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Mirazur

Il Mediterraneo secondo Mauro Colagreco

Mauro Colagreco e il suo ristorante, “Mirazur” di Mentone, sono oggi un punto di riferimento per la gastronomia francese e mondiale. Il titolo di miglior ristorante del mondo nel 2019 secondo la classifica “50 Best” stilata ogni anno dalla rivista britannica “Restaurant” e le tre stelle Michelin ottenute il medesimo anno, primo Chef a non essere nato sul territorio francese a ricevere tale riconoscimento Oltralpe, ne hanno sancito il definitivo ingresso nell’Olimpo dei grandi.

Colagreco è nato in Argentina e ha origini italiane (la sua famiglia è di Guardiagrele, in provincia di Chieti) ma la sua formazione è avvenuta in Francia, al cospetto di vere e proprie leggende della gastronomia francese, dalla prima esperienza con Bernard Loiseau fino ai due grandi Alain, Ducasse e Passard. L’influsso di questi ultimi è assai visibile nella sua cucina, che ne costituisce una perfetta sintesi capace di unire il rigore, la disciplina e l’amore per il Mediterraneo di Ducasse alla sensibilità nel trattare l’elemento vegetale, appresa in Rue de Varenne, quale sous chef di Passard; il tutto, filtrato dallo spirito cosmopolita di chi si sente autenticamente cittadino del mondo e vede nella cucina un mezzo per abbattere barriere e limiti.

Così, la cucina di Colagreco è il trionfo del concetto di glocal, influenze globali ma prodotto locale, frutto di una fitta rete di fornitori ma, soprattutto, dei magnifici giardini e orti che circondano il ristorante e che costituiscono il suo vero cuore pulsante.

Univers Mirazur

L’importanza dell’orto è oggi ancor di più rimarcata dall’impostazione stessa del menù. Il ristorante propone infatti un solo menù che cambia giornalmente in funzione del calendario lunare, ruotando attorno a quattro elementi Terra, Acqua, Aria e Fuoco che si esprimono, secondo i principi della biodinamica, rispettivamente nelle radici, nelle foglie, nei fiori e nei frutti, i quali costituiscono l’elemento centrale della degustazione. Il risultato sono piatti dai sapori nitidi e freschi, di grande eleganza e leggerezza, ma anche di immediata (ma non banale) piacevolezza, oltre che di una bellezza rara, anche per un ristorante di questo livello.

L’universo dei fiori, provato nella presente visita, rivela la capacità di Colagreco di estrarre da un elemento, quello floreale, spesso visto come semplice orpello estetico, quasi ridicolizzato come vezzo fine a sé stesso, un caleidoscopio di profumi e sapori che va dalla freschezza e acidità della Tartare di ricciola, caviale e fiore di liliacee e del Carpaccio di manzo e barbabietola, dove la nota fresca derivante dall’ibisco smorza, senza sovrastare, le note terrose della barbabietola, ai sentori tropicali del fiore di osmanto utilizzato per la quasi eterea salsa bernese in accompagnamento alla grande materia prima dello scampo e, anche, infine, alle note fruttate del Ragout di mare (scampi, calamari, trippe di merluzzo) con taccole e nasturzio. A chiudere la parte salata della degustazione non un secondo piatto di carne, come ci si potrebbe aspettare, ma una Torta di carciofi, parmigiano e tartufo nero con vari piatti satellite che ruotano attorno sempre al carciofo, che costituisce il piatto più spiccatamente gourmand sorretto dalla ricchezza di una concentratissima salsa périgourdine ma al tempo stesso smorzato da una più fresca al limone.​

La filosofia del ristorante pervade anche la selezione dei paring alcolici e non, per i quali si predilige da un lato la selezione di vini provenienti da cantine che lavorano in biodinamica, dall’altro si offre anche la possibilità di optare per una selezione di succhi, cocktail analcolici e infusi basati sullo stesso tema del menù degustazione. In conclusione non si può non rimanere colpiti dallo straordinario livello raggiunto da questo ristorante sotto ogni aspetto: dalla vividezza e nitidezza della cucina alla coerenza dell’approccio fino al servizio, impeccabile, professionale ma non distaccato, fino alla bellezza della location, con una vista davvero unica. Tutto ciò non può che giustificare pienamente i traguardi raggiunti in questi anni.

