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Astrance

Il nuovo “Astrance”

Nel 2019, l’abbandono di rue Beethoven da parte di Pascal Barbot – di poco successiva al declassamento operato dalla guida gommata – aveva fatto temere di aver perso uno dei talenti più cristallini della cucina francese contemporanea, un cuoco che per anni aveva rappresentato “LA” tappa indispensabile nella capitale d’oltralpe (basti guardare alle schede comparse su questo sito negli anni passati). Sennonché, dopo una serie di rinvii, al termine dello scorso anno l’Astrance ha riaperto nella nuova sede di Rue de Longchamp. In particolare, abbiamo avuto la fortuna – casuale, la sala principale era stato interamente riservata – di inaugurare il Salon Joël [Robuchon, ça va sans dire], situata tra le mura in cui si trovava il Jamin, il ristorante dove “il cuoco del secolo” ha definitivamente segnato la storia della gastronomia. Il debutto del nuovo corso è stato accompagnato da bisbigli e commenti poco convinti, seccamente smentiti da un pranzo entusiasmante – il più convincente del, seppur breve, tour parigino -, che ha messo in mostra un cuoco in gran forma, energico – la nuova sede e la pausa forzata hanno certamente contribuito – ed ancora capace di gesti emozionanti.

Il ritorno di un cuoco straordinario

In considerazione della recente riapertura, abbiamo optato per il Menù déjeneur, il meno esteso tra i due degustazione disponibili. Il primo passaggio Insalata di radici invernali: sedano rapa, topinambur, tartufo nero, cerfoglio tuberoso e salsa agli agrumi ha immediatamente illuminato i nostri volti: le diverse consistenze dei tuberi (cucinati al vapore) e le note terroso-minerali si integravano meravigliosamente con la delicata acidità e freschezza della salsa agrumata, di rara leggerezza – la componente grassa quasi impercettibile – ed eleganza. Un passaggio che ha inevitabilmente fatto venire alla mente i trascorsi passardiani di Barbot. Il secondo passaggio – Sgombro, arancia, bianco di cedro, funghi, salsa al miso e riso di Ogata –  ha poi inferto la stoccata definitiva: la nota intensità del sapore dello sgombro – cucinato alla perfezione – trovava un perfetto contrappunto nell’umami della salsa al miso (ancora una volta da applausi) e nelle note dolci ed agrumate delle altre componenti. Il prezioso riso di Ogata in accompagnamento avrebbe ben potuto rappresentare una portata a sé. Un passaggio di eleganza strabiliante, in cui si percepiva nitidamente e intensamente l’eco della cucina kaiseki. La classe di un grande cuoco si vede anche nell’approccio ad un grande classico – dove il margine d’intervento è millimetrico -, la Pithivier – in questo caso di anatra e foie gras – (terreno di confronto tra i grandi ristoranti parigini, che, nel periodo invernale, quasi sempre la inseriscono in degustazione): a fare la differenza sono stati il rapporto quantitativo tra foie gras e anatra (quest’ultima prevalente) e l’utilizzo di una salsa alla rosa canina – dall’intensa acidità – al posto del consueto fondo di carne: una leggerezza inusuale e le note minerali e ferrose della carne in evidenza. La parte dolce del percorso – nelle mani della giovane Elise Guiroy – è estremamente coerente con la cucina di Barbot: un pre-dessert che trasuda genialità – Spuma di patate e vaniglia – ed una Tarte di pera, noci Pecan, crema di mandorla e sorbetto di pera ineccepibile, dalla dolcezza solo sussurrata, con le noci Pecan e il sorbetto a conferire, rispettivamente, sapidità e freschezza. La vicinanza della visita rispetto all’apertura e la scelta del menù meno articolato non ci consentono di esprimere ancora una valutazione definitiva – il 18,5 è il punteggio che verrebbe alla mente -, ma siamo felici di poter dire che Pascal Barbot è tornato ai fornelli e l’Astrance è nuovamente una tappa irrinunciabile per le prossime scorribande parigine di noi appassionati.

IL PIATTO MIGLIORE: Sgombro, arancia, bianco di cedro, funghi, salsa al miso e riso di Ogata.

