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Clos des Sens

L’eredità di Laurent Petit

Il passaggio di consegne è avvenuto da circa un anno, senza troppo clamore, e oggi Laurent Petit, dopo aver portato sul lago di Annecy l’ambito terzo macaron, non è più il cuoco del ristorante Clos des Sens. Al suo posto è subentrato il suo braccio destro per moltissimi anni, Franck Derouet, il quale, come logico aspettarsi, ha scelto la strada della continuità. L’impronta e l’eredità di Petit è quindi ancora oggi estremamente presente come evidenziato da un lato dalla presenza nel menù del suo principale piatto signature dedicato ai funghi champignon, dall’altro nell’impostazione generale dell’intero menù che si focalizza ancora sui due elementi centrali della sua cucina: l’orto e il lago.

Cucina lacustre e vegetale

Proprio a tal proposito dall’orto risulta eccellente un bis di portate incentrate interamente attorno al pomodoro le quali ne evidenziano la varietà di sapori sospesi tra acidità, dolcezza e umami. Il piatto in oggetto è composto in prima battuta da un sorbetto di pomodoro con il suo gazpacho, affiancato, in un bicchiere, come bevanda, da acqua di pomodoro e olio di verbena nonché, in secondo luogo, da un cuore di bue cotto al forno con pesto ed una tartelletta di ciliegini e mandorle. Dal lago invece spicca su tutti il Pesce persico, guarnito da una foglia di shiso e il suo fegato, e impiattato con un trittico di salse: una alla Mondeuse, l’altra al Porto e una al soundachi il quale costituisce un piatto complesso e stratificato che oscilla tra note iodate e tanniche ben bilanciate da una spiccata acidità. Il piatto della serata, tuttavia, si rivela essere il già citato signature dishInsalata di champignon della Savoia, brodo di funghi – composto da champignon crudi tagliati sottilissimi con alla base un ragù di funghi e cipolle, il quale rivela una grande materia prima e una non banale concentrazione del gusto che si sprigiona appieno nello splendido brodo di funghi di accompagnamento.

I dolci risultano incentrati principalmente su freschezza e leggerezza come nel caso dell’ottimo Sorbetto di lamponi e peperoncino rosso. Nota di merito infine, oltre al servizio attento e cortese, alla splendida colazione offerta agli ospiti dell’hotel all’insegna di prodotti locali in parte auto-prodotti.

IL PIATTO MIGLIORE: Insalata di champignon della Savoia, brodo di funghi.

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Grandi Champagne all’insegna del Pinot Noir

Ci troviamo nella parte più a sud della denominazione, in quella regione della Champagne meno conosciuta che è la Côte des Bar, nel dipartimento dell’Aube. Una terra che nelle cartine ufficiali viene solitamente collocata a parte, quasi a voler evidenziare il distanziamento da Épernay e la sua famosa “Avenue de Champagne”, l’iconico viale ove svettano le imponenti sedi delle più grandi maison, una sorta di Rodeo Drive del Metodo Champenoise. Una distanza da cui la Côte des Bar, a ben vedere, ha tutto da guadagnare.

È proprio questa lontananza dallo sfavillante epicentro della denominazione, infatti, ad aver permesso alla Côte des Bar di preservare la sua autenticità; autenticità fatta di antiche case, costruite con la pietra calcarea prelevata nei vigneti circostanti, che oggi danno vita a piccoli borghi da cartolina. O ancora ai boschi di conifere che svettano sugli “envers” e che proteggono dalle masse di aria fredda proveniente da nord i pendii situati dirimpetto, gli “endroit”, dove si coltiva l’uva. Tuttavia, a rendere veramente singolare questa regione, è lo stretto intreccio che essa vive con la vicina Borgogna, alla quale, nel corso dei secoli, è stata ‘annessa e disannessa’ più e più volte, facendo sì che in questa zona si abbracciassero le tradizioni di entrambe le regioni.