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“Mediterrafricaneo”

Già non è facile vivere una vita, figuriamoci tre. Alexandre Mazzia nasce in Congo e ivi trascorre a Pointe-Noire, affacciata sull’Oceano, la sua adolescenza, prima di trasferirsi a Marsiglia. Nella città focese si afferma nel basket professionistico coltivando nel frattempo la sua passione per la cucina. Appesa la canotta al chiodo, e dopo alcune esperienze tra Francia e Spagna, apre nel 2014 il suo ristorante, AM, che in poco tempo si afferma in Francia fino a fargli ottenere le 3 stelle Michelin nel 2021, dopo soli sette anni dall’apertura.

Un riconoscimento che vale quanto un canestro da tre punti decisivo, realizzato all’ultimo secondo del quarto tempo di una finale, perché ottenuto in controtendenza allo spirito classicista tipico della cucina francese che ha reso feticci le preparazioni al guéridon, l’anatra alla pressa, il Pâté En Croûte piuttosto che la Lièvre à la Royale. Da AM non troverete nulla di tutto ciò. Qui va in scena un nuovo filone culinario che possiamo definire “Mediterrafricaneo”, sincrasi perfetta delle vite dello chef, ove spezie e affumicature si commistionano alla perfezione con pesce, ortaggi, vegetali e frutta, il cui imprinting della terra di origine marchia i percorsi degustativi come l’impronta perpetua di un sigillo.

D’altra parte la vita e l’esperienza, anche culinaria, di Mazzia è stata non poco influenzata, oltre che da Francia e Congo, anche dal passaggio in Spagna, culla della rivoluzione e dei dogmi culinari classici, che in quella terra hanno vissuto stravolgimenti importanti e significativi.

Un viaggio verso le spiagge africane

Ma parlando più direttamente della nostra esperienza il susseguirsi di piatti si articola in due grandi momenti, ognuno dei quali ricorda una sorta di percorso “kaiseki” riportato alla tradizione delle tapas spagnole. Un primo step spazia dalle note marine del gambero, del katsuobushi, dello scampo per approdare alle note vegetali della pastinaca in agrodolce, foglia di amido e mela verde o dell’acqua di legumi e della radice di sommacco. Prosegue e trova il suo epilogo poi con un biscotto vegetale guarnito da un crema dalle note erbacee-iodate che dialoga con anguilla affumicata e cioccolato. Il secondo grande momento vede protagonisti piatti come cozze, sgombro, aringa, cocco, mojito al dragoncello e crema verde o spinaci, vermicelli al curry, salsa verde saté e barbabietola, virando verso la dolce conclusione di banana fermentata, riso soffiato, arachidi caramellate e kumquat o mais glassato, aceto balsamico 25 anni, meringa di mais affumicato alla griglia. Una serie di atti unici, concatenati da un filo conduttore, che compiono e si uniscono nei due momenti ben delineati e sopra descritti.

Che Alexandre Mazzia sia uno spirito libero si manifesta in ogni angolo del locale e dell’esperienza vissuta da lui: negli interni del locale, nelle pietanze, nelle stoviglie, nella musica di sottofondo sulle note delle canzoni di Bob Marley. A tratti la sensazione è quella di trovarsi sulle spiagge africane in riva al mare a piedi nudi attorno a un falò tra amici a godere dei sapori, degli odori e degli umori di terre lontane ma che ad un tratto appaiono più prossime di quanto sembri. Quando cucini in non più di 10 metri quadrati, sei coadiuvato da uno staff di sala e cucina di circa 15 persone, servi contemporaneamente non più di 20/25 commensali, e riesci a raccontare attraverso il cibo una storia, la tua, un solo pensiero ti assale: siamo di fronte a un vero e proprio fenomeno culinario.

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L’Auberge du Père Bise: dal 1903 ad oggi

Tra i grandi centri mondiali del lusso, il lago di Annecy ha di diritto uno dei posti d’onore. Con grandi alberghi e ristoranti gourmet, questa non può che essere una delle mete “feticcio” di ogni appassionato che si rispetti: nel raggio di alcuni km sono presenti 13 stelle Michelin e numerose strutture alberghiere a 5 stelle. I comuni che si affacciano su questo bellissimo lago hanno giustamente sviluppato una vocazione turistica, ritagliando un posto privilegiato per l’alta cucina.

Terra meravigliosa l’Alta Savoia, ceduta dal Regno di Sardegna alla Francia nel 1860; particolare magia ha poi questo lago, detto il “lago blu” per la pulizia delle sue acque, avvolto dalle montagne savoiarde. Proprio a ridosso dell’acqua, nel comune di Talloires, sorge questo storico albergo-ristorante: l’Auberge du Père Bise, un Relais & Chateaux che sa mischiare alla perfezione storia e modernità. La posizione è assolutamente incomparabile: una vista unica su tutto il lago e la possibilità di accedervi direttamente dal pontile privato. Un luogo intriso di storia della gastronomia e ospitalità francese.