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Alta Savoia: montagna ed acqua dolce

Emmanuel Renaut ha aperto il suo ristorante, con annesso hotel, ormai 25 anni orsono a Megève, elegante cittadina incastonata tra i monti dell’Alta Savoia, con l’obiettivo di unire le sue due grandi passioni: la cucina e la montagna. Tra le sue pregresse esperienze vanta tre anni passati all’Auberge dell’Eridan prima come chef de partie e poi come sous chef di Marc Veyrat, il celebre cuoco dal “cappello nero”, che forse più di ogni altro ha contribuito allo sviluppo dell’alta gastronomia nella regione, quale vero antesignano della filiera corta e della valorizzazione del prodotto locale. Prodotti che lo stesso Renaut predilige e che sa valorizzare come pochissimi altri, grazie a una capacità veramente fuori dal comune di trattare ed indagare l’ingrediente.

Tecnica, consistenze e prodotto

Una cucina di paesaggi montani: cacciagione, pesci d’acqua dolce, erbe, funghi e persino legno, fanno tutti capolino all’interno dei due menù provati (la versione da otto portate scelto per cena e quello da cinque per pranzo). Tra gli antipasti non si possono non segnalare due passaggi vegetali come il Finto risotto di cardo e tartufo nero, in cui è il cardo a fare le veci del riso e a venir mantecato creando un’illusione davvero magistrale, e il Cavolo verde e rosso servito in un trittico di lavorazioni e consistenze. Altrettanto da citare il geniale Sotto un sottile strato di ghiaccio in cui, a dispetto della nobile materia prima impiegata, è il disco d’acqua primaverile ghiacciata con genziana e pompelmo a rubare la scena in un gioco di masticazione e di temperature davvero eccezionale. Ciò detto, è nella cottura dei pesci d’acqua dolce e delle carni che Renaut si rivela un fuoriclasse assoluto, passando dalle consistenze impossibili di un salmerino di una morbidezza irreale e di un Biscotto di luccio e bottatrice di lago, simile a un crème caramel, fino alle millimetriche cotture dell’agnello e del cervo, rigorosamente cacciato, esaltando una materia prima già di per sé suprema.

Nota di merito, infine, anche agli splendidi dolci di Aurelie Colomb-Clerc, goduriosi e diretti ma non privi di profondità, e alla gestione della sala supervisionata con grazia da Kristine, moglie di Renault, per un’esperienza entusiasmante a 360 gradi.

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Oltre il velo

Esistono vini unici, emblema della passione e della tenacia di viticoltori eroici che da impervi terreni hanno saputo estrarre un nettare giallo dorato, il Vin Jaune.

Siamo nello Jura, piccola enclave nella regione della Franche-Comté e una delle più ridotte zone vitivinicole francesi, dove i vigneti, fitti di viti antiche, arrampicano fino ai 500 m s.l.m. in terreni ricchi di silice e argille, marne grigie o bluastre di origine giurassica. Château Chalon è un borgo arroccato tra le vigne, uno dei pochi esempi di centro abitato della zona, che deve la sua nomea all’omonima appellation, AOC dal 1936.

Qui la risolutezza di una viticultura ardua unita ad un clima semi-continentale e a terreni unici, forgiano un vino straordinario, con un ottimo potenziale di invecchiamento.

Il Vin Jaune, conosciuto anche come vino giallo, è ottenuto da uve da vitigno Savignin, appartenente alla famiglia del Traminer non aromatico, a maturazione tardiva che le rende naturalmente ricche di zuccheri pur conservando un’elevata acidità. Alla tradizionale fermentazione segue un affinamento in botti di rovere scolme (pas “ouillé”) per sei anni e tre mesi per consentire la formazione di un velo (“a la voile”) di lieviti indigeni sulla superficie del vino. Questo metodo di invecchiamento, simile al flor utilizzato per lo Sherry, per la Vernaccia di Oristano e la Malvasia di Bosa in Sardegna, produce un’ossidazione che conferisce al vino identitari e unici profumi e complessità.

Nel cuore della denominazione Château Chalon troviamo le vigne di Jean Macle, che dal 1850 e da sette generazioni di vignaioli, è tra le più rinomate cantine dell’AOC dello Jura. Qui, la proprietà di una dozzina di ettari vitati, di cui soltanto il 30% è a Savagnin mentre il restante è Chardonnay, segue i dettami dell’agricoltura biologica e produce oltre al Côtes de Jura, il Château Chalon.

La degustazione

II Vin Jaune Château Chalon 1982 di Jean Macle si presenta vestito di un bel giallo dorato. L’evoluzione aromatica si articola in effluvi di mallo di noce, si adorna della speziatura del cardamomo e della noce moscata, in un’alternanza di note dolci, rotonde della banana matura e della pera kaiser al forno, e note aspre di sommacco e olio di oliva. La palpitante succosità si riconferma al palato, in un gioco di avvicendamenti sapidi e acidi, in una bocca che ricorda il caffè blue mountain, e le note più aspre del kefir. La bella freschezza di questo Vin Jaune lo fa ricordare e ancor più solletica il sorso successivo nella sua imperiale beva.