Tutto ciò è particolarmente evidente nel comune di Les Riceys, un pittoresco villaggio adagiato sul fiume Laignes, che oggi possiede la più importante superficie viticola di tutta la Champagne, con 866 ettari di terreno coltivati a vigna. La dualità tra Borgogna e Champagne, qui, è visibile ancora oggi.

A Les Riceys, infatti, le case hanno tinaie con due ingressi, poiché all’epoca della loro costruzione, uno si trovava lato Champagne e l’altro lato Borgogna e, a seconda dell’anno, il vino veniva fatto uscire da una porta o dall’altra, in base alle offerte ricevute dalle due provincie. Fu solo nel 1927 che i vini bianchi dell’Aube vennero definitivamente integrati nella denominazione Champagne, ma i vigneti di Les Riceys mantennero comunque vivo il loro attaccamento alla Borgogna e in particolare al Pinot noir, del quale storicamente si servirono per la produzione del famoso Rosé des Riceys, un vino che leggenda vuole sia stato apprezzato e reso enormemente famoso da Re Luigi XIV.

Domaine Alexandre Bonnet – Les Riceys

Uno dei principali interpreti di questo territorio è il Domaine di 47 ettari Alexandre Bonnet a Les Riceys, facente parte del Gruppo Lanson BCC assieme ad altre iconiche referenze, come quella di Philipponat. Un nome che servendosi del termine “domaine”, tradizionalmente appartenente alla Borgogna, vuole mostrare come qui si prenda il meglio da entrambe le regioni. Sotto la guida del presidente Arnaud Fabre l’obiettivo tracciato per il futuro aziendale è stato infatti chiaro fin da subito: concentrarsi sul territorio, sulle vigne di proprietà e le uve che queste producono, perseguendo la migliore qualità possibile.

A differenza di molte Maison di Champagne, dove il vino viene fatto prima in cantina, qui non si cerca uno stile della Maison, ma la migliore espressione del terroir di Les Riceys, secondo un approccio che ricorda più la parcellizzazione borgognotta. L’Enologo Didier Mêlé e lo Chef de Cave Irvin Charpentier lavorano per produrre vini che riflettano appieno il terroir, in primo luogo preservandolo e adottando pratiche sostenibili, come la rinuncia a erbicidi e insetticidi, la piantagione di frutteti e la creazione di maggesi fioriti per le api. Dopodiché adottando metodi di vinificazione a basso intervento, con un uso limitatissimo – e da ultimo pressoché assente – di solfiti.

In linea con questa filosofia, il vitigno principe non può che essere il Pinot noir, storico vitigno locale che occupa il 93% delle vigne, disponibile in una decina di diverse varietà provenienti sia dalla Champagne che dalla Borgogna. Queste sono impiantate in quelle che qui si chiamano le “Contrée”, parcelle che differiscono l’una dall’altra per orientamento, pendenza, esposizione e così via, i cosiddetti “Lieu-dit” della Champagne, o “Climat” della Borgogna. Due i cru di particolare rilievo, “La Forêt”, e “La Géande”. Con la prima che dà vita a quattro diversi vini (Rosé des Riceys, il Coteau Champenois e due champagne, il Rosé de Saignée e il Blanc de Noirs) e la seconda utilizzata come vigna-laboratorio per studiare il comportamento dei sette vitigni storici della Champagne (Pinot Noir, Meunier, Chardonnay, Blanc Vrai, Buret, Arbane, Petit Meslier), proposti in un’omonima cuvée.

Les Riceys e Alexandre Bonnet rappresentano un connubio straordinario tra le tradizioni di Champagne e Borgogna. Con radici che affondano nella storia e un occhio rivolto al futuro, l’azienda continua a produrre Champagne di alta qualità che riflettono il terroir unico di Les Riceys. In un mondo dove la tradizione e l’innovazione si incontrano, Alexandre Bonnet dimostra che è possibile abbracciare entrambi, creando vini che sono veri capolavori di eccellenza e identità.