Fondato nel 1903 da Marie e François, è con il figlio Marius e sua moglie Marguerite che Père Bise entra nell’Olimpo dei grandi locali di Francia. Marguerite è la chef: 1 stella nel 1931, due nel 1933 e poi la grande cavalcata fino al 1951 che la consacra tra le grandi cuoche della storia francese con tre stelle, terza donna nella storia ad ottenere questo riconoscimento dopo  Eugénie Brazier e Marie Bourgeois. Più tardi, negli anni Sessanta, François Bise continua la strada tracciata dai suoi genitori, con la moglie Charlyne Bise al suo fianco. L’Auberge conserva le sue tre stelle dal 1951 al 1983, per poi riottenerle dal 1985 al 1987, quando Charlyne mette alla guida della cucina lo chef Gilles Furtin.

Arriviamo infine ai giorni nostri: la storia dell’Auberge si incrocia con quella di Jean Sulpice nel 2016, quando lo chef nativo di Aix-les-Bains, assieme alla moglie, decide di rilevare la struttura e ridargli nuova linfa vitale. Allievo di Marc Veyrat, fino a diventare suo secondo nel mitico ristorante di Veyrier-du-Lac (ora nella mani di Yoann Conte) e alla Ferme di Mon Père a Megève, dopo una esperienza in Val Thorens già ricca di riconoscimenti, Sulpice coglie al volo la grande opportunità della vita: legarsi a una struttura che aveva fatto la storia della accoglienza francese e cercare di ricostruire un nuovo presente, un nuovo futuro. Perché no, recuperando i riconoscimenti dei decenni precedenti.

Un investimento importante anche per rinnovare la struttura: nuova SPA con piscina coperta vista lago, ammodernamento delle camere e degli spazi comuni. Il Covid certamente non aiuta, ma la tenacia dei coniugi Sulpice è invidiabile. Nuovo rilancio nel 2021 e 2022: attualmente i lavori di ristrutturazione stanno coinvolgendo il bistrot e una parte del cortile. La clientela fortunatamente risponde bene: un tutto esaurito in un giovedì sera di bassa stagione lascia dormire sonni più tranquilli, ma non c’è dubbio che una struttura come questa, con personale così numeroso, debba viaggiare a pieno regime sempre.

La cucina di Jean Sulpice

La cucina di Sulpice evidenzia una linea di pensiero ben precisa: tra lago e montagna, in coerenza con quanto si può ammirare oltre le vetrate della sala; istinto, equilibrio e grande tecnica. La Savoia entra nel piatto nella quasi totalità del menù, così come ha un palcoscenico d’onore il pesce di lago. Cucina di forte impronta classica, ma fresca, in cui erbe selvatiche ed aromatiche giocano un ruolo centrale. Il percorso è obbligato: solo menu degustazione, a 6 o 8 portate.

Il nostro menu ha registrato due velocità (e livelli) decisamente diversi. Se l’inizio non ci ha completamente convinto, con piatti sicuramente ben eseguiti ma poco incisivi, dai piatti principali abbiamo goduto di almeno due capolavori, quei piatti per cui vale la pena mettersi in macchina e partire anche da molto lontano. Parliamo ad esempio del salmerino con burro “maître d’hôtel” profumato all’abete rosso. Il salmerino ricoperto dal burro è poggiato su tralci di vite, l’acqua di lago bollente viene versata sul fondo del piatto e poi viene posizionata la cloche: il calore scioglie il burro e rilascia tutti i profumi del bosco. L’apertura della cloche è una festa per vista e olfatto. Un grandissimo piatto, tecnicamente ma anche concettualmente, perché unisce il pensiero al gesto, lago e montagna in una preparazione di gusto eccelso.

Così come il capriolo, che finisce la cottura nel piatto grazie a un brodo di cacao con l’aggiunta di alcune spezie di montagna: semplicemente da brividi. Il brodo è quanto di più concentrato si possa immaginare, il risultato al palato è inebriante. Infine, tra i fuochi d’artificio, da segnalare il dessert: cioccolato e zafferano di Savoia. Grandissimo dessert, costruito tra contrasti freddo/caldo e morbido/croccante, con lo zafferano dosato perfettamente. I restanti piatti, ottimi ma non certamente al livello dei sopra citati, determinano un voto finale non eccelso. L’uovo ai gamberi è saporito ma eccessivamente grasso, non un grande benvenuto per cominciare la cena. Negli gnocchi, il gusto di mais è intenso e convincente, ma la cialda si bagna nella salsa di crescione perdendo croccantezza.

