi due dei quattro gironi.

Il meraviglioso Latour 1966 (voto 97) – vino maschio, con le sue note di tabacco e grafite – così come il grandioso Mouton 1959 (voto 96) – vino integro e perfino austero con note affumicate e di mentolo – non passano le rispettive semifinali. La finale al cardiopalma regala un testa a testa fra i due colossi rimasti a contendersi il titolo: il Latour 2003 – che ha sorpreso tutti per quell’annata mai valorizzata abbastanza e foriera di piacevoli note di tartufo ed anice stellato (voto 98) – e il capolavoro di Pauillac nell’annata 1982 con un Mouton da leggenda (voto 99). Un vino, quest’ultimo, ancora giovane, ricco di tabacco e rabarbaro e, per usare l’espressione molto azzeccata di Paolo Lauciani, “gravido” di cassis, con una potenza incisiva, un finale lunghissimo e un intrigante retrogusto di menta, tabacco e liquirizia.

Chateau Mouton 1982, il vincitore

Tra un campione e l’altro, qualche pausa con calici freschi a base di uno strepitoso Dom Perignon Oenotheque 1995, perfetto esempio di equilibrio degli opposti, e di uno Chassagne-Montrachet di Ramonet 2014 floreale, balsamico, minerale, intenso e teso come una corda di violino.

La sorpresa (anzi, le sorprese)

Come poteva mai finire una serata così, se non cercando di smorzare la tensione accumulata durante la degustazione di questi sedici mostri sacri? Beh, a me piace la provocazione e quindi ho deciso di concludere con una chicca… Un’ ultima bottiglia da servire alla cieca, per rilassarsi e finire in bellezza. Concentrato, intenso e sfaccettato, con un gusto che ha un che di bordolese. La bottiglia “misteriosa” era un Vega Sicillia Unico – Riserva Especial nel blend 1990-1991-1994. Giocare a indovinare a fine serata è stato molto divertente e qualche amico intraprendente è anche arrivato molto vicino a svelare l’ospite misterioso!

Per concludere, l’amico Gianluca ci ha deliziato con una bottiglia degna di una serata d’onore. Un Yquem 1950 semplicemente perfetto, dal tipico naso di buccia di arance amare, zafferano e frutta candita, con una  dolcezza suadente  che invita al sorso  successivo. Quale miglior bicchiere della staffa!

Uno dei migliori vini del secolo scorso

Sarà la miscela di granito, calcare e scisto che dona al vino sapidità e finezza, o il clima “lionese” con estati calde e inverni molto freddi, oppure il mistral,  vento del nord che preserva la vite dalle malattie – anche se qualche volta provoca devastanti gelate primaverili – o ancora la molecola “rotundone” che dona il tipico aroma speziato: certo è che il Syrah, nato dall’incrocio tra il Mondeuse Blanche (vitigno della Savoia) e la Dureza (vitigno estinto del Rodano, Giura e Savoia), ha trovato nella parte settentrionale della Valle del Rodano clima e terreno ideali.

Sono un fan del Syrah, in particolare di Hermitage e Cote Rotie: rossi fruttati, speziati, concentrati, profondi e longevi. Grazie alle piacevoli sorprese che la vita sa riservare, il sogno di bere il Syrah più blasonato del secolo scorso – l’Hermitage “La Chapelle” di Jaboulet del 1961 – si è recentemente trasformato in realtà. È accaduto qualche tempo fa che il caro amico e grande estimatore di buoni vini Alberto mi abbia coinvolto in un momento eccezionale, quello in cui ha deciso di “tirare il collo” alla mitica bottiglia, “ritappata” dallo stesso Domaine il giorno 12 Novembre 2013. Senza indugio, qualche giorno dopo siamo al Pescatore di Canneto sull’Oglio. Insieme a me e Alberto, sua moglie Gemma, Andrea e Max, tutti appassionati gourmet.

L’accoglienza unica riservata da Antonio Santini a tutti gli ospiti  che hanno la fortuna di andare al Pescatore ci dispone al meglio. Alcuni vini, incluso la Chapelle, sono stati portati da noi; tutti gli altri sono stati scelti, così come il menù, insieme al figlio Alberto, maitre e sommelier del ristorante.

Sulla deliziosa terrina di astice con caviale esordiamo con Charles Heidsieck “Blanc de Millenaire” 1995, Champagne che adoro. E’ ancora freschissimo, fine ed elegante (voto 95).

Insieme alla misticanza dell’orto con orata marinata, mousse di melanzane, burrata e maionese allo zenzero, passiamo al Meursault Perrieres 2008 di Coche Dury, perfetto per questo piatto delicato e complesso. I profumi di buccia di limone, nocciola, pietra focaia e pepe bianco annunciano un vino  voluminoso, burroso, teso, preciso e sapido. Il finale è lunghissimo. Un tripudio per il palato (voto 97).

Sul risotto ai piselli e asparagi iniziamo con i rossi. Forse l’accostamento è un po’ azzardato, ma siamo impazienti. Il Griotte Chambertin 2009 del Domaine Fourrier comunque ci sorprende. E’ un vino profumatissimo di lampone e amarena, morbido ed elegante al palato, di grande piacevolezza (voto 94) che accompagna molto bene la cremosità del risotto, la dolcezza dei piselli e il sapore intenso degli asparagi.