La Degustazione

Il terroir di Les Riceys gode di una struttura geologica molto particolare nella Champagne, formatasi nel Kimmeridgiano, all’epoca del Giurassico superiore, e per questo è molto simile alla zona dello Chablis, in Borgogna. Il sottosuolo è essenzialmente di tipo calcareo-marnoso o calcareo-argilloso, con ripidi pendii ed esposizioni molto diverse che drenano naturalmente il terreno. Il clima è semi-continentale fatto di inverni freddi ed estati calde, con precipitazioni moderate. Condizioni che agiscono favorevolmente sull’eleganza del vino, sulla generosità del frutto e sulla formazione degli aromi, dati evidenti in ogni calice degustato.

Champagne Les Riceys Rosé

Si tratta di un “rosé d’assemblage”, Extra-Brut, da Pinot Nero in purezza, che si contraddistingue per la grandissima piacevolezza di beva. Al naso spiccano il ribes, le spezie, in particolare il pepe nero, e un cenno di scorza d’arancia sanguinella. Un vino vivace, delicatamente tannico e decisamente gastronomico.

Champagne Vigne Des Riceys “La Forêt” Rosé de Saignée

Un “rosé de macération” Extra-Brut, da Pinot Nero in purezza, proveniente dalla Contrée “La Forêt”. Un’etichetta importante che, al naso, denota un vino più complesso e intenso rispetto al precedente. Anche qui ritroviamo i frutti di bosco, la scorza d’arancia e il pepe nero, sentori ai quali si aggiungono la ciliegia e la curcuma. La grande freschezza ne fa presagire l’immenso potenziale di invecchiamento, quello stappato oggi è, in effetti, ancora un bambino.

Champagne Vigne Des Riceys Blanc de Noirs

Il vino bandiera del Domaine, espressione delle uve di Pinot Nero provenienti dalle migliori Contrée. Al naso ritroviamo il ribes nero, poi la prugna gialla, il caprifoglio, la crosta di pane, note agrumate e balsamiche. Una bella complessità che al palato è esaltata dalla sapidità e dalla verticalità di questo vino.

Champagne Les Riceys Blanc de Blancs

Un assemblaggio di Blanc Vrai (Pinot Bianco) e Chardonnay nel quale ritroviamo la grande piacevolezza di beva che contraddistingue le etichette di questa azienda. Il naso vira verso note più esotiche, con un bel mango in evidenza che si aggiunge ai sentori più tipici di prugna gialla, erbe di campo, tiglio e mandorla. Anch’esso nettamente sapido, con un bel finale lungo.

Champagne Vigne Des Riceys “La Géande” 7 Cépages

Cuvée dei sette vitigni storici della regione: Pinot Noir, Chardonnay, Meunier, Pinot Blanc, Pinot Gris, Arbane et Petit Meslier. Al naso è un tripudio di dolci note di miele, marzapane, pasticceria e tabacco con intense incursioni mentolate e floreali che ne ampliano il ventaglio gusto-olfattivo. Il più sapido tra tutti i vini in degustazione, di grande eleganza, freschezza e lunghezza.

* I vini del Domaine Alexandre Bonnet sono distribuiti da Sarzi-Amadè

La continua evoluzione di un mito

Tanto è già stato scritto su questo ristorante, il più longevo tre stelle del mondo nonché uno dei templi in cui è nata negli anni settanta del secolo scorso la nuovelle cuisine. Un ristorante di cui si parla sempre troppo poco ma che merita di essere annoverato tra i migliori del pianeta. La stirpe dei Troisgros, attraverso il succedersi di ben quattro generazioni, rappresenta forse più di ogni altra il sangue blu in cucina, un mito tramandato di padre in figlio che non sembra conoscere appannamento. Due recenti date sono di particolare importanza per il ristorante: la prima è il 2017 l’anno del trasferimento dal centro di Roanne nella nuova splendida sede situata ad Ouches in aperta campagna, quel Bois sans Feuilles con una suggestiva sala d’ispirazione naturale disegnata dall’architetto Patrick Bouchain; la seconda è l’inizio dell’anno in corso momento in cui è stato formalizzato il passaggio da Michel al figlio César che, affiancato anche dal fratello Leo, dirige oggi con mano già salda la cucina.