L’onda dorata della Costa Azzurra

Arnaud Donckele rappresenta uno dei talenti più puri prodotti dalla gastronomia francese contemporanea. Cresciuto nelle cucine di vere e proprie leggende come Michel Guerard, Alain Ducasse e Jean-Louis Nomicos approda alla guida del ristorante La Vague d’Or, di Saint Tropez ,a soli 27 anni, nel 2004, e a 35 diventa il più giovane Chef tristellato di Francia.

Oggi gestisce due ristoranti a tre stelle Michelin, dopo l’apertura di Plenitude a Parigi (sempre all’interno di un hotel della catena Cheval Blanc), il quale ha ottenuto gli ambiti tre macarons dopo un solo anno d’apertura, senza che ciò l’abbia minimamente distratto dalla sua precedente insegna, che resta il centro e il cuore pulsante del suo progetto. La cucina di Donckele è classica e moderna al tempo stesso, con piatti complessi, stratificati, estremamente tecnici e studiati nella composizione ma non manieristici perché sempre votati alla centralità del gusto, con un’attenzione maniacale a uno dei capisaldi della cucina francese, le salse, che egli sa assemblare come un grande equilibrista, donando ricchezza e spessore al piatto ma senza mai appesantirlo grazie a un perfetto utilizzo delle note iodate e agrumate.

L’influsso di Ducasse è poi sicuramente presente nella capacità di declinare il classicismo francese in una veste mediterranea, leggera e, talvolta, decisamente fresca nonché nella dedizione assoluta verso il prodotto, che sia esso animale, ittico o vegetale grazie alla collaborazione con una fittissima rete di allevatori e pescatori locali, nonché al proprio personale orto (le Jardin de la Piboule), il tutto per una materia prima autenticamente a chilometro zero.

Classicismo francese 2.0

Il percorso degustazione in cinque atti “Balade Epicurean” si apre con una sequenza di petit four di notevole impatto tra cui spicca l’Ostrica con crema di finocchio con le sue note fresche e iodate e un perfetto fiore di zucchina croccante a fungere da cracker. Si prosegue quindi con l’arrivo del pane il quale, da solo, costituisce già un manifesto programmatico: Pomodoro, basilico e, ad accompagnare, l’olio extravergine d’oliva al posto dell’onnipresente burro. Inizia quindi la sequenza dei piatti principali in cui materia prima e salse di accompagnamento danzano in perfetta sintonia: ecco quindi susseguirsi la Leccia e il granchio marinato agli agrumi con salsa ai “coralli” e bergamotto, piatto fresco e agrumato; l’Acciuga, patate e carciofo con zabaione tiepido di pesce girella, rouille e mandarino in cui il gusto pungente dell’acciuga è magistralmente smorzato dalla ricchezza del setoso “zabaione effimero”; infine, l’incredibile San pietro, uno dei migliori mai assaggiati, con zucchine in varie forme e colori, salsa di aliotide montata all’olio d’oliva e limone, vapore d’ostrica, caviale e vongole, in cui ancora una volta è la salsa a rubare la scena.

Non meno incisivi i piatti di terra, ricchi ma allo stesso tempo equilibrati, come nel caso della Pasta Zitone con tartufo nero, foie gras, carciofi, cappuccino al basilico e salsa perigourdine, omaggio a Jean-Louis Nomicos, e il Medaglione di filetto e animella di vitello con salsa con olive, capperi, salvia e pomodori accompagnato da una Tartelletta di cornetti e cipolle, di ispirazione Provenzale, elaborato a partire da una ricetta della madre di Thierry Di Tullio, impeccabile maître e anfitrione.

In conclusione, La Vague D’Or è oggi un ristorante imperdibile per comprendere la direzione intrapresa dalla cucina francese contemporanea, sospesa tra classicismo e modernità. In tutto questo, non possiamo concludere senza dire due parole sulla location, di grande fascino, sulla baia di Saint Tropez, e sull’impeccabile servizio in sala che consegna un’esperienza senza punti deboli e con pochissimi eguali, in Francia e nel mondo.