E con le coscette di rana gratinate alle erbe fini, piatto saporito e godurioso che ci fa fare il bis, un vino “cult”: La Tache 2009 del Domaine de la Romanèe-Conti. Il naso è intenso di lampone e arancia sanguinella con note speziate; in bocca il vino è esplosivo, voluminoso e bilanciato da una grande freschezza. I tannini sono seta finissima. Eleganza, sapidità e lunghezza del finale caratterizzano un sorso che va ripetuto finché si può (voto 97). L’avevo portato come comprimario. Non avrò esagerato?

Con la sella di capriolo passiamo ai due Hermitage. Cominciamo con la prima annata che Jean Louis Chave ha prodotto della rarissima Cuvée Cathelin: il 1990, un vino che da solo meriterebbe la ribalta. Di colore rosso rubino intenso ha un naso di more mature, carne affumicata e pepe di Sichuan. In bocca il vino è fruttato, concentrato e morbidissimo, controbilanciato da una perfetta acidità, denso e persistente. Potenza pura, racchiusa in un guanto di velluto (voto 99). A proposito, la sella era cucinata alla perfezione.

E finalmente ci siamo. Cosa rende superlativo un vino? La fama o la perfetta integrità dopo quasi 60 anni, la rarità o l’incredibile densità, il prezzo inaccessibile o la tensione sul palato creata dal perfetto equilibrio, l’aspettativa di bere una cosa mitica o la complessità sensoriale? O magari l’interesse che può suscitare in chi non l’ha ancora bevuto piuttosto che il finale lunghissimo, la straordinarietà dell’evento o l’ indimenticabile nota di affumicato e oliva nera, la sensazione di avere avuto una botta di fortuna ad essere stato al posto giusto nel momento giusto oppure la consapevolezza che così buono sarà difficile che ricapiti? Non so dare una risposta. Forse è tutto questo. La Chapelle del 1961 è un vino strepitoso. Si presenta densissimo, dal colore rosso rubino carico. Il naso è complesso con note di oliva nera, tartufo, liquirizia, mirtillo e salsa di soia. In bocca il vino è concentratissimo, fine, teso ed elegante con un’espansione aromatica monumentale. È un vino complesso e stratificato, con una persistenza infinita. Uno dei vini migliori che abbia mai bevuto (Voto 100).

La naturalezza dei Bras

Nel cuore dell’Aubrac, come una navicella spaziale in una dimensione a sé stante, si trova in tutto il suo splendore la Maison Bras. In questa bianca struttura tra i dolci pendii circostanti, nel ristorante Le SuquetSébastien Bras continua nella tradizione iniziata dal padre Michel oltre trent’anni fa. Metafora di una fortunata indagine gustativa, che ancora oggi ha come fulcro l’elemento vegetale, lo spirito Bras è sintetizzato nello slang dialettale del luogo niac: ritmo, energia, e sorpresa nelle piccole cose.

La spazialità del gusto

La leggenda parla chiaro, gli elementi nei piatti ancora di più. Gargouillou nell’etimo oltralpe denota confusione e stordimento, mentre nel linguaggio gastronomico è il piatto firma dei Bras. Dal 1983 la ricetta evolve ogni giorno in colori, consistenze e infiniti abbinamenti. Sul piatto danzano oltre 60 elementi del mondo vegetale, ciascuno con inaspettate sfumature cromatiche e gustative. Una creazione che racconta della biodiversità della regione e che, nella confusione di elementi, fa emergere l’ordine del genio culinario.

Di rilievo anche la Tarte di pomodoro corno con quenelle di crema al finocchietto selvatico e tartufo estivo. Un piatto per celebrare gli ultimi sprazzi della bella stagione: un pomodoro i cui toni dolcissimi sono amplificati dalla sfoglia formidabilmente leggera alla base, chiudendo con il richiamo terroso del tartufo e il sentore delicatamente balsamico del finocchietto selvatico di montagna. L’imperioso foie gras, abbinato con grazia alla freschezza e all’acidità di un porcino locale poché in un brodo di aceto e sakè, traghetta al finale aromatico offerto da liquirizia e zucca. Uno dei piatti più brillanti della sequenza.

E poi c’è il capitolo dolci, di rilevante importanza. Qui, infatti, nel 1981 nacque il dolce più imitato al mondo, il Coulant originel o tortino con cuore caldo, proposto ancora oggi per ribadirne la proprietà intellettuale, ma soprattutto tecnica. Poter degustare piatti come questo nella maison Bras implica degustare la storia passata, contemporanea e in divenire di un pezzo di Francia. La familiarità del piatto, riconoscibilmente codificata, la conoscenza mistica delle erbe del luogo, sono qui capovolti da una scoperta quasi giornaliera. Il conosciuto diventa innovativo stupendo nella semplicità calata dell’accostamento preciso, mirato, complesso. Una balade, come il titolo del menu recita, tutta da vivere.

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