Il compito spettante a César Troisgros non è certo facile e il confronto con il padre appare inevitabile, nonostante l’avvicendamento non sia stato brusco e repentino ma frutto di un lungo apprendistato, prima in giro per il mondo e, poi, dal 2010 nel ristorante paterno. Continuità ed evoluzione sono i punti cardine del nuovo corso, espressi in una cucina classica e moderna al tempo stesso in cui ogni grassezza è bilanciata da un’acidità sferzante, che costituisce il vero fil rouge dell’intero menù.

Una cucina sospesa tra spezie ed acidità

Esemplificativa in tal senso l’eccellente Tartelletta al sangue di maiale, come si trattasse di un black pudding con ribes, mela e pepe bianco. A spiccare è, poi, un sapiente utilizzo delle spezie in grado di dare profondità e complessità al piatto come nel caso dei Gamberi erbe, fiori e spezie, vero e proprio caleidoscopio di sapori in cui il succedersi di note balsamiche, amare, acidule porta infine verso l’India con persistenti sentori speziati. Sentori che si ritrovano anche nel magistrale San Pietro con salsa al burro leggermente speziata, mandorle, tamarindo e shiso, il quale costituisce probabilmente l’apice dell’intero menù. La parte dolce, di apparente semplicità, è altrettanto coinvolgente con piatti di ottima fattura e con interessanti giochi di texture, come la Panna cotta, rabarbaro e fragole, sebbene gli stessi lasciano un segno meno marcato rispetto alla parte salata.

Quanto al servizio risulta impeccabile e senza eccessive ingessature e la carta vini permette di compiere scelte interessanti a prezzi ragionevoli. A Ouches il futuro sembra essere assicurato sotto la guida della nuova generazione di Cesar ed è lecito aspettarsi un’ulteriore crescita nei prossimi anni per un ristorante su cui pare non tramontare mai il sole.

IL PIATTO MIGLIORE: San Pietro, burro, mandorle, tamarindo, shiso e spezie.

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Purezza, audacia, equilibrio

Si suole affermare che “la prima generazione crea, la seconda mantiene e la terza distrugge” ma qui da Maison Pic v’è l’eccezione che conferma la regola. Dopo nonno e padre, è ora il tempo di Anne Sophie Pic che non solo ha mantenuto il lustro dinastico ma negli ultimi tempi ha anche rigenerato l’idea e il concetto di cucina francese donando ai suoi piatti quella spinta contemporanea che negli anni precedenti appariva un po’ troppo soffocata. La purezza di sapori è il leit motiv dell’intero menù, l’esaltazione gusto-olfattiva di ogni singolo ingrediente rende ogni piatto una perfetta sinfonia. Tutti gli elementi contano, nessuno escluso, ogni gusto è percepibile e riconoscibile nonostante, in taluni casi, gli accostamenti aromatici siano variegati e all’apparenza configgenti tra loro.

Istinto femminile

Audacia ed equilibrio perfettamente integrati proprio come lo sono gli innesti orientali nei Berlingots con banon, the matcha, crescione, bergamotto, nell’Abalone ed escargots con liquirizia, aglio nero e The Buddha Ama Cha ovvero nella Scorzonera con purea di radici di prezzemolo, ventresca di maiale e salsa con sesamo nero, yuzu, grue di cacao, quest’ultimo il piatto migliore dell’intero percorso insieme all’Animella con camomilla e cavolfiore che viene cotta nella cera d’api, la cui nota dolce non rimane superficiale ma permea le fibre della carne donandole una consistenza vellutata e un sapore quasi etereo.