Si sta bene all’Auberge, anche grazie all’abilità di un grandissimo sommelier, Lionel Schneider, con un passato alla Pyramide di Vienne e al Ritz di Parigi. La sua carta vini, pur dai ricarichi notevoli, come è normale che sia, ci ha davvero positivamente sorpreso, perché dimostra una personalità che non sempre si ritrova in queste grandi tavole. Grandi etichette ma anche grande ricerca e una diversa e stimolante carta dedicata solo alla Savoia.

Non c’è dubbio quindi che stiamo parlando di un grandissimo cuoco e di una struttura da sogno, che merita il viaggio da ovunque vi troviate. Ma la domanda che è rimasta sospesa nell’aria è quanto questa tavola si potrebbe giovare di una proposta alla carta, eliminando orpelli che poco apportano a livello di gusto e appagamento. Con due piatti alla carta (più un dessert) questo favoloso cuoco non darebbe il meglio di sé? Domanda, al momento, senza risposta, mentre assistiamo al moltiplicarsi di ristoranti che propongono percorsi obbligati e continuiamo a pensare che solo in pochissimi casi, in Europa, continui a valerne la pena.

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Lo spessore di Bruno Verjus à la Table

In una città che gastronomicamente, per antonomasia, è ricca di stimoli a 360° con una qualità media elevatissima, la figura di Bruno Verjus si staglia con titanica e coerente grandezza.

Nato a Roanne, nella terra di una delle grandissime maison francesi, i Troisgros, Bruno Verjus ha da sempre coltivato una passione per il mondo della gastronomia letteralmente divorante; sia come giornalista gastronomico, che come blogger e titolare di una rubrica radiofonica, ha dedicato infatti da sempre interesse e attenzione alla cultura del cibo e al cibo come cultura. Da tutti i viaggi fatti nella sua attività imprenditoriale precedente all’ingresso nel mondo del food ha tratto la linfa, nel 2013, per sublimare la sua passione passando dall’altra parte del pass e concependo il ristorante dei suoi sogni, un locale dove la golosità veniva elevata a status con materia prima di qualità e livello tali da essere un benchmark assoluto.

Quando si parla di qualità assoluta si intende sottolineare una ossessiva, quasi compulsiva attenzione per l’approvvigionamento di ingredienti tramite una filiera cortissima, che prevede un rapporto diretto con ogni produttore di quasi ogni singolo ingrediente il quale viene acquisito dallo Chef rispettandone rigorosamente tempi, stagionalità e quantità disponibili senza mai forzare nessuna di queste prerogative.

La Table al centro, anzi, in cucina

Il risultato è una offerta gastronomica di inopinata potenza e altissimo tasso di libidine gastronomica anche grazie a una brigata che, davanti ai propri occhi, si mette in tutto e per tutto al servizio degli eccelsi ingredienti esaltando e riproponendo al meglio quanto concepito dallo Chef in una location, un piccolo locale, dove la cucina è al centro e dove i tavoli, letteralmente, la avvolgono senza soluzione di continuità.

Scorrere il menù, che cambia continuamente, con cadenza pressoché quotidiana, rappresenta una dura prova di pavloviana resistenza in cui il compendio a 180 o 300€ ne rappresenta il salvifico compromesso.

E così dalle mani dei due bravissimi e italianissimi executive di Bruno Verjus, Cristian Stradaioli e Giuseppe Mariani (segnatevi questi nomi che tra qualche anno saranno di dominio pubblico), sarà possibile assaggiare i migliori carabineros della vostra vita; una ventresca di tonno di pornografica bontà; un homard cotto al vapore e appena rosolato in un burro arricchito del suo carapace, di rara scioglievolezza; un rognone aromatizzato alle erbe e rifinito con un lieve passaggio in aceto di memorabile golosità; delle madeleines che rappresentano un punto di riferimento definitivo.

Insomma una tavola che, dopo un pasto del genere, diventerà con ogni probabilità LA tavola, oppure una delle tavole di elezione del vostro gastronomico peregrinare.

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Un’esperienza senza tempo seduti alla leggendaria tavola di Bernard Pacaud

Cerca il bel prodotto. Cucina senza problemi. Offri semplicemente il meglio“. È la “cucina di civiltà” di Bernard Pacaud, uno dei sommi cuochi francesi viventi, che paragona i suoi piatti nientemeno che all’ambrosia – da cui il nome del ristorante, L’Ambroisie – ovvero “il nettare degli Dei”. 