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Un italiano al comando

Il fatto di non poter vantare una storia secolare come altre cattedrali della ristorazione parigina, non ha impedito a questa insegna di meritarsi la palma del locale più “istituzionalmente” elegante della città. Le Taillevent, insostituibile per i déjeuner d’affaire che contano, è stato considerato per decenni la succursale dell’ora di pranzo dei vicini ministeri e il luogo dove andavano decise le sorti dell’alta finanza parigina. Gran parte del merito di questa fama va riconosciuto a Jean-Claude Vrinat, oggi passato a miglior vita ma rimasto nell’olimpo dei più grandi interpreti di sempre di quel ruolo che in Francia viene enfaticamente definito “maître des lieux” e che noi proviamo a tradurre con scarsa efficacia “patron”, nel quale il proprietario, con la propria costante presenza, si fa anche regista e custode dell’atmosfera dei luoghi.

Un’istituzione parigina con una così forte valenza simbolica potrà mai affidare la direzione gastronomica a uno Chef non francese? Ebbene, sì. E, guarda un po’, si tratta di un italiano. Giuliano Sperandio, classe 1982, di Diano Marina (IM) ma adottato fin dal 2006 dalla Ville Lumière, dove ha affiancato Christophe Pelè prima alla Bigarrade, minuscolo e avanguardistico locale nel 17ème e poi a Le Clarence, gioiello parigino della famiglia Dillon (i proprietari della costellazione bordolese di Haut Brion).

Il matrimonio tra Taillevent e Sperandio da un lato risponde a una forte esigenza di rilancio da parte della proprietà del Ristorante, incapace, negli ultimi anni, di trovare una guida gastronomica con le carte in regola per far rivivere a queste mura i fasti di un tempo; dall’altro impone allo Chef di interpolare il rigido spartito della Maison, più forte di qualsiasi curriculum-vitae, con la propria, personale, idea di cucina. Per comprendere i meccanismi alla base di questo processo di mediazione, la scelta più indicata è il menu “Gestes Taillevent”: quattro piatti, declinati in più servizi e completati al guéridon sotto gli occhi dei commensali, secondo i gesti rituali del servizio alla russa.

Il servizio alla russa esalta la frazione classica della cucina

Dopo essersi persi per qualche minuto in una carta dei vini che per profondità deve inchinarsi, in città, solo a quella della Tour d’Argent, ci si mette nelle mani di Arnould Baudoin, maître e direttore che a stile e savoir faire unisce straordinarie capacità di “trancheur”. Il percorso prende il via con il Caviale Oscietra, sostenuto dalla consistenza e dalla grassezza di una Battuta di tonno rosso e wagyu. Da qui in poi Monsieur Arnould si prende la scena. Inizia a mostrare la propria abilità al momento di trinciare la coda dell’Astice flambée al whisky torbato con fiori di zucca, a cui vengono affiancati la testa in salsa “thermidor” in tutta la sua tradizionale opulenza, le Chele con una maionese di corallo e fragole verdi allo stesso tempo avvolgente e fresca, i “gomiti” a condire delle perfette, italianissime, Tagliatelle al nero si seppia. Sale in cattedra al momento di sezionare il Piccione arrosto, del quale lascia francamente perplessi la dimensione della porzione (un intero piccione a testa), non certo la cottura millimetrica di ogni sua parte e la profondità di sapore della salsa.

In questo caso i tre “satelliti” sono il Ragù di fegatini con rape rosse e lardo, i Fagiolini con salsa di interiora, grano saraceno e sardina e la Sfoglia allo scalogno e sauce suprême. Un assaggio di formaggi dal carrello e inizia la danza delle Crêpes Suzette, a loro volta accompagnate da Gelato al latte, chantilly al the verde, gelatina di ribes e shiso. La scelta di Sperandio è, quindi, di muoversi all’interno di una solida intelaiatura classica che prevede esecuzioni raffinate condivise tra cucina e sala nelle versioni centrali dei piatti, per poi lasciare spazio, con misurati tocchi creativi, alla propria ragguardevole capacità di interpretazione degli ingredienti nei piatti di accompagnamento.

Un doveroso commento sull’aspetto economico: i prezzi, sommando il prestigio del luogo, le materie prime impiegate, il livello della cucina, il servizio e la cantina, appaiono sorprendentemente convenienti. Il menu “Heritage” costa 190 euro, il menu “Gestes”, qui descritto, 245 euro; à la carte si sta intorno ai 200. Tanto? La metà, circa, di quanto richiesto dai top-player della città (Pacaud, Passard, Gagnaire, Alleno, ecc.), a fronte di un divario qualitativo evidentemente più contenuto, che sembra via via assottigliarsi grazie al nuovo Chef.

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