Una cucina che rappresenta il perfetto riflesso della personalità della sua sua autrice il cui essere autodidatta l’ha senza dubbio aiutata a defilarsi da schemi precostituiti per dare il giusto seguito al suo istinto di donna sensibile, scrupolosa e attenta al dettaglio. Molto interessante e decisamente azzeccata è la scelta di servire allo Chef’s table un singolo piatto del menù, in luogo dell’intero pasto, ciò che, da un lato,  consente a più persone di godere del bellissimo spettacolo che le cucine offrono (decine di cuochi che si muovono all’unisono, tagliano, condiscono, affettano, arrostiscono in ampi, futuristici e luminosi spazi), dall’altro, si permette al commensale di passare la maggior parte del tempo in sala ove la magnificenza degli arredi e l’alta professionalità della giovane brigata contribuiscono a nobilitare l’esperienza all’interno di questo tempio che celebra l’eccellenza della gastronomia internazionale.

IL PIATTO MIGLIORE: ex aequo: Scorzonera con purea di radici di prezzemolo, ventresca di maiale e salsa con sesamo nero, yuzu, grue di cacao; Animella con camomilla e cavolfiore.

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Maison: la casa di Sota Atsumi

In occasione dei tour gastronomici nella capitale transalpina, un consiglio frequente da parte di personale di sala e cuochi è quello di visitare Maison, il nuovo ristorante di Sota Atsumi, il giovane cuciniere giapponese che aveva portato alla ribalta un altro indirizzo assai interessante, il Clown Bar (uno dei migliori piatti di cervella che si possa avere la fortuna di mangiare): una visita è d’obbligo se si desidera saggiare il precipitato attuale della “bistronomie”.

Maison è un luogo incantevole, in cui l’architettura – a firma di Tsuyoshi Tane, colui che si era occupato del restyling di Kei dopo il riconoscimento del terzo macaron – è evidentemente concepita al fine di stimolare la convivialità (una casa, per l’appunto), di cui i tavoli sociali e l’ampio spazio davanti alla cucina ne sono riprova. Il centro del ristorante è la brace – il metodo di cottura prevalente -, di cui si occupa personalmente e pressoché in esclusiva lo Chef, l’unico vestito in nero, una sorta di ape regina intorno alla quale ruota il resto del personale di cucina, in bianco. Una menzione particolare merita, poi, la cantina, profondissima e ricca di rarità (non se si è alla ricerca di nomi altisonanti), la cui identità – chiara come in rari casi accade – è cesellata da Takashi Takebayashi, dai lunghi trascorsi in Piemonte.

Materia , grandi cotture e sfumature

La cucina di Sota Atsumi è fortemente concentrata sull’ingrediente – di qualità molto alta – e, come si è detto, predilige la brace come metodo di cottura. L’immediatezza con cui le portate sono costruite convive con una fitta rete di sfumature che, se colte, consentono di comprendere le ragioni del “culto” che ruota intorno a questo cuciniere. Anguilla, tuorlo d’uovo e spugnole è stato l’apice del pranzo, una cottura magnifica – turgida -, il tuorlo a dare grassezza e golosità e, a chiudere, la nota di terra e sapida delle spugnole. Un altro bel passaggio è stato Rombo affumicato, ostriche di Utah (Normandia) e cavoletti di Bruxelles: interessantissime l’affumicatura del rombo – eseguita nel piano più alto della brace, così da dare un leggero sentore “grasso” (nei piani inferiori erano in cottura le carni) -, la nota iodata delle ostriche nonché l’accoppiata amarotico-croccante dei cavoletti. L’Agnello da latte dei Pirenei in due servizi ha chiuso magnificamente la parte salata del percorso grazie alla sua succulenza – ancora una grande cottura – e alla trama amarotica conferita, in entrambi i passaggi, dalla parte vegetale. Uno dei dessert più interessanti del week-end è stato Torta alle pere, gelato alla vaniglia e salsa di maggiorana: il morso tumido della pera in contrasto con la croccantezza della tarte e una meravigliosa – davvero notevole – salsa alla maggiorana, intensamente aromatica e leggermente amara. Maison Sota si conferma uno dei ristoranti più interessanti di Parigi, soprattutto se si è alla ricerca di un inframezzo nel pellegrinaggio tra i mostri sacri della capitale.

IL PIATTO MIGLIORE: Anguilla, tuorlo d’uovo e spugnole.

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