Un pensiero, una filosofia, un credo che riassume perfettamente quello che accade tra le mura di questo storico ed elegante tempio della ristorazione parigina, aperto nel cuore della labirintica Marais, sotto i portici di Place des Vosges nel 1986 proprio nel luogo in cui, un tempo, c’era la bottega di un orafo. Con il suo arredamento in stile settecentesco con arazzi di Aubusson, pavimenti in parquet originali e mobilio d’epoca, questo tempio della gastronomia offre qualcosa che non tutte le grandi tavole del mondo possono permettersi: un viaggio nel tempo.

A L’Ambroisie la semplicità del prodotto stagionale e la sua sublimazione sono il frutto del connubio sempre rinnovato tra ricerca dell’eccellenza e rispetto della tradizione. Un ristorante leggendario in cui si vive un’esperienza capace di emozionare anche il più navigato degli appassionati gastronomi, come dimostra il fatto che un importante critico gastronomico francese ha scritto che un pranzo a L’Ambroisie è una festa, intima e senza clamori, per gli occhi e per il palato, centrando in pieno la sensazione che si prova seduti a questa tavola e ad ogni singolo assaggio di questo cuoco discreto, ossessionato dalla perfezione.

Il ristorante, tuttavia, è stato spesso criticato per il servizio, considerato in alcune situazioni troppo distaccato e supponente, o poco attento verso i clienti, circostanza che, in un tre stelle parigino, è lecito non aspettarsi. E circostanza che durante il nostro pranzo, fortunatamente e puntualmente, non abbiamo riscontrato; anzi, possiamo ben dire che tutta la sala, dal maître al più giovane cameriere, ci ha accompagnato con modi di fare discreti e gentili, di estrema professionalità.  

La perfezione di piatti “datati” più che attuali

Ad ogni modo Bernard Pacaud lascia parlare i suoi piatti riuscendo a farsi perdonare anche madornali scelte poco eleganti, se non scorrette, allorquando, ad una settimana dalla prenotazione, riceviamo una mail che ci informa che il menu prenotato ad un prezzo “favorevole” per il pranzo non sarebbe stato più disponibile a seguito dell’apertura post-covid (per intenderci, alla carta si spendono dai 280 ai 400 euro per 3 piatti, mentre il menù déjeuner era prezzato 180 euro!). Peccato averlo saputo solo dopo aver prenotato tutto in funzione di quel pranzo, ma tant’è.

Ciò detto, tornado al cibo, c’è poco da dire, se non esaltare all’ennesima potenza la classe, la magnificenza e la straordinaria esecuzione dei piatti di Pacaud, da più di trent’anni sulla cresta – concreta – dell’onda. La scelta dei sui tre piatti leggendari (feuillantine al sesamo con scampi, spinaci e salsa al curry; le scaloppine di branzino selvaggio, lamelle sottilissime di carciofi e caviale e la torta al cacao amaro) è tassativa per chi volesse scolpire il parametro della perfezione sulla propria erudizione gastronomica.

Ogni ingrediente occupa un posto preciso e determinante all’interno del piatto. Il disco di sesamo croccante che nasconde gli scampi, meravigliosamente carnosi, seduti su un altro croccante di sesamo adagiato su un letto di spinaci, ha sapore leggermente amarognolo ma intensissimo. Il tutto a sovrastare il bagno dorato di una incredibile salsa al curry. Lucida, densa, elegante e raffinata, a legare insieme l’intero piatto. Ci sono sapori dolci, aciduli, perfetti. Il branzino è tenero, appena cotto dal vapore, che lascia la carne con una persistenza iodata che ti fa piacevolmente sprofondare nel mare. Stesso sussulto per i carciofi, meravigliosi per sapore, consistenza e marinatura e, ça va sans dire, per la generosa salsa al caviale, tutt’altro che pleonastico. Poi si chiude con la torta al cacao e gelato alla vaniglia: anch’essa capace di toglier il fiato per l’eterea consistenza e gli intensissimi sapori. Uno dei migliori dessert mai assaggiati in vita nostra.

Nonostante il figlio Mathieu abbia ormai da anni intrapreso una strada separata da quella del padre, ora ultrasettantenne, il perfezionismo di monsieur Bernard è sempre più vivo e riscontrabile, in maniera più che tangibile. Certo, l’homard e l’agnello rispetto al predetto trittico di capolavori sono soltanto eccellenti, quel tanto che basta per farti venire la voglia di tornare a provare altri piatti di stagione.

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